venerdì 28 marzo 2014

[Recensione] Captain America- The Winter Soldier

Indizi.
I suoi genitori sono morti.
Ma va'...
Di vecchiaia, però.
Ah...
Infatti, è stato ibernato a lungo, si è conservato benissimo e ora ha compiuto 95 anni.
Ha il costume più didascalico della storia del fumetto. 
Ebbene...
Si parla di Capitan America, uno dei più difficili, sfortunati e ridicoli supereroi di sempre, nonchè di uno dei più anziani (appare per la prima volta nel 1941, come mezzo di propaganda nazionalista, sugli albi della Timely Comics, poi divenuta Marvel Comics). Steve Rogers si è risvegliato in The Avengers, è andato a farsi prendere per i fondelli a New York, e ora serve il paese liberando gli ostaggi di mercenari francesi sulle navi. Lo affiancano la collega Vedova Nera (Scarlett Johansson) e il diretto superiore Nick Fury (Samuel L. Jackson), che non sa di essere divenuto il bersaglio mobile dell'Hydra, l'organizzazione nazista (già presentata nel primo film) che stavolta viene guidata direttamente da "Mister Parrucchino Ambulante" Robert Redford (che non dimostra i suoi 123 anni neanche quando pratica, servendosi di un taser con controllo a distanza, buchi di cinque centimetri nel petto dei colleghi più onesti). Fatto sta che lo SHIELD è nel panico più completo, e nessuno può fidarsi di nessuno. Nessuno a parte Cap, che aiutato da Vedova Nera e Falcon (A. Mackie), conosce esattamente la differenza fra i buoni e i cattivi: i cattivi gli sparano addosso, i buoni no.
Capitan America è un clown, il clown della Marvel. Però è anche il clown dell'America, un proletario piccolo piccolo che non ha gusto in niente, non ha passioni o interessi e capisce pure poco, l'uomo medio (basso) che vuole soltanto servire il suo paese, senza avere neanche le premesse fisiche per riuscire in questo scopo. Così la Scienza lo prende, lo modifica, lo migliora e lo rende un esempio per tutta la nazione, oltre a un bel ragazzo che sembra capire di tutto fuorchè di moda. Se capiva tanto di moda, sceglieva un costume diverso (anche Superman ha un costume ugualmente brutto, ma venendo da un altro pianeta è giustificato). Tuttavia, Capitan America rimane simpatico nella sua obsolescenza e "sfigataggine" (i suoi amici sono tutti morti, l'amore della sua vita è una decrepita in fin di vita che ascolta vecchi dischi e vota repubblicano), e i suoi film si riconfermano, grazie a questo The Winter Soldier, mirabili esempi di un cinefumetto più semplice ma estremamente più "sincero". Ancora una volta, il sistema militare, la propaganda, lo sfruttamento dell'essere umano da parte dell'ordine costituito divengono le tematiche messe a fuoco dalla macchina da presa (stavolta diretta dai fratelli Russo, quelli di Tu, io e Dupree): e questa piccola e feroce analisi, stavolta,  predilige i registri e i toni del film di spionaggio classico a quelli- ben noti al Joe Johnston del primo capitolo -del cinema bellico. E per quanto il suo costume possa trarre in inganno, il Capitan America cinematografico è una figura estremamente meno retorica di quanto ci si potrebbe aspettare da uno che va in giro con un costume simile, e perfettamente in grado di regalarci 136 minuti di inaspettato e genuino divertimento cinefumettistico.

