In memoria di Sam Peckinpah (1925-1984) |
Eravamo a cena da amici che avevano un figlio di un anno inferiore a me: lui faceva prima liceo scientifico, io quinta ginnasio, lui aveva buoni voti, io no e a tavola si parlava molto di scuola, docenti, materie di studio, compiti per le vacanze. In televisione, Ciampi annunciava che il nostro paese avrebbe destinato settanta milioni di euro alle popolazioni colpite dal terribile Tsunami del 26 dicembre. Il discorso del presidente lasciò spazio ai conti alla rovescia cialtroni di RAI 1 e Canale 5, che se la giocavano a colpi di share, mentre i primi cellulari a colori vibravano senza tregua a causa dell'ingente flusso di catene di Sant'Antonio e messaggi di auguri per un felice 2005. E mentre i tappi di sughero saltavano via dalle bottiglie di spumante dolce, io fissavo il mio Swatch nuovo di pochi giorni e pensavo che, in quello stesso istante, il videoregistratore di casa mia stava facendo partire la registrazione di due capolavori di fila: L'arpa birmana di Ichikawa e Pat Garrett & Billy The Kid di Peckinpah, entrambi in onda su La7.
Al mattino seguente, mi svegliai tardi come è giusto fare ogni primo dell'anno che si rispetti e mi precipitai in sala a controllare che tutto fosse andato per il verso giusto. Era la prima volta che la televisione italiana passava la versione non censurata di Pat Garrett & Billy The Kid, quella di due ore e quattro minuti, ed era la prima volta che io- già allora consumato cinefilo -vedevo un film del genere. Fu un bel modo di entrare nel 2005, accompagnato da Dylan che cantava Billy e la Band che lo accompagnava, e nel mezzo amici che sono costretti a spararsi ma non vorrebbero, ladri di bestiame e politici affaristi, pistoleri che non sono bravi a contare e le lacrime, incontrollabili, che sgorgano fin da dentro l'anima di fronte alla scena in cui il vecchio sceriffo bussa alla porta del Paradiso. Da qui iniziò una caccia senza quartiere a tutto quello che riguardava Sam Peckinpah. Lessi avidamente la lunga intervista uscita su Playboy nel 1972 e quelle rilasciate ad Assays per i Cahiers, così come per mesi non tolsi dal comodino il Castoro di Valerio Caprara, una monografia coraggiosa e incompleta (si trattava della prima edizione, uscita nel 1974, quando il maestro era sempre in vita) sul cui retrocopertina trovava spazio una foto del regista intento a mimare una scena con tanto di bandana in testa e camicia di jeans stropicciata: guardavo quella faccia spigolosa, irriverente e al contempo malinconica, ed era come guardarmi allo specchio. Quando poi presi in prestito in biblioteca la videocassetta di Getaway!, capii che scappare con una valigia piena di soldi e la ragazza che ami armato solo di un fucile a pompa e dei tuoi sogni è tutto ciò che conta davvero nella vita.
Imparai questi film a memoria, ogni inquadratura, ogni dialogo; erano trame scritte senza filtri e senza veli con protagonisti persone che avevano perso tutto, narrate con la voce dei fuorilegge, dei rebels without cause, dei sognatori disillusi a cui però venivano riconsegnati dignità, rispetto e anche un po' di speranza. Nessuno dopo Peckinpah è più riuscito a raccontare quei temi con quella violenza primordiale e disarmante e quel romanticismo crepuscolare, perchè certe cose non saltano fuori dal nulla, ma abitano dentro a chi un giorno dovrà raccontarle e magari, nel farlo, avrà pure un prezzo da pagare. Quel prezzo, nel caso di Peckinpah, fu di morire a sessantuno anni solo, povero, distrutto da droghe e alcool, tormentato da avvocati e debitori e ormai totalmente abbandonato dall'industria cinematografica.
