I Dead Weather del 2015 (la Mosshart è bionda... ma perchè?) |
Horehound, il primo album dei Dead Weather, uscì nell'estate del 2009 e mi piacque immediatamente. Dopo aver scoperto (con vergognoso ritardo) Elephant (2005), avevo fatto incetta di tutto ciò che riguardava, anche solo marginalmente, Jack White, e Horehound arrivò proprio al momento giusto. Ancora oggi, faccio girare volentieri Hang You From The Heavens, I Cut Like A Buffalo, Treat Me Like Your Mother, Will There Be Enough Water e perfino la cover di New Pony. Addirittura, all'epoca, arrivai a sostenere che i Dead Weather fossero il progetto più completo e rappresentativo che Jack White avesse mai portato avanti. Ma Sea Of Cowards (2010)- se si eccettua lo spettacoloso Blue Blood Blues posto all'inizio -sgretolò tutte le mie aspettative. Fu un album deflagrante, con quelle oscene rifiniture post-indie e quella atmosfera ambient che mal si adattava alla voce di Jack e a quella della Mosshart. Il nuovo Dodge And Burn (Third Man Records,★★) si confronta con storie violente e urbane, lascia spazio agli archi e alla vena di songwriting della Mosshart (che comunque coi Kills svolge un pregevole lavoro). Ha un paio di bei pezzi (Open Up e I Feel Love), ma per il resto è un'annacquata miscela di rock, country, swamp, garage e pop che non scalfisce minimamente alcuna emozione.
Recuperato in lieve ritardo, ma con vivo piacere, il pregevolissimo Stuff Like That There (Matador Records, ★★★) degli Yo La Tengo. E' un festoso guazzabuglio di inedite, pezzi propri rivisitati (come è una rivisitazione pure la copertina, ispirata a quella di Fakebook) e splendide cover, fra le quali spiccano I'm So Lonesome I Could Cry di Hank Williams e Friday I'm In Love dei Cure. Piacevole e caratteristico come solo molti dischi del trio sanno essere, non sarà l'album che vi risolve la stagione o la vita, ma merita uno, due, anche tre ascolti.
Altro risultato arriva, invece, da una band che un tempo attirava su di sè un certo scherno, se non addirittura offese gratuite e prive di fondamento: sto parlando dei canadesi Annihilator, che con Suicide Society (UDR, ★★★½) firmano il terzo ottimo album di fila in pochi anni. Sarà merito dell'etichetta, sarà quel che sarà, ma dall'omonimo Annihilator (Earache Records, 2010) in poi si sono reinventati magnificamente, scoprendo come incanalare l'energia del loro viscerale trash metal in una varietà di forme più ampie. Un altro disco metal del 2015 di fronte a cui sarà bene togliersi il cappello, in grado di segnare l'equilibrio fra durezza e fruibilità. Meno cupo del precedente Feast (2013) e forse anche per questo ancora più convincente.
Poi ci sono domande destinate a restare senza risposta. Una di queste è: ma quanti dischi hanno fatto i Saxon? Oppure: da quanto tempo esistono i Saxon? Grezzi, immediati, beoni, inglesi fino al midollo, questi ultrasessantenni sono a giro da qualcosa come quarant'anni e pubblicano album a cadenza biennale (con qualche eccezione) dal 1979. Il vero problema dei Saxon è che non hanno mai consegnato al grande pubblico un vero e proprio capolavoro: certo, c'è stata una sfilza di buone opere all'inizio degli anni Ottanta (da Wheels Of Steel a Denim And Leather) e qualche discreto lavoro disseminato qua e là, ma ad oggi il talento dei Saxon sguazza allegramente nell'oblio. Ne è un'ulteriore riconferma il nuovo Battering Ram (UDR, ★½), che come il precedente Sacrifice (2013) è stato prodotto assieme ad Andy Sneap e che si fregia del bell'artwork di Paul Raymond Gregory. Battering Ram puzza, è pieno di canzonacce e di pochi spunti interessanti, oltre a risultare fondamentalmente anonimo.
Va da sè che "il troppo stroppia", ma Joe Bonamassa esagera. Sono uno dei pochi a non avere particolarmente gradito i suoi recenti lavori (sia Different Shades of Blues che Muddy Wolf At Red Rocks mi hanno lasciato freddo): è vero che, a trentotto anni, vanta un curriculum che farebbe invidia a chiunque (11 dischi in studio, 3 di collaborazioni, 12 live), un numero di copie vendute da far scomparire qualunque gazzilloretto fuoriuscito dal G3 e un prestigio oramai inattaccabile, ma un altro concerto pubblicato or ora è troppo. Live At Radio City Music Hall (Provogue, ★★) sancisce il ritorno di Bonamassa ad una dimensione urbana del suo blues solido e duro come una roccia: c'è la solita band di fenomeni alle sue spalle, una maggiore iniezione di R&B, un paio di pezzi nuovi e una sfilza di grandi performances del pianista Reese Wynans, vero lato positivo di tutto il concerto. Per il resto, grandi schitarrate, qualche chiacchiericcio col pubblico newyorkese e una boria introvabile altrove, almeno nel grande panorama del blues.