mercoledì 26 marzo 2014

[Recensione] Lei

Her è un complemento oggetto, oltre al titolo del nuovo film di Spike Jonze. Her e non She: una distinzione cui la traduzione italiana (ormai tanto inusuale quanto insensata, specie in questo caso) non rende giustizia. Her perchè Lei, Samantha (Scarlett Johansson o Micaela Ramazzotti, doppiatrici di quella che è "soltanto" una voce), è un oggetto, un sistema operativo di tipo OS.1 che viene regolarmente acquistato dallo scrittore epistolare degli altri Theodore (J. Phoenix), uomo finito e logorato sul piano sentimentale, malinconico per natura e prigioniero di ricordi che tornano- perchè, alla fine, ritornano sempre -sottoforma di flashback a loro volta simili a film, a frammentari stralci (o megabyte) di quello che è il suo disco fisso. Il melodramma costruito attorno all'amore fra l'uomo e il proprio computer non è una novità: chi si ricorda di I Love You di Ferreri (o S1m0ne, o Ruby Sparks...), sa bene di cosa si parla. Ciò che conta è tutto il resto: l'ambiente in cui Theodore si muove, questo futuro fatto di superfici levigate e minimali, di pantaloni ascellari orrendi e camicie monocromatiche; un mondo e un universo irreale, sgombro da inquinamento, automobili, delinquenza, e forse- o almeno così sembra -perfino dalla morte. La parola e non l'azione è padrona indiscussa della scena, la vera protagonista del film. I dialoghi (giustamente premiati anche ai recenti Oscar) fra Theodore e Samantha sono lo strumento tramite cui Jonze scandisce la propria opera, che passa davvero dall'essere un "film sulla masturbazione" (A. Abruzzese) ad "un'opera tragica sul solipsismo" (Giulio Sangiorgio), pur rimanendo, alla base, una love-story canonica. E con ogni probabilità Lei è, ancora prima di un superbo trattato sui rapporti di coppia, uno dei più grandi film di fantascienza di sempre. Ancora una volta, Jonze sperimenta, trova la propria forza di autore nel raccontare molto mostrando poco (l'assenza praticamente totale di una connotazione geografica e temporale porta a dubitare perfino che si parli del nostro mondo). Gli unici effetti speciali sono le canzoni udite in cuffia (gli Arcade Fire, quando non cantano, sono perfino godibili) e le scenografie eteree e permanenti di K.K. Barrett. A Joaquin Phoenix spetta l'arduo compito di far poggiare sulla propria straordinaria interpretazione tre quarti del film. Per tutto il resto, Lei rappresenta tutta quella meravigliosa magia a cui vorremmo assistere ogni volta che ci sediamo in una sala cinematografica.

mercoledì 19 marzo 2014

[Recensione] 47 Ronin

Il grande Lucio Fulci, nel corso di una lunga intervista del 1994, disse: <<Da dieci anni a questa parte, il cinema copia. Fra altri dieci, inizieranno a rifare tutto>>. Ebbene, il Maestro "ci aveva dato", solo che non poteva immaginare fino a dove l'usanza del remake si sarebbe spinta. All'epoca, era una prassi ristretta a filmetti prevalentemente di genere degli anni '40 e '50, che venivano riproposti in chiave moderna con budget ridotti e spesso pensati per la televisione. Peccato che, come spesso accade, questa moda si sia spinta un po' troppo oltre, arrecando quasi sempre danni vergognosi e impensabili.
Se già da parte mia nutro sempre una certa diffidenza verso il remake (specie se hollywoodiano), trovo direttamente priva di senso la scelta che prevede il rifacimento di un qualcosa di già ottimo e perfetto di suo. E' il caso di questo 47 Ronin di Carl Rinsch, remake de La vendetta dei 47 ronin (1941) di Kenji Mizogouchi, che- per chi non lo avesse mai sentito nominare -è considerato all'unanimità uno dei più grandi registi di sempre. Potete controllare sul web o consultare i dizionari di cinema (per Morando Morandini, è addirittura il più grande regista di tutti i tempi, superiore anche a Stanley Kubrick) per appurare l'importanza che riveste questo autore nella storia del Cinema, oppure- meglio ancora -potete andare a cercare quella manciata di film di Mizogouchi disponibili in Italia (sono una decina di titoli) e guardarveli. Nello specifico, Raro Video ha presentato qualche anno fa una bella edizione curata da Enrico Ghezzi proprio de La vendetta dei 47 ronin.
In maniera analoga a quanto ho già fatto per il recente Robocop di Josè Padilha, non parlerò di 47 Ronin. Rifare Mizogouchi è, a prescindere, sbagliato, però è successo. Magari è un caso isolato che sta venendo, giustamente, massacrato da pubblico e critica. Ma se non fosse così? Se davvero, fra qualche anno, ci ritrovassimo davanti ai remakes di Quarto Potere, 2001: Odissea nello spazio, Luci della città, La dolce vita, Pulp Fiction, La finestra sul cortile, I quattrocento colpi o Il settimo sigillo, non ci sarebbe da preoccuparsi? E guardate che la colpa non è dell'estimatore integralista e appassionato che si ostina a difendere a spada tratta gli originali: infatti, chi gira remake pone lo spettatore di fronte ad un prodotto che ripropone un altro prodotto appartenente alla medesima arte. Si va oltre un certo tipo di confronti, tipo quello del <<Meglio il libro rispetto al film>> o viceversa, perchè cinema e letteratura sono comunque governati da regole diverse. Quando io, invece, guardo 47 Ronin, vedo tutto ciò che nel '41 era Arte cinematogafica pura ridotto a grafica comuterizzata; assisto, inerme, all'omicidio di splendidi personaggi dal volto umano trasformati in cazzoni armati provenienti da un manga di serie C che corrono da una parte all'altra dello schermo a 3000 chilometri orari. E così mi ritrovo di fronte ad un pessimo risultato a livello di remake e anche all'ennesimo, mediocre filmetto di merda con spadoni e i samurai che urlano. 

