venerdì 30 novembre 2018

Late November [Album]

Tramonto in sala.
These Boots are Made for Walkin'...

Di quella volta che detti un passaggio al Brune. 

Lungarno della Zecca Vecchia.

Gatti dylaniati.

Saddle Up the San Leonino...
And I Got Time to Roll a Number and Rent a Car...
Le merende sane di una volta.
Polaroid con l'autore.
In qualche posto a Piazza dei Ciompi, la sera del mio compleanno.
Regali di sorellanza.
Le feuilles mortes...
Il bar non porta ricordi, ma i ricordi portano al bar.
Fantasmi sulla A14...
La luna.
Lumache monteriggionesi in terracotta.
Catturato da un punto turistico, ma pur sempre un arcobaleno (e mi piace pensare a dove finisca).
Una candela profumata e il più bel disco live udito nel 2018.



lunedì 26 novembre 2018

L'ultimo imperatore [Ombre elettriche]

Bernardo Bertolucci (Parma, 16 marzo 1941- Roma, 26 novembre 2018) col padre Attilio sul set di Novecento (1975).
Sarà banale da leggersi, ma con Bernardo Bertolucci se ne va uno dei registi della mia vita.
Chi ha seguito nell'arco degli anni il blog se ne è sicuramente accorto leggendo qua (o qua o altrove) e sa che non amo andare per luoghi comuni.
Il concentrato di stile, visionarietà, senso della bellezza, profondità, poesia del suo cinema l'ho ritrovato raramente dentro e fuori dallo schermo (senza contare che il cinema di Bertolucci, un paio di volte, il mio di schermi lo ha pure bucato, facendosi relativamente- e, ahimè, brevemente -realtà).
Un autore capace di dividere come pochi, e non solo in virtù di un cinema apertamente schierato, ma a causa di tematiche senza pudore. Bertolucci ha infatti provocato per decenni reazioni forti da parte di pubblico e critica, perfino da parte dei suoi stessi estimatori. Oggi chi finanzierebbe mai un film come La Luna, dove una madre per salvare un figlio minorenne dall'eroina, prima di ricondurlo dal padre mai conosciuto (un grande Tomas Milian), masturba la carne del suo sangue durante le crisi di astinenza?
Del resto, mi turbò The Dreamers quando andai a  vederlo, neanche 14enne, nell'ottobre 2003, e mi ha turbato, per motivi e in anni diversi, Io e te. Ora che il suo percorso artistico ed esistenziale è concluso, possiamo dire che Bertolucci ha tessuto un fantasioso arazzo di opere che hanno disturbato profondamente l'italianità nella sua pubblica morale comune e nei limiti delle dottrine politiche. I suoi film a cui sono maggiormente legato, quelli che ritengo più riusciti, sono tutti in contrasto con quei pudori e quei tabù ereditati dalla famiglia cattolica piccolo e medio borghese. Sono pellicole su cui si è riacceso il dibattito anche in  tempi recenti- complici dei riusciti restauri -e per le cui tematiche contenutistiche e figurative le solite classi sociali (e perfino alcune, insospettabili frange di stampo progressista) sono tornate a risentirsi.
Ma questo era Bertolucci.
Totalizzante, come le luci che i colleghi e il mondo gli invidiavano.
Infinito, come infiniti sembrano oggi i chilometri di dolly messi in fila durante la sua carriera.
Sospeso e meditabondo come il passo della gru all'alba con cui si conclude, sonnacchioso, quel suo ultimo, piccolo film.
Un artista che aveva smesso di sognare ma che ha continuato a cercare i sognatori. 
E un innamorato, ovviamente, perché ci vuole amore per fare i film che ha girato, nella sua vita da uomo libero, Bernardo Bertolucci.