Sempre parlando di boriosi, è vero che la nostalgia può avere rotto le scatole, ma di fronte a 1989 (PAX AM, ★★) di Ryan Adams non si può fare a meno di essere nostalgici e di rimpiangere i lontani fasti degli Whiskeytown e del loro Strangers Almanac (1994). Il povero Ryan approda ad un particolare esperimento, quello del cover album track-by-track e decide di riproporre un disco di Taylor Swift, disco che non conosco, come non conosco la musica di Taylor Swift: tutti dicono che questo rifacimento è assai migliore dell'originale. Non voglio azzardarmi a pensare allora a come possa suonare quello della Swift! E pensare che quel Live At Carnegie Hall uscito ad aprile mi era sembrato uno dei migliori risultati dell'Adams solista.
Ma questo autunno- cocenti delusioni a parte -me lo ricorderò perchè davvero ha visto uscire uno dei dischi più belli della stagione e di tutto quest'anno: Gates Of Gold (Proper/Bertus, ★★★★) dei Los Lobos. Un ritorno in grande stile per una delle più grandi american band di ogni tempo (a detta di alcuni, la più grande fra quelle in attività). A spasso da 35 anni, reduci da successi e insuccessi, i lupi di Los Angeles sono ormai padroni di quel microcosmo sonoro e immaginario che hanno costruito esclusivamente grazie alla propria abilità di musicisti e compositori. L'ibrido punk-mariachi dei primi anni si è sviluppato, ha assunto forme (letterarie prima ancora che musicali) mutevoli ed è maturato nei numerosi capolavori che hanno disseminato lungo la strada (io li ho scoperti con l'opera maxima, The Neighborood, del 1990) . Quella stessa strada oggi li conduce a canzoni autunnali e solari, lontanissime da quanto hanno prodotto di recente (penso ai disgraziati frutti usciti dalle fucine Disney o anche a Tin Can Trust) e vicinissime ad un'idea di disco perfetto e iper-organico che ogni grande gruppo dovrebbe tenere presente. L'artwork è meravigliosamente evocativo, gli undici brani toccano tutto ciò che Hidalgo e compagnia hanno esplorato, in studio, dal 1984 ad oggi: troverete i mariachi messicani (Poquito para aqui, La tumba sera el final), le atmosfere più roots (Made To Break Your Heart, Gates Of Gold), splendide ballads della West-Coast (Magdalena, Song Of The Sun), la ruvidezza del blues (Mis-Treater Boogie Blues, I Believe You So) e qualche parentesi sperimentale (There I Go).
Vivissimi complimenti anche all'amico Chris Cornell, che con Higher Truth (Universal, ★★★½) firma il suo quarto disco solista e tira fuori dal cilindro un mazzo di canzoni davvero valide. Registrato con Brendan O'Brien (che per alcuni generi è davvero un altro Rick Rubin, ovvero una sorta di Re Mida della console) nel molteplice ruolo di produttore, chitarrista, tastierista e percussionista, con Anne Marie Simpson al violoncello (gli archi qua sono molto importanti) e con il veterano Matt Chamberlain (un curriculum che esalterebbe qualsiasi grunger) alla batteria, è un agile disco semi-acustico che funge egregiamente da "lato B" del bellissimo live Songbook (2011). Voce- come al solito -magnifica, arrangiamenti riuscitissimi. Che altro dire? Il più bel disco solista di Cornell dai tempi dell'esordio Euphoria Morning (1999).
Ah, sempre in questo autunno è uscito il disco più brutto dell'anno. Anzi, chiamarlo "disco" è già un complimento: Avicii, Stories (Island Records, ★).
Recuperato in lieve ritardo, ma con vivo piacere, il pregevolissimo Stuff Like That There (Matador Records, ★★★) degli Yo La Tengo. E' un festoso guazzabuglio di inedite, pezzi propri rivisitati (come è una rivisitazione pure la copertina, ispirata a quella di Fakebook) e splendide cover, fra le quali spiccano I'm So Lonesome I Could Cry di Hank Williams e Friday I'm In Love dei Cure. Piacevole e caratteristico come solo molti dischi del trio sanno essere, non sarà l'album che vi risolve la stagione o la vita, ma merita uno, due, anche tre ascolti.
Altro risultato arriva, invece, da una band che un tempo attirava su di sè un certo scherno, se non addirittura offese gratuite e prive di fondamento: sto parlando dei canadesi Annihilator, che con Suicide Society (UDR, ★★★½) firmano il terzo ottimo album di fila in pochi anni. Sarà merito dell'etichetta, sarà quel che sarà, ma dall'omonimo Annihilator (Earache Records, 2010) in poi si sono reinventati magnificamente, scoprendo come incanalare l'energia del loro viscerale trash metal in una varietà di forme più ampie. Un altro disco metal del 2015 di fronte a cui sarà bene togliersi il cappello, in grado di segnare l'equilibrio fra durezza e fruibilità. Meno cupo del precedente Feast (2013) e forse anche per questo ancora più convincente.