venerdì 14 marzo 2014

[Recensione] Need For Speed

Tutti gli amanti dei videogiochi non potranno fare altro che apprezzare Need For Speed. Peccato che io non sia un amante dei videogiochi: o meglio, i videogiochi ormai mi piacciono molto solo se visti giocare da terzi o, al limite, se giocati a piccole dosi, per una, due ore e non di più. E' proprio un discorso di passione. So benissimo che escono dei giochi fantastici su console sempre più incredibili e fantascientifiche (specie per uno come me, fermo alla sesta generazione), ma la cosa mi tange pochissimo. Se è vero che la vita è un insieme di scelte, io da un certo momento in poi ho scelto di non dedicarmi ai videogiochi, a cui ho preferito la musica, il cinema, i fumetti, la lettura e altre cose. Detto questo, non ho niente contro i videogiochi, nè tantomeno contro i videogiocatori. Però, nutro un astio notevole verso chi si ostina a produrre film ispirati ai videogiochi (un mercato che meritava di essere chiuso già ai tempi del film Super Mario Bros., ma che è rimasto inspiegabilmente aperto), e ancora di più verso coloro che concedono a queste operazioni commerciali un plauso critico quasi sempre immeritato. Dunque mettiamo per un attimo da parte l'imparzialità e il nerdismo di una determinata categoria di esseri umani e proviamo a fare i seri: la serie ludica di Need For Speed, sviluppata da Electronic Arts a partire dal 1994 (anno in cui esordì sul 3DO, una console che tutti dicono di conoscere anche se in Italia non ha venduto neanche l'ombra di un joypad) e giunta all'invidiabile cifra di ventiquattro capitoli (l'ultimo è uscito lo scorso novembre), aveva davvero l'urgente bisogno di una trasposizione cinematografica? E ancora: il cinema automobilistico, ormai prigioniero di se stesso e schiavo delle proprie indomabili e sempre più sgraziate creature (leggere alla voce Fast And Furious), necessitava di farsi ancora del male in questo modo?
Questo Need For Speed di Scott Waugh è nei cinema di mezzo mondo (beata l'altra metà!) da ieri, e la colpa non è da attribuire nè a quei rassegati dei videogiocatori, nè agli appassionati del cinema di genere chase movies. Si capisce benissimo che la Dream Works di Spielberg e la stessa Electronic Arts non sapevano minimanente cosa fare con un soggetto come questo. Basta andarlo a leggere su Wikipedia e pensare che ne è venuto fuori un lungometraggio di 130 minuti (sono due ore e dieci, signori!) per mettersi a ridere. Forse non è neanche dignitoso prendersela con il regista o con lo sceneggiatore (un certo George Gatins, fratello di John, regista, produttore e sceneggiatore piuttosto noto ad Hollywood), dato che da uno script simile poteva esser tratto qualcosa di decente solo se si chiamava Dio in persona a dirigere. 
Veniamo al "cast": in ordine sparso, attori misconosciuti e che non sentivo il bisogno di conoscere; un Michael Keaton incommentabile tanto è imbarazzante; e, ancora una volta, chi sembrava tanto bravo nel piccolo schermo, sul grande proprio non rende, non ce la fa. E sto parlando di Aaron Paul, il Jesse di Breaking Bad che stavolta è stato preso, è stato pompato ed è stato infilato dentro una macchina con cui deve sfasciare mezza America per vendicarsi di quelli che lo hanno mandato per due anni in galera. Poco da aggiungere sui personaggi di contorno: le donne sono solo dei troioni messi lì a far vedere le tette e basta, e gli uomini sono tutti gonfi e tutti teste di cazzo in uguale misura. 
<<NEL NOSTRO FILM NON ABBIAMO USATO IL COMPUTER!>> urlano da mesi i produttori, evidentemente fieri del risultato. Questo è vero: per quanto insolito possa sembrare (si parla di un film tratto da un videogioco, quindi da un qualcosa che è realizzato grazie ad un computer), Need For Speed è stato girato quasi totalmente senza l'ausilio degli effetti speciali digitali, prediligendo un lavoro stile anni '70, con molti stuntmen, molte auto e molti incidenti reali. Peccato che questa eccessiva voglia di realismo non aggiunga nulla alla pellicola: certo, fa comunque piacere vedere un qualcosa di lontano dai colori fastidiosi di Adrenalina Blu e dal montaggio ignobile di Fuori in 60 secondi, ma qui manca la motivazione di fondo. Uno spettatore dotato di cervello deve chiedersi <<Perchè quella Mustang sta volando?>> oppure <<C'era davvero bisogno di questa scena?>>. Così, ci si ritrova di fronte ad un prodotto che, nel suo voler essere più rudimentale ed "economico" (66 milioni contro i 160 dell'ultimo Fast And Furious), non è assolutamente migliore rispetto alla concorrenza: anzi, a momenti sembra di vedere l'episodio pilota di una serie televisiva brutta e scema ispirata a Fast And Furious ma con l'attore di Breaking Bad
La mia speranza? che non diventi un fenomeno di costume, e che quindi non faccia presa sui ragazzetti di undici, dodici anni. Al massimo, potrà piacere a qualche quarantenne buzzurro e coatto che non vede l'ora di abbandonare la sala per rifare tutto per strada. 