Il conformista (1970)
Uno dei due, tre più bei primi piani della storia del cinema (Ultimo tango a Parigi, 1972).
Ultimo tango a Parigi (1972).
(Forse) Il più bel film italiano di tutti i tempi (Novecento, 1976).
Film che oggi neanche verrebbero finanziati (La luna, 1979).
La tragedia di un uomo ridicolo (1981).
Il tè nel deserto (1990).
Stealing Beauty, ossia Liv Tyler sul set di Io ballo da sola (1996).
Io ballo da sola (1996).
The Dreamers (2003).
Io e te (2012).













lunedì 19 novembre 2018

Un giorno all'estero [Extra]

La proposta è semplice: partire per Bologna, prelevare i Federichi (non il conio settecentesco prussiano, ma Federico P. e Federico B.) e da lì proseguire alla volta della Repubblica di San Marino. Quale mezzo di locomozione migliore di una Mitsubishi Colt rossa il cui motore emette un suono simile a quello del turbocompressore della Chevrolet 150 di James Taylor e Dennis Wilson in Strada a doppia corsia? Quale pilota migliore del Brune, che guida col suo passo pacato rollando senza sosta tabacco American Spirit blu? Quale giornata migliore del 18 novembre più freddo dal 1861 a oggi? In poco più di un'ora e mezza siamo al ritrovo in via Stalingrado. Il tempo di un caffè periferico e ripartiamo di buona lena, sostenuti dallo score di Jurassic Park firmato John Williams.
La pianura tagliata in due dalla A14 ha un suo selvaggio fascino, non c'è niente da fare. Sulla carta, il mare Adriatico si fa sempre più vicino. Poco prima di Rimini ci lasciamo l'autostrada alle spalle e di lì a poco sconfiniamo. Dogana sembra una città tirata su nel videogioco The Sims e anche i supermercati, le mostre di mobili, i centri massaggi, i concessionari e tutto ciò che costella i bordi della ripida strada che risale il Titano hanno qualcosa di innaturale. In lontananza, sul vicino monte Giove, si scorge, quasi impercettibile nel freddo nebbione, la sagoma di Santarcangelo di Romagna. Arriviamo nella rocca di questo minuscolo stato indipendente da dieci secoli. 
Una tariffa giornaliera di parcheggio ci costa  due euro a testa (meno della metà di ciò che viene imposto da certe scellerate amministrazioni toscane in alcuni pittoreschi borghetti, per dire). Iniziamo a girellare che non sono ancora scoccate le undici. La temperatura non scende sotto il grado zero e supera malvolentieri l'uno. Le ultime resistenti ciocche della mia testaccia di cazzo vengono aggredite dall'umido e mi ritrovo a camminare coi capelli fradici. Non siamo gli unici turisti, ma non c'è neanche una ressa eccessiva. Molti stranieri, forestieri provenienti perlopiù dall'Europa dell'est, o almeno così sembra a giudicare dagli accenti uditi. Una signora, nel camminamento che conduce dalla prima alla seconda torre di guardia, urla al cellulare la preparazione di un particolare genere di polpette di carne. Scatto qualche foto "in salita".