Successivamente, complice il palinsesto "datato" di Rete4, recuperai i primi western del regista: Sfida nell'alta Sierra mi piacque, La morte cavalca a Rio Bravo e Sierra Charriba un po' meno, anche perchè si avvertiva l'ombra invisibile ma gravosa della censura. Del resto, i produttori sono stati i più grandi nemici di Peckinpah: hanno dato freno ad un talento che non aveva limiti. Oltre ad avergli letteralmente rovinato la vita, gli tolsero di mano soggetti e sceneggiature prestigiose (sia Cincinnati Kid che L'imperatore del nord dovevano essere diretti da lui), gli impedirono di lavorare, gli mutilarono fino alla fine (Osterman Weekend circola da soli dieci anni nella formula voluta dal regista) le sue creature predilette.
Con l'acquisto del primo lettore DVD cambiarono molte cose, e con Cane di paglia mi trovai di fronte ad un Peckinpah molto diverso, ancora più oscuro e nichilista nei contenuti e perfettamente a suo agio in una produzione europea che aveva però, come protagonista, una super-star americana del calibro di Dustin Hoffman. Mentre tutti i film che avevo già visto potevano essere letti in almeno due modi diversi, questo no: dall'inizio alla fine, era un'opera disperata, nera, senza speranza. Ed era quella stessa disperazione, quel senso del non avere più nulla da perdere, a portare Pike Bishop e i suoi amici ad abbracciare la morte nel finale de Il mucchio selvaggio, il film di Peckinpah più famoso, amato e mitologizzato. Ricordo che il giorno dopo averlo visto corsi a cercare la locandina e la appesi all'armadio di camera, dove è stata fino a poco tempo fa: quelli erano i miei eroi, quello era ciò che volevo che il cinema fosse in grado di restituirmi. L'edizione director's cut (145 minuti) de Il mucchio selvaggio riassumeva al suo interno la formula dell'intera opera di Peckinpah, quella secondo cui un film doveva rappresentare sempre un'esperienza intensa, un qualcosa che non fornisse allo spettatore la possibilità di distrarsi. E' andata sempre così, perfino nel caso de La ballata di Cable Hogue, un flop clamoroso (anche se ben accolto dalla critica europea) che Peckinpah si ostinava a definire, divertito, il suo film migliore. Non me la sono mai sentita di dargli ragione, ma da subito vidi in Cable Hogue le qualità di un'opera ispirata e in grado di fondere perfettamente due distinti aspetti della poetica western, quello della caducità umana e della crudezza fisica e quello dell'importanza degli affetti e del cameratismo: ne derivava una tragicommedia di frontiera, ruvida, liberatoria e costruita sulla bravura di Jason Robards e sull'idilliaca fotografia di Lucien Ballard, più che mai perfetta per esorcizzare i demoni che già stavano ronzando attorno a Peckinpah all'inizio degli anni '70. Iniziava allora, infatti, ad essere l'uomo rude, vizioso e scontroso che sarebbe stato fino alla morte. Sempre con la valigia in mano, perennemente ubriaco e impasticcato, si rifugiava per lunghi periodi in Messico, ospite di qualche puttana o dell'amico attore Emilio Fernàndez. L'ultimo buscadero nacque in questo contesto e Peckinpah riuscì a riversare, in un soggettino standard da dramma contemporaneo, tutta la sua visione del mondo e delle cose e tutto il suo odio verso il sistema che aveva sgretolato la dimensione del suo passato, e cioè la prateria selvaggia e indomata. Come ne Il temerario (1952) di Nicholas Ray- al quale L'ultimo buscadero mi somigliò fin dalla prima volta che lo vidi -tutto stava nelle mani di un immenso protagonista (in questo caso, Steve McQueen), uno di quelli che in ogni inquadratura andrebbero fermati, fotografati e incorniciati sopra il letto, quasi volessimo che a vegliare su di noi non fosse qualche rassicurante icona sacra ma un desperado pagano e senza Dio.