lunedì 10 marzo 2014

[Recensione] Snowpiercer

Ho visto e amato Snowpiercer da subito, lo scorso venerdì.
Un film così ci voleva, e vorrei scriverne a lungo, riempire decine di cartelle per commentare, descrivere e condividere le sensazioni fortissime che mi ha scaturito la sua visione. Purtroppo, non ho avuto tempo di farlo nei giorni scorsi, e anche adesso non è molto. Dunque, sarò breve.
Con ogni probabilità, è uno dei migliori post-catastrofici di sempre. 
Senza dubbio, un film ferocemente politico dalla prima all'ultima scena. E attenzione a non confondere la retorica con la politica: Snowpiercer di Bong Joon-ho non è retorico. Al massimo, racconta- anche se in maniera diversa -cose che hanno già detto in molti. Ma, in questo caso meno, male che c'è ancora qualcuno che ribadisce le solite cose. 
E per raccontare questa storia incredibile il giovane regista coreano ha dovuto faticare non poco: dopo aver letto, dieci anni fa, il fumetto Le Transperceneige (mi dicono che sia bellissimo, ma non l'ho letto, anche se la Editoriale Cosmo lo ha pubblicato di fresco), ha contattato il grande Park Chan-wook, che nel 2005 acquista, tramite la casa di produzione Moho, i diritti cinematografici del film. Dopo varie traversie, il progetto parte nel 2008 in Corea del Sud, ma ha un pessimo esito, col governo e i produttori  ad intralciarne la lavorazione. Solo nell'aprile del 2012, con fondi in larga parte francesi e statunitensi e un cast di stelle internazionali (Chris Evans, Ian McKellen, Ed Harris e Tilda Swinton, fra gli altri), il film "riparte" in Europa, con le riprese svoltesi in Repubblica Ceca.
La storia è clamorosa.
Gli effetti speciali non stonano.
Il film fa stare bene perchè emana una libertà artistica piena: un aspetto che traspare dalle numerose scelte "impopolari" della sceneggiatura.
Chris Evans è insolitamente adatto al ruolo, McKellen fa il suo, Ed Harris è ad un livello altissimo, ma l'interpretazione più straordinaria va alla Swinton nel ruolo della "Ministra", uno dei più cattivi, terribili, odiosi personaggi della storia del cinema.
Colonna sonora di Marco Beltrami estremamente classica e suggestiva.
99% delle scene girate dentro il treno, con la macchina da presa che ricorre a soluzioni incredibili. Per un attimo sembra di tornare quasi alla limousine di Cosmopolis di Cronenberg.
Alla fine, è incredibile quanto un film simile sia lontanissimo da ciò che siamo abituati a vedere oggi. Bong Joon-ho non crede minimamente nella razza umana, e per oltre due ore non fa altro che ripetercelo. E lo fa con un tocco e una maestria formidabili.
Se si ama il cinema, Snowpiercer è davvero imperdibile.

domenica 9 marzo 2014

Matt Sorum's Fierce Joy, "Stratosphere" [Suggestioni uditive]

Matt Sorum's Fierce Joy
Stratosphere (Rok Dok Recordings, 2014)