Il paese è tenuto benissimo. Pulito, chiuso al traffico, curato in ogni dettaglio. Certo è che, almeno da principio, i negozi si somigliano tutti: cianfrusaglie "made in China", enoteche specializzate nella vendita di boccette di grappa in vetro dalla inequivocabile forma fallica, profumerie tax-free di vario livello, tabaccai che dispensano stecche delle migliori marche private dell'iva, e, ovviamente, le leggendarie armerie dove una replica da softair di un M16 costa quanto un fine settimana in discoteca. Il Brune, ovviamente, non aspetta altro e studia con meticolosità ogni vetrina di questo genere gli si pari davanti.
 Un'enoteca ci colpisce positivamente per alcune statuette messe in bella mostra all'ingresso. Sulla sinistra, una scimmia indemoniata e alcoolizzata dà fondo a una bottiglia di limoncello, mentre dall'altra parte un drago si preoccupa di bere un assurdo liquore locale a base di fragola. Il colore è quello del Campari Soda. Vedere queste creature abbeverarsi in mezzo a tutto quel freddo fa affiorare in noi delle comprensibili smanie di emulazione. Inizia a piovigginare, quando ripariamo in una fiaschetteria posta in un vicolo poco trafficato e con delle insegne in legno recanti nomi di bevande forse più idonee a un rifugio alpino che non a una cittadina fortificata.
 Vuole il caso che Federico P. abbia una cara amica sammarinese e che sia stata proprio lei a dargli due dritte molto precise sui ristoranti della città ove non incappare in sonore e clamorose inculate. Nessuno ha prenotato, così iniziamo a vagare già dalle 13:00. Il primo, dotato di scala di accesso a un terrazzo panoramico, ci convince comunque poco, e così finiamo al Ritrovo dei Lavoratori, un locale che conserva intatte le sue radici anni '70 sia nel gusto che nell'arredamento. Il ristorante è pieno, ma il gestore ci indica una coppietta che ha appena ordinato il caffè e leverà le tende a breve. Io e Federico B. restiamo in attesa, mentre il Brune e Federico P. tornano nella cittadella alla ricerca di nuovi acquisti. Nel giro di mezz'ora, avremo di fronte una varietà di antipasti della casa a cui faranno seguito risotto ai funghi (per i Federichi), tortelli al tartufo (per il Brune) e i tradizionali cappelletti in brodo (per me). Tutto annacquato dall'obbligato sangiovese di Romagna (lo servono freddo) e accompagnato dalle bestemmie, alle nostre spalle, di un gruppo di avventori intenti a guardare l'ennesima gara di MotoGP dove non ci sarà scampo per il Dottore.
Una signora verace e dai modi di fare in netta contrapposizione a certe fiche di legno nordiche occupanti la sala adiacente a quella dove si trova il nostro tavolo ci offre dei dolcetti e un limoncello notevolmente gradato. Chiediamo il caffè e il conto, che per nostro grande stupore- siamo comunque in uno dei tre migliori ristoranti di San Marino -ammonta a una cifra con cui, nel paesello da cui provengo, ormai può rivelarsi difficoltoso perfino mangiare una pizza. Soddisfatti, usciamo nel mondo freddo e terribile e sincronizziamo gli orologi. Il Brune deve comprare gli ultimi regali. Io, che non colleziono armi né sono solito farne uso, mi metto lo stesso sulle tracce di un coltello Okapi con cui vorrei rimpiazzare il mio storico Opinel. Con mio grande disappunto, nessuna armeria, coltelleria o negozio analogo tiene questi splendidi frutti dell'artigianato sudafricano.