Lo stesso genere di persona risultava essere il Bennie (Warren Oates, compagno di sbronze del maestro) protagonista di Voglio la testa di Garcia, capolavoro della maturità, unico film su cui godette del final cut ed ennesima pellicola da studiare a scuola e nella vita. Come in tutta la produzione post-Pat Garrett, Peckinpah si muoveva già sulle ceneri della propria arte e del mondo che aveva tentato di raccontare. La troupe si trovava in Messico, c'erano fondi per meno di due mesi di riprese (se raffrontato alla quantità di tempo impiegato a girarlo, il risultato è ulteriormente stupefacente) e il regista decise di non gravare ulteriormente sulle spese alimentari: di fatti, come racconta la sua segretaria e assistente Katy Haber, per tutta la lavorazione del film Peckinpah non mangiò praticamente mai e portò avanti una dieta ferrea fatta di psicofarmaci, integratori e vodka. Molti anni dopo, persone come Tarantino, Rodriguez e perfino Tommy Lee Jones (Le tre sepolture) si sarebbero ricordate di Voglio la testa di Gracia, mentre, all'indomani della sua uscita, il Wall Street Journal consigliava a Peckinpah di ricorrere a un analista. Quell'articolo, perfettamente rintracciabile ancora oggi, desta dei simpatici risolini (specie a fronte dell'enorme rivalutazione ottenuta dal film), ma soprattutto fa capire quanto la critica americana non fosse assolutamente in grado di mettere a fuoco il livello a cui ormai Peckinpah aveva portato la propria poetica. E Voglio la testa di Garcia andrebbe visto davvero come il film della maturità, quello in cui saggezza ed esperienza riescono a bilanciare riflessione e rabbia, istinto e ragione.
Cosa ci fu dopo? Molto altro, tante belle cose e tanti fallimenti. Per cominciare, nel 1975, uscì Killer Elite, il suo undicesimo film e il primo girato in un abbandono pressochè totale. A parte James Caan e Robert Duvall, tutto il cast era composto da interpreti di serie B, C, D, Z. I pochi soldi investiti dalla United Artists servirono più che altro a pagare i coreografi e i maestri d'armi e la sceneggiatura fu gestita esclusivamente "da terzi". Dopo Garcia nessuno credeva in Peckinpah, nessuno voleva dargli lavoro e denaro, neanche i rivoluzionari astri nascenti della New-Hollywood che avevano amato i suoi western degli anni '60 e che tanto gli dovevano in termine di ispirazione e insegnamenti. Le sue cattive abitudini e il suo anticonformismo cozzavano con idee e gusti del pubblico molto diversi. Malato, povero in canna e spossato dalla massiccia dose di ipocrisia e meschinità (oltre che di intolleranza) somministratagli dallo star-system hollywoodiano, decise di tornare a lavorare in Europa. Scelse il romanzo Das Geduldiche Fleisch di Willi Einrich come soggetto per il suo primo (e unico) war-movie.
La croce di ferro uscì nel 1977 e destò pochi clamori: un vero peccato per un film girato benissimo che ancora oggi è in grado di meravigliare per la propria modernità e di rivaleggiare, da solo, con una buona fetta dei film sulla Seconda Guerra Mondiale girati negli ultimi trent'anni. Da parte sua, Peckinpah pretese soltanto che nei panni del protagonista ci fosse James Coburn; le restanti scelte dipesero dalle direttive dalla EMI Films e dal produttore Wolf C. Hartwig, che provvedette a tagliare una decina di minuti di pellicola senza però arrecare troppi danni alla versione finale. E fu sempre grazie alla EMI che Peckinpah potè dirigere Convoy (1978), il film con cui tornò a guadagnare cifre che non vedeva dai tempi di Cane di paglia e Getaway! e che gli permise di lavorare ancora con vecchi amici quali Kris Kristofferson, Ali McGraw, Ernest Borgnine e James Coburn (qui misteriosamente coinvolto non come attore ma come 2nd unit director e compagno di sbornie).