★★★½















Notte fonda. 
Sono al computer a scrivere di musica rock. In cuffia mi risuona per la terza volta dal pomeriggio Stratosphere, secondo album solista di Matt Sorum; ormai lo conosco, ma questo è l'ascolto migliore, perchè, come già aveva scoperto Novalis, sono convinto che la musica sia una creatura che la notte dà il massimo.
Guardo il Matt Sorum di oggi, una rockstar americana (ma norvegese da parte di padre) di cinquantaquattro anni un po' timida e un po' dandy, ma con le idee parecchio chiare: le stesse idee che, a poco più di vent'anni, lo portarono in studio come turnista di Tori Amos (allora leader della band Y Kant Tori Read) e che, nel 1985, lo fecero diventare il batterista dei Cult, la gloriosa band fondata da Ian Astbury in cui Matt militò fino all'autunno del 1990. Fu allora che, dopo un'audizione leggendaria, entrò a diritto nei Guns N'Roses, sostituendo di fatto Steven Adler. Con loro incise due album e partecipò al più lungo tour della storia del rock (per i profani, il Use Your Illusion World Tour), prima di essere cacciato (letteralmente) da Axl Rose nel 1998. 
Complice una serie di sfortunati (o fortunati) eventi, il buon Matt è stato, in ordine di tempo, l'ultimo ex-membro dei Guns ad imboccare la carriera solista: ne è testimonianza il misconosciuto Hollywood Zen (Brash Music, 2003), prima occasione per il batterista di dar prova delle sue capacità compositive, messe in dubbio già negli anni novanta proprio da Axl (lo considerava poco più di un turnista). E per quanto sia passato talmente inosservato da non venire neanche recensito dai più autorevoli biografi dei GNR (su tutti, l'attento e impagabile Ken Paisli), Hollywood Zen risulta ancora, dopo undici anni, un'opera più gradevole di tutti i dischetti autoprodotti da Izzy Stradlin e venduti su iTunes dal 2005 in poi. 
Oggi, dopo undici anni, Matt Sorum si è lasciato definitivamente alle spalle i problemi esistenziali narrati nella sua Confession: è un musicista a tempo pieno che va a promuovere l'arte a giro per le scuole americane, un produttore indipendente che prende parte a vari progetti (attualmente, è nei Camp Freddy di Dave Navarro) e che, di quando in quando, viene chiamato a collaborare a tour (recentemente, ha rimpiazzato Mikkey Dee nei Motorhead) e album in studio. E il suo nuovo progetto solista- rinominato Matt Sorum's Fierce Joy su consiglio di Lemmy Kilmister e benedizione di Ringo Starr -è figlio di questa iperattività musicale. Si sente già dal sontuoso Intro la smania di "spippolare", di manipolare il suono, di allontanarsi dal sound hard rock tipico dei Guns e dei Velvet Revolver e dal punk rock dei Neurotic Outsiders. Con la successiva The Sea siamo su una spiaggia hawaiana, la sabbia è viola, le onde dell'Oceano sono screziate di acido lisergico e il signor Matt Sorum una canzone così, molto probabilmente, non la scriverà più per il resto della sua vita. Così come la splendida, malinconica chitarra accompagnata dagli archi (veri e non sintetizzati) di Goodbye To You suona come totalmente estranea al panorama sonoro a cui ci aveva abituati il batterista. Batterista che, in Stratosphere, per scelta non ha mai preso in mano le bacchette: Matt, infatti, in questi undici anni ha imparato a suonare chitarra, basso e pianoforte, e questi suona, omaggiando nei suoni e nei testi la musica che lo ha indotto a suonare sin da piccolo. Ritroviamo ovunque l'ombra del Bowie di Ziggy Stardust (dall'eloquente ma deboluccia What Ziggy Says alla più solida Gone, da Josephine alla sbiadita conclusione The Lovely Tear Drop), dei Beach Boys (Land Of The Pure), di Hendrix (Lady Of The Stone) e dei grandi folk-singer del passato (notevole, in questo senso, la poesia-tributo Ode To Nick Drake). Peccato soltanto che i momenti peggiori del disco siano proprio quelli che vorrebbero suonare più hard n'heavy (Ford The Wild Ones, Killers N Lovers) e che spesso Matt si lasci trasportare un po' troppo dalla propria retromania, perdendosi nei meandri dell'effetto sonoro rudimentale, nell'eccesso di percussioni e arrangiamenti orchestrali e in una certa retorica dei testi (con tutto il bene che gli si può volere, come autore di canzoni non è Rod Stewart o Paul McCartney) . Per il resto, Stratosphere è un album ben prodotto, i Fierce Joy sono bravi musicisti e il disco promette di ricevere quella quantità di attenzioni che furono negate, undici anni fa, al suo sfortunato predecessore. 

venerdì 7 marzo 2014

[Recensione] 300- L'alba di un impero

Breve premessa per coloro che non hanno visto il primo film del 2007 

Nel 480 a.C. un plotone di trecento soldati americani seminudi lascia Sparta per andare a combattere contro quarantamila ribelli iraniani, iracheni e afgani. Muoiono tutti al grido di <<Ricordatevi di Alamo!>> e vengono ricordati, nei secoli a seguire, come i più belli eroi della storia dell'occidente.
Fine?
Sette anni dopo...

