Tutto ha inizio con un post sulla pagina Facebook di un famoso premio Nobel per la letteratura. Semplicemente, si annuncia l'uscita del 38esimo album a nome Bob Dylan, sottolineando- comprensibilmente -il fatto che si tratterà del primo triplo della sua ultrancinquantennale carriera. Come i suoi due ultimi dischi (Shadows in the Night e Fallen Angels), sarà un'opera interamente composta di covers, o meglio di riproposizioni di vecchi standard di quello che, oltreoceano, chiamano "The Great American Songbook" e di cui Dylan è esperto conoscitore. Nei due album precedenti si imponeva il confronto con Frank Sinatra (esecutore storico di quei brani), stavolta no. Triplicate uscirà il 31 marzo, sarà suddiviso per tematiche e conterrà trenta pezzi, dieci per disco. Come sempre, Dylan non si vergogna di pubblicare il maggior numero di informazioni possibili concernenti il proprio lavoro: e dunque ecco la copertina, con una grafica del titolo che ricorda i caratteri di arcaiche etichette di dischi in ceralacca (a me, per dirne uno, viene in mente il logo della Vocalion, passata alla storia per aver fatto incidere Robert Johnson) ma di fronte a cui il popolo del web italico parte per la tangente. C'è chi- magari a mo' di battuta -la accosta ad una copertina di un album black metal e chi, ancora peggio, vi legge un omaggio ai Jethro Tull. L'artwork è seguito a ruota da una scaletta molto dettagliata e da un singolo in linea con quelli pubblicati negli ultimi due anni. Niente videoclip, ma solo una camera fissa sul piatto in cui ruota il disco:
Uno dei motivi per cui l'arrivo di Triplicate non è stato propriamente accolto bene è il fatto di essere il terzo (nonchè triplo, stavolta) disco di canzoni non firmate da Dylan nell'arco di un quinquennio. Chi ha comprato Shadows in the Night (un disco che ha goduto di un ottimo riscontro commerciale) non ha fatto lo stesso con Fallen Angels, e chi ha comprato Fallen Angels ha già promesso che non prenderà Triplicate. Tutti si sono stancati di questa musica e certo Triplicate promette di essere diverso, ma non troppo diverso dai suoi due predecessori. Alcuni già preannunciano il "suicidio commerciale", ma così facendo dimostrano solo di non conoscere bene Dylan e di non avere mai ascoltato dischi come Saved, Down in the Groove, Good as I Been To You o Christmas in the Heart. Altri commentano sdegnati: "Basta! Non se ne può più!", "Che 2 palle!", "W Sinatra!", "Non se ne sente il bisogno". C'è chi addirittura si spertica in un assurdo accostamento fra il premio Nobel e Rod Stewart, entrambi intenti a rileggere il canzoniere americano, entrambi con alle spalle un disco di Natale, entrambi protagonisti di MTV Unplugged (per altro quello di Stewart è, a parer mio, il migliore mai pubblicato).
Riporto poi due commenti davvero privi di logica: Il primo è "Trovo sempre comico che si dia come produttore Jack Frost, che è solo uno degli pseudonomi dello stesso Dylan". Ma cosa vuol dire? Per chi non lo sapesse, Dylan si autopubblica come Jack Frost dal 2001. Difficile capire cosa una persona possa trovare di comico in una scelta tanto legittima quanto datata. Sarebbe come puntare l'indice sulla sua intera produzione, rea di essere stata pubblicata da Bob Dylan e non da Robert Allen Zimmerman. Il secondo, invece, è "Ma non sa più scrivere?". Forse qua il problema non è più se Dylan sappia scrivere o meno, ma se il suo pubblico sia in grado o no di seguirlo in questi anni Dieci e in questa sua vecchiaia.
Anche io ho scelto di non comprare Shadows in the Night e Fallen Angels, anche io sono un po' deluso dall'anteprima di un altro disco di canzoni non dylaniane (specie dopo aver letto, a fine 2016, rumors su una papabile nuova co-produzione fra il nostro e Daniel Lanois), così come lo sono stato dal cofanetto del tour del 1966 (sapete, mi aspettavo un The Bootleg Series Vol. 13 con scarti degli anni Ottanta, le prove in studio con Garcia e Tom Petty, ecc.), ma, "signuri", si parla di Dylan: quindi prima si ascolta, poi si ragiona.
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