Mentre Federico P. si aggiudica a prezzo concorrenziale confezioni da 100 ml. di profumo Cartier e io butto un occhio se per caso- sia mai -in mezzo all'imperante sovrabbondanza e al cattivo gusto, svettassero dei Persol 714 snodabili, il Brune e Federico B. sostano a un alimentari vicino. Cogliamo in fragrante il Brune che, da dover acquistare due bordolesi locali per il fratello, si è lasciato coinvolgere in una degustazione di assenzio dalla gradazione fantozziana. Sono le 16:30, la strada è relativamente lunga e così ripartiamo a suon di RadioBrune: il 60% Nomadi, un 20% Guccini, e il resto equamente distribuito fra Deep Purple, Zeppelin, Doors e generico AOR datato fra anni '70 e '90. Federico P. piange l'assenza di Country Road di John Denver, Federico B. mostra segni di sonno già al confine italiano. Io reggo, spiego al Brune che Sweet Home Alabama non è una canzone degli Eagles come il file .mp3 che stiamo ascoltando suggerirebbe ma dei Lynyrd Skynyrd e lui replica che "magari" l'originale è degli Eagles e che "questi Lynyrd Skynyrd" si sono limitati a farne una cover di successo. Lo trafiggo con lo sguardo e gli spiego che no, non è così e che, al di là della rispettiva notorietà e importanza, i gruppi agiscono in contesti e generi diversi, che Don Henley o Glenn Frey non avrebbero mai scritto una canzone come Sweet Home Alabama e che l'attribuzione agli Eagles è un errore da imputare esclusivamente al pirata che l'ha caricata sul web in quel modo (lo stesso motivo per cui, da ragazzotti, sia io che Nikke fummo a lungo convinti che Bad to the Bone di George Thorogood si intitolasse Bad to be Bone e portasse la firma degli ZZ Top). La discussione si placa solo quando io scommetto sulla questione un pranzo nel migliore ristorante di Colle, che in questo periodo va proponendo un menù fisso "per giovani" da 125 euro a persona. Il Brune ritira le sue ipotesi e io mi addormento.
Mi risveglio una mezz'ora dopo, col collo dolorante a causa dell'incessante ciondolamento. Siamo alle porte di Bologna. Teniamo d'occhio la giusta uscita per la tangenziale, paghiamo il casello e ci buttiamo verso Stalingrado. I Federichi scendono con piglio assonnato dalla Colt, mentre il Brune mi cede il posto di guida: in serata deve consegnare cinque articoli sportivi in redazione e deve ancora scriverli tutti. Mi sistemo sedile e cintura col chiaro obbiettivo di essere a casa per cena. Sono troppo poco fico per sentirmi Steve McQueen, così mi accontento di emulare Barry Newman in Punto Zero. Il Brune si mette comodo, apre il suo lap-top, telefona ad allenatori e dirigenti di oscure squadre collinari, rocca e soprattutto rolla che è un piacere. La Colt sembra una locomotiva. Nessuna radio, nessuna colonna sonora all'infuori del diabolico motorino giapponese e dei tasti battuti a ripetizione sull'Asus e in un'ora siamo a Firenze Certosa per imboccare l'autopalio. Il Brune conclude il quinto articolo all'altezza di Tavarnelle e tira un sospiro. Io azzardo un <<Paura e Delirio in Autopalio come lo vedi?>>. Parlottiamo di cinema, poi mi sembra di vedere un fulmine in lontananza, ma il cielo è terso, si vedono le stelle, la luna e tutto appare freddo e molto chiaro. E poi tutto finisce quando il telefono squilla, e mia mamma mi chiede <<Come la vuoi la pizza?>>.
(Foto di Federico B.)