... mentre i trecento eroi delle Termopili resistono come bestie, nella ridente località marina di Capo Artemisio lo stratega Temistocle (Stapleton) guida un maxi-esercito alleato contro la marina iraniana di Serse (Santoro, non Michele, bensì Rodrigo); quest'ultimo è a sua volta aiutato, in battaglia, dall'avvenente regina-ninja Caria Artimisia I (Eva Green), sulla carta una donna greca a tutti gli effetti, ma all'atto pratico una folle e sanguinaria condottiera di Alicarnasso "afflitta" da simpatie filosocialiste e con la passione per i completi sadomaso vintage. 
Ora- e parlo da patito della sua opera -Frank Miller è un filonazista alcoolizzato e mezzo pazzo che ha bisogno di prendere le sue pillole come molti di noi. Okay, mi sta bene. Non faccio una piega di fronte a nulla, guardo The Spirit due volte, ingoio amaramente la pubblicità di Gucci Guilty Pleasure con Chris Evans e la Evan Rachel Wood, compro (pagandolo profumatamente) Sacro Terrore (Bao, 2012) e aspetto con ansia la ristampa della sua opera integrale messa in cantiere dalla RW Lion. Faccio tutto questo perchè Miller è un autore che ammiro, uno dei più grandi fumettisti di tutti i tempi, con i suoi pregi e i suoi difetti. Non so dire quando e se Xerxes uscirà, ma sono certo che lo leggerò. Tuttavia, posso aspettarmi molte cose, ma non di vedere prima il film e poi il fumetto: ma, si sa, il cinema fa miracoli, e così, a sette anni di distanza dall'atroce capitolo precedente, ecco 300- L'alba di un impero, che esce appunto prima della graphic-novel che dovrebbe averlo ispirato.
Cosa c'è da sapere di nuovo? Praticamente nulla, se non che il cambio di regia, passata da Snyder all'israeliano Murro, non ha arrecato alcuna modifica agli incalcolabili strati di patina computerizzata che avvolgevano il primo film, e che Miller- per fortuna -ha curato solo il soggetto della pellicola, senza intervenire come secondo regista. Per il resto, 300- L'alba di un impero si segnala- analogamente al suo predecessore -come una visione traumatica: sin dal prologo, non si capisce se siamo noi a seguire il film, o se è il film a seguire noi, rincorrendoci e molestandoci per oltre un'ora e mezza. Non si percepisce mai la sensazione di essere spettatore di un qualcosa che un minimo di attenzione lo necessità. Verrebbe da dire che Murro non ha tanto girato un film, quanto ripreso dei micro-spot pubblicitari (il prodotto pubblicizzato può variare dalle armi di Artimisia agli addominali dei soldati greci) in cui nulla deve mai durare più di trenta secondi, e ha montato tutto assieme. Seguendo dunque le orme di Snyder (che ha seguito per ben sei anni questo progetto prima di affidarlo a terzi), ci troviamo di fronte ad un nuovo vandalo della Settima Arte che, adottando regole e tempi consoni alla pubblicità, al videoclip cafone e ai videogiochi, li reinserisce in un contesto cinematografico. Deciso questo, visto che il soggetto è misero e la sceneggiatura lascerebbe presagire la durata di un cortometraggio, la produzione ha pensato bene di aumentare il numero di attori (o di modelli Calvin Klein), e ha puntato un po' di più sulla f-i-c-a: chi meglio di Eva Green, un'attrice che da tre anni ormai stenta a lavorare e accetta qualunque ruolo per un pezzo di pane e due spiccioli? Siccome poi il marketing è importante, sporchiamoli pure questi rudi guerrieri, ma non troppo: denti bianchi che si illuminano al buio, polvere in misura ridotta, qualche mèche bionda sparsa qua e là, sangue molto scuro e magari, dove possibile, assorbito con Lines Seta Ultra.
Comprensibile che Miller, in un delirio alcoolico che evidentemente funziona al contrario di quello di Bukowski, ha perso l'ispirazione e non ha più nulla da dire. Comprensibile anche che ben poco si poteva pretendere dal sequel di uno dei più brutti film di tutti i tempi (ai tempi dell'uscita, nel 2007, c'è chi parlò del "peggiore film degli ultimi trent'anni", e neanche esagerando troppo). Però non si può scrivere un film così male. Chissà se si alzerà in piedi la consueta compagine degli ottimisti (che purtroppo sono molti più di 300 coglioni) per pronunciare la dannosa frase <<Vabbè... ci sarà qualcosa di interessante a livello visivo...>>. E invece no. Mi dispiace, ma esteticamente il film è una vera merda, con colori piatti, seicento ralenti inutili ed effetti fotonici odiosi. E poi qualcuno spieghi a questo Murro- che è giovane, soltanto alla sua seconda regia e ancora riscattabile -che nei film normali vengono dosate le scene di azione e scene di panico, scene di amore e scene di dialogo: tutto questo, in 300-L'alba di un impero, non sembra però essere indispensabile. Infatti, a prescindere che i personaggi si squartino o si bacino, sussiste lo stesso movimento di macchina, la stessa fotografia, lo stesso montaggio e la stessa colonna sonora. E nel finale è tutto talmente frenetico che io, da un certo punto in poi, ho veramente fatto fatica a distinguere i cattivi dai buoni.
Ma, a conti fatti, 300-L'alba di un impero è solo il brutto sequel di un film già bruttissimo? Non proprio: al suo interno alberga  il vuoto totale del cinema blockbuster americano contemporaneo ed è possibile scorgervi la morte del cinecomic un po' più cupo e crudo. Una minchiata da denuncia penale. 

