Di libri sulle potenzialità non sfruttate del cervello umano è pieno il mondo. Volumi più o meno autorevoli, brevi o lunghi, pensati per gli addetti ai lavori o per il grande pubblico: ne trovate a bizeffe negli scaffali delle librerie di varia e perfino all'edicola sotto casa, se un po' più fornita. E pur non essendo il mio campo d'azione, ripongo grande fiducia nel progresso scientifico, nella medicina e nella neurologia. Tuttavia, le storie di super-cervelli ispirate a complesse teorie scientifiche e divenute film hanno rotto tanto le palle, e non potevano di certo passare inosservate agli occhi dello specialistà del banale, e cioè Luc Besson, che con Lucy (girato in IMAX e distribuito in Italia dal 25 settembre) torna ad angosciare la vita di chi alla Settima Arte vuole davvero bene.
Lucy fa ridere, ed è parecchio più brutto di quanto non mi aspettassi: la regia- piatta, invasiva e ipercinetica come poche altre -disturba talmente tanto la visione che ci si convince, per un attimo, di girarsi e trovare la troupe seduta accanto a noi. La Johansson è bella e inutile, Morgan Freeman è inutile senza neanche apparire bello. Se poi affidassi al criceto dei miei vicini di casa un budget analogo a quello speso per gli effetti speciali di Lucy, sono convinto che sarebbe in grado di girare almeno quattro lungometraggi migliori. Voglio essere positivo, e affermare che, dopo tanti bei film visti e ri-visti grazie alle meraviglie dell'home video e del digitale terrestre, fa sempre piacere vederne uno così irrimediabilmente orribile. Besson è ancora uno dei più vergognosi registi del mondo, ma anche quello che, al pari di pochi altri, vuole parlare di tantissime cose senza riuscire a spiegarne neanche mezza: un "dono", il suo, che gli ottantanove minuti di Lucy dimostrano mirabilmente.
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