mercoledì 14 novembre 2018

"Ma che cazzo fai, oh?" [Extra]


Stamattina presto, a causa del grigiore stagionale, ho acceso una candela e mi sono messo a vagare per casa in pigiama, cercando l'uomo. Niente più di un mio personale omaggio a Diogene di Sinope, per carità, ma questa scenetta mi ha ravvivato l'umore e guardando fuori dalla finestra ho preferito sovrapporre alla realtà un cielo di smalto blu, lo stesso sotto il quale Nikke veniva a stanarmi una volta e con cui risultava più piacevole avventurarsi alla scoperta del mondo. 
Non sempre, tuttavia, ci era permesso abitare questo mondo del cielo di smalto blu, e così anche noi ci trovavamo costretti, talvolta, a trascorrere in casa quei pomeriggi resi acidi dal mangiare pesante della domenica. Ma il nostro stato d'animo manteneva intatta la sua natura elegiaca e le ore scorrevano lunghe lunghe, fra profonde fumate di fronte al caminetto del salotto e una rassegna di film in DVD che sembrava migliorare di volta in volta.
Il film coi Pink Floyd a Pompei fu, in assoluto, il più gettonato per un'intera stagione. A parte qualche cartolina di prova dal lato oscuro della luna, non conteneva nessuna canzone che noi possedessimo su disco. Niente Wish You Were Here, niente muri e maiali gonfiabili, niente mucche. Io avevo iniziato ad ascoltare il gruppo molto prima con The Final Cut (non mi sono mai capacitato di tanto sadomasochismo), che oggi equivarrebbe a regalare a un tredicenne St. Anger e ad augurargli in bocca al lupo per il suo viaggio alla scoperta dell'heavy metal.
Pink Floyd at Pompei fu il portale di accesso a Meddle, e a Meddle sono tornato anche stamani. A Meddle ritorno sempre per conto mio, senza proclami, specie dopo quella volta che mi misi a tradurre i primi versi di Echoes su un quadernino. Ero in compagnia di un ragazzo del quartiere, quello che si può definire, bonariamente, l'amico ignorante- ho frequentato anche degli imbecilli in vita mia, ma quelli sono una cosa diversa dagli ignoranti -e che di fronte a un gesto di scrittura, lettura e a qualsiasi altra cosa esulasse dalla bruttezza in cui vivevamo immersi sapeva dire solo una cosa: <<Ma che cazzo fai, oh?>>.
<<Niente, provo a tradurre quel poco che ho capito di una canzone...>>.
<<Sì, ma che cazzo fai?>>.
<<Niente, niente, non faccio niente! Anzi, smetto, guarda>>.
<<Eh, bravo, fai bene...>>.
<<Sì, lo so>>.
Insomma, ci voleva coraggio anche solo ad azzardarsi a pensare che là in cima l'albatro rimane sospeso a mezz'aria,/ e giù, nel profondo di onde fluttuanti,/ nei labirinti di caverne di corallo,/ giunge l'eco di un tempo remoto/ tremolante attraverso la sabbia/ e ogni cosa è verde e sommersa, figuriamoci a offrire un ascolto, un assaggio, un aiuto di un pezzo come Echoes o di One of these Days o di Fearless o di Saint Tropez (che delusione poi Saint Tropez, il paesello marittimo!). Quel coraggio, in compenso, lo ha dimostrato qualche anno fa Richard Linklater, quando ha inserito Meddle in un suo film: lo fa ascoltare a Willoughby, un personaggio minore che sembra l'unico hippie sopravvissuto all'ondata punk e che ha comunque i suoi cinque minuti di gloria. In realtà non è solo un hippie: somiglia quasi a un nerd ante litteram, uno che ha pensato bene di portarsi al campus un bellissimo impianto hi-fi con piatto Pioneer e ampli Marantz e un videoregistratore Sony con la scocca in legno e che ha tutta l'aria di essere uno studente fuori dai canoni, uno che di lì a breve magari busserà alla porta di qualche azienda della Silicon Valley e ci farà i soldi senza che gliene importi poi molto. Siamo nel sudest del Texas nel 1980 e questo ragazzo parla coi suoi compagni di stanza di linguaggio dei segni e di cosmo e anche loro, universitari fuori corso attenti alle tendenze e fissati col football, lo guardano con quell'aria che parla da sola e sembra solo dire <<Ma che cazzo fai, oh?>>.

lunedì 12 novembre 2018

Il dono della tenerezza [Extra]

"Siamo straordinariamente calmi e teneri l'uno con l'altra,
come se avvertissimo il nostro traballante stato mentale.
Come se ognuno sapesse cosa prova l'altro. Anche se non sempre lo sappiamo.
Non lo si sa mai. Ma non importa.
E' la tenerezza che mi preme. E' questo il dono
che mi commuove e mi prende tutto, questa mattina.
Come tutte le mattine."

Raymond Carver, da Il dono

Le prime camere frontali avevano fatto la loro timida comparsa già da un paio di anni ed esclusivamente su cellulari come il Sony Ericsson Z1010 o il Motorola A835, ma a noi non importava, perché gli autoritratti venivano molto bene ugualmente. Merito dei soggetti, ma, in particolare, della mano e della sensibilità della fotografa, spesso così attenta a catturare quello che si apriva di fronte ai nostri occhi. Da diversi mesi eravamo montati sullo scivolo del presente, quello dove le cose assumevano un peso diverso rispetto a prima e dove la vertigine, quando c'era, era autentica e totale. E anche le giornate più grigie finivano col sembrare lucenti, come una ragazzina che scendeva da un autobus col suo zaino giallo e ti veniva incontro sorridendoti per un ascolto, un confronto, per la condivisione di qualsiasi cosa. Allora, il suono del ride di quella piccola batteria sembrava voler scandire un tempo- il nostro -che era appena iniziato e laggiù, in lontananza, si stagliavano le prime occasioni, in attesa di essere afferrate o lasciate perdere per sempre. 
Quante foto mancate, negli ultimi anni. Quante toccate e fughe. E, soprattutto, quanti compleanni trascorsi lontani e lontano. Non si era ancora mostrata della nebbia vera in questo falso squarcio di autunno, ma ha deciso di calare proprio stasera, mentre io e te parliamo riscaldati dal primo camino acceso della stagione. Una stagione che, per un motivo o per un altro, è sempre stata la nostra. Sono appena entrato nell'ultimo anno da ventenne, ho passato una brutta mattinata che somiglia già a un ricordo, spazzata via da tutto ciò che è ora. Da me, da te e da quella foto rimandata troppo a lungo.