Solo un talento di prima grandezza come quello di Peckinpah poteva riuscire a tirare fuori da un qualunque chase-movie un cult della fattura di Convoy, dove la lotta per la totale indipendenza del singolo diventava azione collettiva contro il potere costituito, strumentalizzata dai media malvagi (la televisione) e promossa positivamente da quelli buoni (la radio). Chi meno di dieci anni prima lo aveva bollato come fascista e misogino, nel 1978 lo promosse a simbolo di una nuova ribellione giovanile, quasi un profeta antesignano dell'America Blue Collar, ma al maestro queste cose interessavano poco. Il terzo matrimonio stava naufragando, la cocaina regnava sovrana, ma Peckinpah non sbandierava i suoi vizi sui giornaletti di gossip: non ne avvertiva il bisogno, erano drammi dolorosi, personali e nulla avevano a che spartire con i suoi film, sempre superlativi e all'altezza del loro autore. Tuttavia, chi si trovava a frequentare il regista sul finire degli anni '70 poteva assistere ad un declino psicofisico inarrestabile. Pallido, emaciato, totalmente assorbito da bottiglie di whisky e sigarette, Peckinpah si ritrovò a soffrire di paranoia e crisi maniaco-depressive che ne compromisero definitivamente la carriera. E fu così che, braccato da avvocati, agenti aguzzini, ex-mogli furiose e produttori ingrati, lasciò la natia California e riparò a Livingston, Montana, dove affittò in pianta stabile una stanza al caratteristico Murray Hotel. Da lì iniziò un suo tormentato e oscuro (e non si sa quanto effettivamente riuscito) periodo di disintossicazione, che egli dichiarò concluso solo nel 1983, quando tornò al cinema con Osterman Weekend, il thriller spionistico con cui prevedeva di aprire una nuova fase della propria carriera ma che sarebbe stato il suo quattordicesimo e ultimo film.
Fu il vecchio mentore Don Siegel a vestire i panni del Deus ex-machina nell'opera di convincimento dei produttori della 20th Century Fox. Nell'estate del 1981 aveva reclutato Peckinpah come direttore della seconda unità di Jinxed! e aveva dimostrato che il regista era perfettamente in grado di stare dietro la macchina da presa. Peter S. Davis e William Panzer, pur diffidando, fecero recapitare a Peckinpah l'adattamento del romanzo The Osterman Weekend di Robert Ludlum: il maestro definì "merda" sia il libro che la sceneggiatura di Alan Sharp e si offrì di riscriverla. Ovviamente, gli fu negata anche questa possibilità, ed egli si limitò a richiedere la totale libertà sul montaggio, arrivando a rispettare perfettamente tempi e budget. Rutger Hauer, Burt Lancaster, Dennis Hopper e le altre star chiamate a vestire i panni dei personaggi di questo film intricato e inquietante si dicevano soddisfatte del risultato, mentre Peckinpah ricominciava a fare capolino sia in televisione che sulle riviste di cinema. Aveva preso peso, era incazzato con i produttori che gli avevano fatto a pezzi Osterman Weekend e raccontava i preparativi di un film scritto da Stephen King e intitolato The Shotgunners (anni dopo, quella sceneggiatura sarebbe divenuta I vendicatori). Per il resto, il film era nelle sale ma ci sarebbe rimasto poco, trattato come un b-movie antisovietico qualsiasi. I problemi sociali e caratteriali di Peckinpah erano noti, Osterman Weekend non era un capolavoro, ma l'abbandono dell'alcool e delle droghe e qualche progetto all'orizzonte rappresentavano, all'epoca, il sereno dopo la tempesta.
Le sue ultime prove registiche furono un paio di video di Julian Lennon (Valotte e Too Late For Goodbyes, presentati anche agli MTV Video Awards 1985), straordinariamente affini al cinema di cui parlava negli ultimi tempi: inquadrature secche, asciutte, potenti e sempre al servizio di un soggetto semplice. Non è un caso che Walter Hill, amico di Peckinpah e sceneggiatore di Getaway!, fosse in quei primi anni '80 l'unico in grado di portare il western oltre la zona del crepuscolo a cui era giunto il maestro con Pat Garrett & Billy The Kid. Stando a un paio di testimonianze, pare che "Bloody Sam" (così lo chiamavano ormai) avesse visto e amato I cavalieri dalle lunghe ombre (1980) di Hill, che fondamentalmente è rimasto l'unico vero capolavoro del genere girato nel decennio della plastica e del sintetico. Forse è stato quello l'ultimo film dove Peckinpah, prima di venire a mancare il 28 dicembre 1984, ha intravisto sia una forma del proprio lascito che un ricordo delle origini: la frontiera era la sua vera casa, e lui la visse, come uomo e come artista, nella sua essenza più profonda. Era un westerner che affermava di girare "commedie morali" (agli antipodi c'era John Ford che apriva le interviste con la frase ad effetto <<Mi chiamo John Ford e faccio western>>) e lo faceva senza perdersi in fronzoli. Poteva essere fatto e ubriaco, ma sul set era concentrato come nessun altro, motivato, impegnato a raccontare storie di vecchi amici, fuorilegge, tempi duri e delusioni. Le storie di amore erano sempre storie di violenza, e il Peckinpah degli ultimi anni finì per somigliare straordinariamente molto al Pike Bishop de Il mucchio selvaggio: era un bandito vittima del tempo che passa, un hobo moderno che aveva vissuto il passaggio dalla ruralità alla metropolitanità e che lottava con tutto se stesso per risultare sempre un non allineato. Imitare gli stili del passato non era nel suo interesse; preferiva rivoltare i generi vecchi e fare cose nuove (di questo parlava, a conti fatti, anche Osterman Weekend, dove tutto è iper-tecnologico). Si guardava alle spalle, ma lo faceva solo per sopravvivere ad un presente fatto di soprusi, prepotenze e ingiustizie.