Poi ci sono domande destinate a restare senza risposta. Una di queste è: ma quanti dischi hanno fatto i Saxon? Oppure: da quanto tempo esistono i Saxon? Grezzi, immediati, beoni, inglesi fino al midollo, questi ultrasessantenni sono a giro da qualcosa come quarant'anni e pubblicano album a cadenza biennale (con qualche eccezione) dal 1979. Il vero problema dei Saxon è che non hanno mai consegnato al grande pubblico un vero e proprio capolavoro: certo, c'è stata una sfilza di buone opere all'inizio degli anni Ottanta (da Wheels Of Steel a Denim And Leather) e qualche discreto lavoro disseminato qua e là, ma ad oggi il talento dei Saxon sguazza allegramente nell'oblio. Ne è un'ulteriore riconferma il nuovo Battering Ram (UDR, ★½), che come il precedente Sacrifice (2013) è stato prodotto assieme ad Andy Sneap e che si fregia del bell'artwork di Paul Raymond Gregory. Battering Ram puzza, è pieno di canzonacce e di pochi spunti interessanti, oltre a risultare fondamentalmente anonimo.
Joe Bonamassa |
Sempre parlando di boriosi, è vero che la nostalgia può avere rotto le scatole, ma di fronte a 1989 (PAX AM, ★★) di Ryan Adams non si può fare a meno di essere nostalgici e di rimpiangere i lontani fasti degli Whiskeytown e del loro Strangers Almanac (1994). Il povero Ryan approda ad un particolare esperimento, quello del cover album track-by-track e decide di riproporre un disco di Taylor Swift, disco che non conosco, come non conosco la musica di Taylor Swift: tutti dicono che questo rifacimento è assai migliore dell'originale. Non voglio azzardarmi a pensare allora a come possa suonare quello della Swift! E pensare che quel Live At Carnegie Hall uscito ad aprile mi era sembrato uno dei migliori risultati dell'Adams solista.
Ma questo autunno- cocenti delusioni a parte -me lo ricorderò perchè davvero ha visto uscire uno dei dischi più belli della stagione e di tutto quest'anno: Gates Of Gold (Proper/Bertus, ★★★★) dei Los Lobos. Un ritorno in grande stile per una delle più grandi american band di ogni tempo (a detta di alcuni, la più grande fra quelle in attività). A spasso da 35 anni, reduci da successi e insuccessi, i lupi di Los Angeles sono ormai padroni di quel microcosmo sonoro e immaginario che hanno costruito esclusivamente grazie alla propria abilità di musicisti e compositori. L'ibrido punk-mariachi dei primi anni si è sviluppato, ha assunto forme (letterarie prima ancora che musicali) mutevoli ed è maturato nei numerosi capolavori che hanno disseminato lungo la strada (io li ho scoperti con l'opera maxima, The Neighborood, del 1990) . Quella stessa strada oggi li conduce a canzoni autunnali e solari, lontanissime da quanto hanno prodotto di recente (penso ai disgraziati frutti usciti dalle fucine Disney o anche a Tin Can Trust) e vicinissime ad un'idea di disco perfetto e iper-organico che ogni grande gruppo dovrebbe tenere presente. L'artwork è meravigliosamente evocativo, gli undici brani toccano tutto ciò che Hidalgo e compagnia hanno esplorato, in studio, dal 1984 ad oggi: troverete i mariachi messicani (Poquito para aqui, La tumba sera el final), le atmosfere più roots (Made To Break Your Heart, Gates Of Gold), splendide ballads della West-Coast (Magdalena, Song Of The Sun), la ruvidezza del blues (Mis-Treater Boogie Blues, I Believe You So) e qualche parentesi sperimentale (There I Go).
Vivissimi complimenti anche all'amico Chris Cornell, che con Higher Truth (Universal, ★★★½) firma il suo quarto disco solista e tira fuori dal cilindro un mazzo di canzoni davvero valide. Registrato con Brendan O'Brien (che per alcuni generi è davvero un altro Rick Rubin, ovvero una sorta di Re Mida della console) nel molteplice ruolo di produttore, chitarrista, tastierista e percussionista, con Anne Marie Simpson al violoncello (gli archi qua sono molto importanti) e con il veterano Matt Chamberlain (un curriculum che esalterebbe qualsiasi grunger) alla batteria, è un agile disco semi-acustico che funge egregiamente da "lato B" del bellissimo live Songbook (2011). Voce- come al solito -magnifica, arrangiamenti riuscitissimi. Che altro dire? Il più bel disco solista di Cornell dai tempi dell'esordio Euphoria Morning (1999).
Ah, sempre in questo autunno è uscito il disco più brutto dell'anno. Anzi, chiamarlo "disco" è già un complimento: Avicii, Stories (Island Records, ★).
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