sabato 10 novembre 2018

Photo shooting in Poggistronzi [Extra]

Domani compio 29 anni.
Oggi si è svolta la sessione fotografica da cui uscirà, verosimilmente, la copertina del mio primo libro. 
Un libro che ho iniziato a scribacchiare inconsapevolmente su una cartella Word già a fine 2015, che ho abbozzato e abbandonato a più riprese, ma che è cresciuto seriamente solo negli ultimi mesi. 
Un libro che ha cambiato tre titoli ed è tornato ad avere il secondo, il più bello, quello che avevo scartato solo perché, nel frattempo, era uscito un numero di Dylan Dog con lo stesso.
Un libro che, prima della fine di luglio, non mi sarei mai azzardato a ritenere neanche lontanamente migliorabile e pubblicabile. 

venerdì 2 novembre 2018

Bob Dylan, "The Bootleg Series Vol. 14: More Blood, More Tracks" [Suggestioni uditive]

Bob Dylan,
The Bootleg Series Vol. 14: More Blood, More Tracks
(Columbia Records, 2018)



















Di punti di svolta nel lungo (e ancora apertissimo) bildungsroman dylaniano se ne trovano a bizzeffe: nella carriera di un normale cantautore sarebbero risultati sufficienti il passaggio da strimpellatore del Village a popstar e la scoperta dell'elettricità.
Partiamo però da quella morte sfiorata e dalla conseguente, faticosa trasfigurazione in padre e marito devoto: Dylan fa il proprio ingresso nel primo lustro degli anni '70 sfruttando, seppur al minimo, l'immagine di gentiluomo di campagna geloso della sua privacy e con in testa il sogno (irrealizzato e irrealizzabile) di abbandonare l'attività concertistica. Immette sul mercato il suo primo, mediocre album doppio (Self-Portrait), inventa un nuovo modo di concepire il best-of (Greatest Hits Vol. II), fa capolino al Concert for Bangladesh (sei brani) e si mette a disposizione di Hollywood (l'unico, compatto e prezioso capolavoro recante la sua firma in questo periodo è una colonna sonora), non rinuncia a sfornare del materiale controverso fino ai limiti del reazionario (New Morning) prima di trasferirsi in California con la famiglia a respirare l'aria e gli umori della West-Coast. Forse il sole, forse la salsedine, forse un nuovo giro di amici lo invogliano a cambiare sound e perfino etichetta: suscitando sdegno e clamori, abbandona la Columbia e ripiega sulla californianissima Asylum di David Geffen. Così, sulla spiaggia dove le luci del Nord hanno già incontrato la croce del Sud, Dylan ritrova la Band, ci registra un disco "senza infamia e senza lode" (Planet Waves) e poi si ricorda che non va in tour da otto anni. In culo a famiglia e promesse, Dylan indossa le sacre vesti di rockstar al passo coi propri tempi e torna prepotentemente sulla strada per una leg nazionale di due mesi e 40 date: i cittadini americani che faranno domanda per biglietti del Tour '74 risulteranno essere cinque milioni e mezzo. La sua immagine pubblica torna ai livelli di successo e attenzione di dieci anni prima, mentre quella privata sembra entrare in una crisi profonda.
16 settembre 1974. Un Bob Dylan di nuovo sotto contratto con "mamma Columbia" (che, nel frattempo, si è vendicata consegnando alle stampe una compilation di scarti spacciata per nuovo album e originalmente intitolata Dylan) torna a New York. Quando bussa allo Studio A sulla 54esima, ha con sé una chitarra acustica e un taccuino rosso su cui ha scarabocchiato una decina di testi. Il produttore Phil Ramone a stento sa che Dylan è rientrato nella scuderia, figuriamoci se si aspetta di vederselo arrivare in studio con del materiale inedito. Ciò nonostante non si scompone: afferra la cornetta e contatta Eric Weissberg, uno specialista degli strumenti a corda passato alle attenzioni del grande pubblico un paio di anni prima, grazie alla colonna sonora di Un tranquillo weekend di paura. Lo intima di venire subito e di portare tutta la sua crew, perché Dylan è in città con delle nuove canzoni e ha voglia di registrarle.
