Alla fine tutti i nodi vengono al pettine. Vale per tutto e vale anche per le saghe cinematografiche. E nel caso de Lo Hobbit sono nodi particolarmente attesi, bramati e perfino discussi.
Lo Hobbit- La battaglia delle cinque armate passerà alla storia come la prima pellicola ambientata nella Terra di Mezzo a non essere stata "prevista" da Jackson, e già questo ha dato luogo a non poche dissertazioni e controversie: come può un film tratto da un romanzo per ragazzi di trecento pagine godere di una trasposizione lunga tre film? Storia vecchia, ormai, ma vale la pena rispolverare la questione perchè La battaglia delle cinque armate potrebbe essere davvero il film che Jackson non ha pensato dal principio ma assemblato e montato esclusivamente in fase di post-produzione. Del resto, è lui il primo a sostenere di essersi battuto per mandare in sala fra 2012 e 2013 due lunghi e grandi film (che si sarebbero poi dispiegati ulteriormente, una volta uscita l'edizione home video). Ma così non è stato, e abbiamo dovuto aspettare un anno per vedere Smaug abbattuto in sei minuti di orologio, Thorin diventare matto, Bilbo nascondere l'Arkengemma, Legolas fare altre bravate elfiche, Gandalf liberato dalla gabbia dove Sauron lo aveva rinchiuso, Radagast tornare a cavalcare i suoi orrendi conigli. Il titolo, inizialmente, doveva essere Racconto di un ritorno, ma poi è stato varato nel più consono La battaglia delle cinque armate (da sola occupa un'ora e mezza, anche se si fa molta fatica a capire quale sia la quinta armata, visto che compare per meno di dieci inquadrature): il più breve della trilogia (e ne risente tanto), il più povero a livello di contenuti (come era prevedibile) e finora- almeno in Italia -il più redditizio (cinque milioni di euro raccolti solo nel primo week-end). Bilbo viene lasciato in un angolo, mentre è Thorin, con la sua avidità, il vero protagonista nell'obbiettivo di Jackson: e all'infuori di Bard, Alfred e pochi altri, tutti i comprimari precedentemente conosciuti e apprezzati soffrono di un certo "appannamento". Colpa della storia, certo, e di una sceneggiatura che trova i punti di forza nei momenti più melodrammatici piuttosto che in quel magico equilibrio fra oscurità e ironia dei primi due capitoli. Le porte aperte verso Il signore degli anelli ci sono tutte, ma vengono inserite in maniera brusca, sbrigativa e a volte anche un po' bislacca (Legolas che viene mandato da Granpasso è un anacronismo narrativo che non rende merito ad un conoscitore esperto quale Jackson ha più volte dimostrato di essere).
Va da sè che i veri aspetti positivi del film risiedono nella costruzione della scena, nell'ambientazione e nell'introduzione di nuovi personaggi ed elementi: su tutti, vale la pena citare Dàin il Piediferro (B. Connolly), che uccide gli orchi a testate e cavalca un bizzarro maiale selvatico belligerante; e, sempre rimanendo nell'ambito delle bestie, creature quali l'alce gigante di Thranduil o i mufloni da guerra sono state veramente "la luce dei miei occhi". Ma vale la pena spendere anche qualche parola di sconforto sull'eccessiva saturazione nella resa dei colori in molte scene (l'attacco di Smaug, tanto coinvolgente quanto paradossalmente "freddino") e sull'illusione di starsene in salotto con un gamepad stretto fra le mani mentre Legolas si improvvisa Mario che salta da un cubo all'altro.
Inutile "fanneggiare" e dire che <<E' Lo Hobbit, è di Jackson, è tutto bello!>>. Specie perchè davvero, dopo tredici anni, sembra di assistere a quello che tanti temevano, e cioè a un videogioco fantasy costato un mucchio di soldi e pensato solo per far battere cassa alla New Line.
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