Sono passati esattamente trent'anni da quando se ne è andato Sam Peckinpah: il sangue, il sudore e la polvere da sparo sono ancora là. Ha girato quattordici film. Guardandone uno al giorno, bastano due settimane per avere la panoramica completa della sua produzione. Come nel caso di pochissimi altri artisti, me la sento di consigliare la sua opera omnia a prescindere.
Imparai questi film a memoria, ogni inquadratura, ogni dialogo; erano trame scritte senza filtri e senza veli con protagonisti persone che avevano perso tutto, narrate con la voce dei fuorilegge, dei rebels without cause, dei sognatori disillusi a cui però venivano riconsegnati dignità, rispetto e anche un po' di speranza. Nessuno dopo Peckinpah è più riuscito a raccontare quei temi con quella violenza primordiale e disarmante e quel romanticismo crepuscolare, perchè certe cose non saltano fuori dal nulla, ma abitano dentro a chi un giorno dovrà raccontarle e magari, nel farlo, avrà pure un prezzo da pagare. Quel prezzo, nel caso di Peckinpah, fu di morire a sessantuno anni solo, povero, distrutto da droghe e alcool, tormentato da avvocati e debitori e ormai totalmente abbandonato dall'industria cinematografica.
Successivamente, complice il palinsesto "datato" di Rete4, recuperai i primi western del regista: Sfida nell'alta Sierra mi piacque, La morte cavalca a Rio Bravo e Sierra Charriba un po' meno, anche perchè si avvertiva l'ombra invisibile ma gravosa della censura. Del resto, i produttori sono stati i più grandi nemici di Peckinpah: hanno dato freno ad un talento che non aveva limiti. Oltre ad avergli letteralmente rovinato la vita, gli tolsero di mano soggetti e sceneggiature prestigiose (sia Cincinnati Kid che L'imperatore del nord dovevano essere diretti da lui), gli impedirono di lavorare, gli mutilarono fino alla fine (Osterman Weekend circola da soli dieci anni nella formula voluta dal regista) le sue creature predilette.