Arrivano nel pomeriggio. Dylan ai musicisti non dice nulla: inizia a suonare queste canzoni semplici, scarne e musicalmente un po' tutte uguali. Weissberg e i suoi sono dei session-men di buon livello, arrivano dal bluegrass, dal country, qualcuno perfino dal jazz e hanno suonato di tutto con chiunque, eppure faticano a capire che disco  Dylan abbia in mente e che accordatura utilizzi per i suoi nuovi pezzi. Non ci vuole molto prima che tutti, a cominciare dallo stesso Weissberg, abbandonino lo studio. Perfino un Mike Bloomfield "di passaggio" rinuncia a suonarci: resta solo il contrabbassista Tony Brown e nel giro di tre giorni un disco senza titolo e a base di voce, chitarra, armonica e basso è pronto. Phil Ramone non ha battuto ciglio, né è intervenuto in alcun modo sul materiale registrato (fa eccezione il delicato utilizzo di un effetto riverbero nella voce di Dylan). Ciò che colpisce, oltre a una resa sonora più cruda di quanto non fosse risultato, a suo tempo, John Wesley Harding, è la qualità della scrittura: liriche così tanto profonde, affilate, taglienti e dolorose non uscivano dalla testa di Dylan da prima dell'incidente in moto. 
Passa una settimana. Phil Ramone riceve una telefonata da alcuni dirigenti: Bob Dylan vuole registrare un disco. <<Un altro?>>. No, in realtà vuole solo registrare le sue nuove canzoni da capo, dare loro una forma meno grezza e, chissà, più appetibile per le classifiche. Possibilmente con l'aiuto di altri musicisti. Magari in uno studio diverso. Forse in un'altra città.
Lo scenario cambia di nuovo. Dicembre 1974. Dylan vola in Minnesota, dove ha da poco acquistato una tenuta di campagna e dove il fratello Daniel si arrabatta come produttore discografico indipendente. In un anonimo studio di Minneapolis (ri)prende forma Blood on the Tracks. Produce lo stesso Dylan, mentre suo fratello siede nella cabina di controllo e si prende la briga di procacciare dei musicisti: li trova in Kevin Odergard e nella sua band. Sconosciuti pagati a cottimo con cui però l'autore di Mr. Tambourine sembra trovarsi inaspettatamente bene, tant'è che consente allo stesso Odergard di modificare Tangled up in Blue alzandola di un tono e conferendole la forma che oggi tutti conoscono. Organo, mandolino, chitarre a 12 corde e una batteria prevalentemente jazzata giungono a fare il resto senza mai eccedere in virtuosismi. Dylan parla poco, ma lascia Minneapolis con del materiale più che soddisfacente, materiale che, una volta finito nelle mani di Ramone, assumerà un aspetto definitivo: Blood on the Tracks uscirà solo a gennaio del 1975 e il resto è storia nota.