mercoledì 5 marzo 2014

[Recensione] Pompei

Esisterà, anche se per un convinto cinefilo, un genere che sin dalla tenera età viene prontamente evitato? Sì, e almeno nel mio caso, quel genere è il "peplum", o il film di "sandaloni", come li chiamava la mia povera nonna, altra devota cinefila. Non ho mai retto i pomeriggi di Rete 4 in compagnia di Maciste, Sansone e Ursus, come non ho amato nessuno dei trenta film su Ercole (no, neanche Ercole al centro della terra di "sua maestà" Mario Bava mi è mai piaciuto, per quanto avveniristico e girato cento volte meglio di tutti gli altri potesse essere) o le famigerate serie televisive di Italia 1; non mi piaceva la piega più storica dei peplum (trovo Spartacus il peggiore film di Kubrick e sono uno dei pochi cittadini italiani a non aver mai digerito Il gladiatore), ho sempre disprezzato ferocemente le incursioni bibliche dei vari Ben Hur e I dieci comandamenti, nè sono uscito di testa di fronte alla moda del "nu-peplum" iniziata col mediocre Troy (2004) di Petersen e ulteriormente peggiorata con i vari Scontro di titanti, Furia di titani, Hercules 3D e altra roba in confronto a cui una puntata di Xena sembrava diretta da Orson Welles. In seguito all'avvento di questo nuovo filone del "rinato" cinema mitologico-avventuroso, sono state attuate due regole molto precise:
1) I film compresi in questo genere devono tutti peggiorare, in forma e contenuti, ciò che poteva risultare godibile e positivo nelle pellicole americane e soprattutto italiane degli anni '50 e '60.
2) I film compresi in questo genere devono essere girati da una buona fetta dei peggiori registi che lavorano oggi.
E forse è proprio in virtù di questa seconda regola che non poteva esimersi dal girare un "sandalone" anche il britannico Paul W.S. Anderson, creatore della saga Resident Evil, marito di Milla Jovovich e noto, nell'ambiente di Hollywood, come "il Becco". E il Becco ha impiegato sei anni a preparare questa merda di film, per cui sono stati spesi- da una produzione per metà americana e per metà tedesca -80 milioni di dollari; soldi con cui, visti i problemi sorti negli ultimi mesi, lo stato italiano poteva ristrutturare una buona parte della vera Pompei. A vestire i panni del protagonista schiavo/gladiatore bretone Milo è stato chiamato il nobile Kit Harington (classe 1986), discendente diretto di Carlo II e inespressivo bietolone da tenere nelle macellerie modaiole di Hollister piuttosto che di fronte alla telecamera: a riprova che la televisione e il cinema sono ancora due mondi fortunatamente molto distanti- alla faccia di chi afferma il contrario riempiendosi la bocca di falsità e nomi assurdi -va fatto presente che Anderson ha scelto questo attore perchè lo aveva notato nel ruolo di Jon Snow de Il trono di spade (dove poi è altrettanto incapace). 
Per il resto, è semplice commentare la sceneggiatura e l'aspetto visivo di Pompei: un film talmente brutto e idiota da incitare lo spettatore a voler fare tutt'altra cosa che osservare lo schermo. Ogni personaggio che appare anche solo per un minuto lascia subito capire quale non-ruolo ha e che fine farà. Ogni scena è insulsa, fastidiosa, vuota. Gli effetti speciali, unico vero cavallo di battaglia della saga di Resident Evil, sono veramente gestiti male. E, più in generale, Pompei non è brutto rispetto agli altri film di Anderson o ad altri "peplum" usciti negli ultimi due, tre anni: è proprio brutto e basta. 
Credo che, come la saga dei Pirati dei Caraibi, Pompei abbia come unica utilità quella di far capire che un'idea di cinema avventuroso (le pretese storico-mitologiche passano in secondo piano) destinato ad un pubblico più giovane abbia già toccato il fondo e si sia messo a scavare. Colpa delle case di produzione e della sciatteria di base con cui certi progetti vengono pensati e portati avanti; ma è anche colpa del pubblico che accoglie con entusiasmo questi prodotti, e si tratta di un pubblico composto o da ragazzetti lobotomizzati o da ventenni e trentenni col cervello sfarinato da sei, sette ore di videogiochi al giorno, visioni di cartoni animati di merda e letture stupide. 
Pompei è per loro. 
Per gente che, se un dialogo dura quaranta secondi in più rispetto alla media e non sopraggiunge un terremoto a spazzare via l'intero emisfero australe, scrive su Twitter #questofilmmirompeilcazzo.

