Dispiace pensare che David Cronenberg, 71enne canadese, sia ormai un regista anziano di cui vedremo ancora poche pellicole (sempre ammesso che non faccia come De Oliveira, che a 105 anni continua a sfornare un film all'anno). Il rammarico aumenta dal momento in cui corro a vedere il suo nuovo Maps To The Stars, che mi cattura dalle prime due inquadrature e mi conquista nell'arco dei venti minuti iniziali. Per l'ennesima volta (la ventunesima, per l'esattezza), mi rendo conto che Cronenberg è uno dei pochi geni del cinema ancora pienamente attivo, ancora intento a realizzare film per le masse che disgustino le masse, ancora fieramente attaccato alla propria idea di arte.
Come il precedente capolavoro Cosmopolis, Maps To The Stars risulta uno dei film meno commerciali (o meglio, commerciabili) del nostro tempo: Cronenberg lo sa benissimo, ma non se ne cura, e gira la storia di una famiglia di psicotici di successo, gli Weiss. Benjie (Bird) è un 13enne tossicomane e star televisiva, mamma Christina (Williams) tenta di stare dietro al figlio e conta le decine di milioni di dollari che questi guadagna, mentre papà Stafford (Cusak) è un terapista che scrive libri, ha un programma new-age in tv e riceve, nella propria lussuosa villa sulle Hills, le più prestigiose stelle di Hollywood. Ma c'è anche una figlia, Agatha (Wasikowska), uscita di fresco da un manicomio sulla East Coast e apparentemente smaniosa di lavorare, come assistente personale, per qualche personaggio famoso: la assume Havana Segrand (Moore), star in totale declino psicofisico che rincorre il sogno di ottenere la parte (che nell'originale fu della madre) nel remake di un vecchio melodramma. In realtà, gli interessi di Agatha nel tornare a Los Angeles sono ben altri, e non tarderanno a manifestarsi.
Opera stupenda e quasi mai perfetta, Maps To The Stars dimostra che il suo autore è sempre alla ricerca di qualcosa, qualcosa che riguarda il concetto di mutazione: nel film nessuno è ciò che sembrava essere all'inizio. Il fuoco (elemento chiave di tutta la storia) e la carne, specie se insieme, sono belli, e le ferite interiori ed esteriori di Agatha hanno bisogno dell'intera durata del film per svelarsi compiutamente. Ad Hollywood, in casa Weiss, sui set, nelle ville e nei giardini, nei negozi di moda e nelle piscine dei vip, nessuno è un eroe. Le logiche di questo tipo di cinema sono quelle a cui siamo meno abituati, e non dobbiamo stupirci o provare vergogna se non ci ritroviamo a fare il tifo per nessuno. Il personaggio con cui può risultare piacevole identificarsi è una figura del tutto assente: per un'ora e mezza si susseguono, sullo schermo, pseudo-esseri umani antipatici, stronzi, annoiati, cinici, bastardi e psicopatici. Nessuno di loro svetta sugli altri, e per nessuno di essi il regista sembra dimostrare antipatia o simpatia. La società hollywoodiana (messa in scena non tanto casualmente da un canadese) si rivela disfunzionale, devastata da un passaggio troppo rapido dall'edonismo dell'era Schwarzenegger al liberismo chic degli anni '10 (in casa Weiss si bevono analcolici, si fumano sigarette elettroniche, si mangia tanta verdura, si definisce il Dalai Lama <<una persona squisita che andrebbe frequentata più spesso>>). E questa indagine sociologica è solo uno dei molti argomenti affrontati dal film, quello forse più evidente e di più facile lettura. Perchè Maps To The Stars è un horror dell'anima che parla di mille cose, pone tante domande (ad esempio, <<può l'incesto essere ereditario?>>) le cui risposte sono spesso relative.
Con quella inquadratura finale a volo d'uccello, Cronenberg scatta consapevolmente un'altra fotografia del mondo di oggi: il vuoto esistenziale viene colmato solo da sesso malato, droge legalizzate e violenza. Il successo portato all'eccesso conduce al piacere, che portato all'eccesso conduce al vuoto.
Un film che di nuovo prende tutto ciò che è caro a Cronenberg: la psicoanalisi, il sadismo, la violenza, l'erotismo, il melò, la critica alla superficialità del capitalismo e quella del cambiamento del genere umano. Non capire che un autore parla di noi, rifiutare di comprendere che ogni espressione grottesca in Maps To The Stars è più reale della realtà stessa, significa non essere in grado di riconoscere uno dei cinque, dieci più grandi registi viventi. E chiedersi come si faccia a 71 anni a rinnovarsi e a girare ancora film di questo livello sarebbe come chiedere a Michelangelo come faceva a dipingere in quel modo? Uno ci riesce e basta. Se poi i critici sono miopi e il pubblico demente, pazienza. Ne riparleremo tra una ventina d'anni.
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