Meno nota, magari, è la novella delle outtakes, delle alternate versions, degli scarti e delle leggendarie sessions settembrine di New York. Una You're Big Girl Now marchiata dalla pedal steel di Buddy Cage e dall'organo di Paul Griffin già compare in Biograph, accompagnata dalla undicesima, perduta canzone destinata all'album e intitolata Up to Me. Oltre alle alternate di Tangled up in Blue, If You See Her, Say Hello e Idiot Wind (stratosferica), sulla TBS Vol. 1-3 fa nuovamente capolino Up to Me e appare tale Call Letter Blues che mostra però assonanze stile copia-carbone con Meet me in the Morning. Nel 1996, Dylan offre a Cameron Crowe una bellissima demo di Shelter from the Storm affinché venga inserita nel film Jerry Maguire, dopodiché del materiale inciso nell'autunno del 1974 si perdono le tracce. Il silenzio viene interrotto solo nel 2012, quando il Record Store Day vede la Columbia immettere sul mercato il 45 giri di Duquesne Whistle con una b-side insolita: la demo di Meet me in the Morning.
Dedicare un intero volume della TBS a Blood on the Tracks nel 2018 non è il massimo dell'originalità, né del tempismo. Cercare conforto in quesiti del tutto ipotetici (fra gli altri, "E se Blood on the Tracks fosse stato un disco 100% acustico, sarebbe davvero stato più bello?", "E se Phil Ramone lo avesse fatto uscire subito, nell'inverno del 1974, non sarebbe stato meglio?", "E se Dylan avesse incluso Up to Me, avrebbe rafforzato l'idea di un concept-album incentrato sul proprio divorzio?") è un esercizio che lascia il tempo che trova, diverte come diverte qualsiasi What If...?, ma non cambia la sostanza delle cose, perché l'arte massima è racchiusa in quel disco uscito nel gennaio 1975, e non ci sono espansioni, alternative o riscoperte in grado di reggere il confronto.
Che Blood on the Tracks stia alla carriera di Dylan come Highway 61 Revisited sta all'intera storia del rock è un fatto riconosciuto da oltre quarant'anni: il secondo è un capolavoro di assoluta importanza, il primo un capolavoro di assoluta bellezza. Non sembra, ma c'è differenza. Anzi, adesso che ho fra le mani l'edizione disco singolo di questo 14esimo volume dei bootleg posso dare conferma a qualcosa che, sotto sotto, ho sempre saputo: le undici demo registrate a New York nel settembre del '74 potranno essere più spontanee, cattive e disperate delle dieci che avrebbero composto Blood on the Tracks, ma sono "solo" altre undici canzoni incise in quattro giorni da uno che è tornato ad adottare una metodologia di lavoro a cui non ricorreva da tempo. Non solo: le Tangled up in BlueSimple Twist of Fate e Up to Me qua presentate non risultano migliori di quelle già conosciute; di Shelter from the Storm possiamo ascoltare la versione meno energica e incisiva fra tutte quelle a me note finora; You're a Big Girl Now non vale mezzo secondo di quella di Biograph e Idiot Wind, diciamolo, è uno scarto della take comparsa sulla TBS Vol. 1-3. Buckets of Rain e Lily , Rosemary ecc. sono le due belle sorprese del dischetto, mentre You're Gonna Make Me Lonesome When You Go è l'unico momento in cui, ascoltando, si potrebbe arrivare a dire <<Mah, forse se avesse utilizzato questa ...>>, ma è solo un attimo di tre minuti e quarantatré secondi. If You See Her è una canzone troppo meravigliosa per poterne parlare male: personalmente, sto trovando questa outtake come la migliore fra quelle emerse, ma, sia chiaro, non vale la definitiva con organo e percussioni.
Dell'importanza che Blood on the Tracks riveste e continua a rivestire nella mia vita ho scritto a più riprese e per motivi diversi qui e prima ancora qui e non ci tornerò sopra solo perché- per un semplice scherzo del destino -la Sony Music ha deciso di pubblicare un cofanetto a tema proprio al termine di un anno in cui, per il sottoscritto, le perdite dell'anima e del cuore hanno superato di gran lunga i guadagni e le conquiste. Sarebbe un atto troppo egocentrico.
Persino per uno come me.