martedì 4 marzo 2014

Pharrell Williams, "Girl" [Suggestioni uditive]

Pharrell Williams,
Girl (Columbia Records, 2014)
★★★★

















Pharrell Williams è un po' come il prezzemolo: è ovunque, perchè sta bene ovunque lo si metta. 
Che sia nel ruolo di rapper-produttore coi Neptunes o di cantante-polistrumentista-compositore nei N.E.R.D., che sia al cinema per fare un bel cameo in qualche brutto film o sulla copertina di una rivista di moda in qualità di CEO della Billionaire Boys Club, che sia nei singoli da top 10 dei colleghi rapper o nelle hit da discoteca firmate Daft Punk (Get Lucky, Lose Yourself To Dance) e Swedish House Mafia (One), il tuttologo virginiano può vantare una sfilza di successi professionali invidiabile. 
Tuttavia, c'è un campo che più degli altri sembra essergli stato meno congeniale in questi venti anni di attività: la carriera solista. Sembra strano per una figura così estremamente egocentrica, ma fino a ieri il catalogo di Pharrell "suono tutto io, faccio tutto io, produco tutto io, pago tutto io" Williams vantava un solo, isolato caso di pubblicazione solista. Sto parlando di In My Mind (Interscope, 2006), produzione milionaria che però non aveva suscitato il clamore della critica, nè aveva regalato, nel mondo, una prima posizione in classifica al cantante, già ampiamente abituato a vedersi letteralmente ricoperto d'oro. grazie ai singoli pubblicati con i suoi altri progetti. Effettivamente, In My Mind non era già allora assolutamente comparabile ai dischi dei N.E.R.D., nè poteva essere accostato ad opere di altri colleghi più esperti e navigati. 
Oggi, dopo ben otto anni di attesa, Pharrell è tornato all'attività solista, con Girl, un album completamente diverso da In My Mind e dal 90% di ciò che possiamo trovare pescando nell'oceano della musica hip-hop, rap, R&B, nu-soul, electro-funk e crossoveristica varia ed eventuale. Lo si capisce anche soltanto dal geniale singolo di lancio Happy (pure candidato agli appena conclusi Oscar 2014) dalla sontuosità "symphunk" (arrangiamenti orchestrali di Hans Zimmer, non credo occorra aggiungere altro) dell'apertura Marylin Monroe, quasi sei minuti di R&B preciso, mai banale e perfettamente in grado di presentare il contenuto dell'opera: la Donna, narrata attraverso dieci brani gioiosi e raffinati. Si evince subito che il Pharrell più tamarro e spacconcello del 2006 è artisticamente e umanamente maturato; basti notare la lussuosa produzione (e promozione) della Columbia che- come diceva sempre anche Lester Bangs -è ad ogni probabilità la migliore casa discografica di tutti i tempi. Se dunque vi piacciono culi e tette sbattuti sullo schermo del vostro televisore, campionamenti volgari, testi da mongoloidi e collanoni da delinquente, Girl non fa per voi. Pur nei suoi momenti più squisitamente "pop" (Brand New, cantata con Justin Timberlake, tanto per dirne una), il disco riesce sempre a tenere un livello eccellente, complice anche un sound lontano sia dalla "vecchia maniera" (scordatevi scratchin', loops, campionamenti, ecc.) che dall'avanguardia industrial del recente Yeezus di Kanye West: quindi vai con le chitarre semiacustiche di Know You Are (dove Pharrell duetta piacevolmente con una ritrovata Alicia Keys), vai con il ritornello "vocoderizzato" della superba Gust The Wind (scritta e suonata con gli amici Daft Punk), vai col funk d'avanguardia di Hunter (che sembra arrivare proprio dalle sessions di Random Access Memories). Meno riuscito, invece, l'ibrido col gospel della lunga Lost Queen, piena di archi e percussioni, ma un po' deboluccia. Una menzione speciale va però alla chiacchierata collaborazione con Miley Cyrus in Come Get It Bae: vero che la monella più famosa del momento non sa proprio cantare, però questo brano ballerino e spensierato potrebbe scorrere ininterrottamente (come solo Happy sa fare) per ore e ore a prescindere da giorno, luogo e stagione. La chiusura tiepidina di It Girl magari la ritroveremo nello spot di qualche balsamo per capelli, e non rende di certo giustizia ad un disco che, nel complesso, è davvero ottimo e che tornerà a "farsi sentire" ovunque perchè, come lo stesso Pharrell, sta bene dappertutto.