Con l'acquisto del primo lettore DVD cambiarono molte cose, e con Cane di paglia mi trovai di fronte ad un Peckinpah molto diverso, ancora più oscuro e nichilista nei contenuti e perfettamente a suo agio in una produzione europea che aveva però, come protagonista, una super-star americana del calibro di Dustin Hoffman. Mentre tutti i film che avevo già visto potevano essere letti in almeno due modi diversi, questo no: dall'inizio alla fine, era un'opera disperata, nera, senza speranza. Ed era quella stessa disperazione, quel senso del non avere più nulla da perdere, a portare Pike Bishop e i suoi amici ad abbracciare la morte nel finale de Il mucchio selvaggio, il film di Peckinpah più famoso, amato e mitologizzato. Ricordo che il giorno dopo averlo visto corsi a cercare la locandina e la appesi all'armadio di camera, dove è stata fino a poco tempo fa: quelli erano i miei eroi, quello era ciò che volevo che il cinema fosse in grado di restituirmi. L'edizione director's cut (145 minuti) de Il mucchio selvaggio riassumeva al suo interno la formula dell'intera opera di Peckinpah, quella secondo cui un film doveva rappresentare sempre un'esperienza intensa, un qualcosa che non fornisse allo spettatore la possibilità di distrarsi. E' andata sempre così, perfino nel caso de La ballata di Cable Hogue, un flop clamoroso (anche se ben accolto dalla critica europea) che Peckinpah si ostinava a definire, divertito, il suo film migliore. Non me la sono mai sentita di dargli ragione, ma da subito vidi in Cable Hogue le qualità di un'opera ispirata e in grado di fondere perfettamente due distinti aspetti della poetica western, quello della caducità umana e della crudezza fisica e quello dell'importanza degli affetti e del cameratismo: ne derivava una tragicommedia di frontiera, ruvida, liberatoria e costruita sulla bravura di Jason Robards e sull'idilliaca fotografia di Lucien Ballard, più che mai perfetta per esorcizzare i demoni che già stavano ronzando attorno a Peckinpah all'inizio degli anni '70. Iniziava allora, infatti, ad essere l'uomo rude, vizioso e scontroso che sarebbe stato fino alla morte. Sempre con la valigia in mano, perennemente ubriaco e impasticcato, si rifugiava per lunghi periodi in Messico, ospite di qualche puttana o dell'amico attore Emilio Fernàndez. L'ultimo buscadero nacque in questo contesto e Peckinpah riuscì a riversare, in un soggettino standard da dramma contemporaneo, tutta la sua visione del mondo e delle cose e tutto il suo odio verso il sistema che aveva sgretolato la dimensione del suo passato, e cioè la prateria selvaggia e indomata. Come ne Il temerario (1952) di Nicholas Ray- al quale L'ultimo buscadero mi somigliò fin dalla prima volta che lo vidi -tutto stava nelle mani di un immenso protagonista (in questo caso, Steve McQueen), uno di quelli che in ogni inquadratura andrebbero fermati, fotografati e incorniciati sopra il letto, quasi volessimo che a vegliare su di noi non fosse qualche rassicurante icona sacra ma un desperado pagano e senza Dio.
Lo stesso genere di persona risultava essere il Bennie (Warren Oates, compagno di sbronze del maestro) protagonista di Voglio la testa di Garcia, capolavoro della maturità, unico film su cui godette del final cut ed ennesima pellicola da studiare a scuola e nella vita. Come in tutta la produzione post-Pat Garrett, Peckinpah si muoveva già sulle ceneri della propria arte e del mondo che aveva tentato di raccontare. La troupe si trovava in Messico, c'erano fondi per meno di due mesi di riprese (se raffrontato alla quantità di tempo impiegato a girarlo, il risultato è ulteriormente stupefacente) e il regista decise di non gravare ulteriormente sulle spese alimentari: di fatti, come racconta la sua segretaria e assistente Katy Haber, per tutta la lavorazione del film Peckinpah non mangiò praticamente mai e portò avanti una dieta ferrea fatta di psicofarmaci, integratori e vodka. Molti anni dopo, persone come Tarantino, Rodriguez e perfino Tommy Lee Jones (Le tre sepolture) si sarebbero ricordate di Voglio la testa di Gracia, mentre, all'indomani della sua uscita, il Wall Street Journal consigliava a Peckinpah di ricorrere a un analista. Quell'articolo, perfettamente rintracciabile ancora oggi, desta dei simpatici risolini (specie a fronte dell'enorme rivalutazione ottenuta dal film), ma soprattutto fa capire quanto la critica americana non fosse assolutamente in grado di mettere a fuoco il livello a cui ormai Peckinpah aveva portato la propria poetica. E Voglio la testa di Garcia andrebbe visto davvero come il film della maturità, quello in cui saggezza ed esperienza riescono a bilanciare riflessione e rabbia, istinto e ragione.
Cosa ci fu dopo? Molto altro, tante belle cose e tanti fallimenti. Per cominciare, nel 1975, uscì Killer Elite, il suo undicesimo film e il primo girato in un abbandono pressochè totale. A parte James Caan e Robert Duvall, tutto il cast era composto da interpreti di serie B, C, D, Z. I pochi soldi investiti dalla United Artists servirono più che altro a pagare i coreografi e i maestri d'armi e la sceneggiatura fu gestita esclusivamente "da terzi". Dopo Garcia nessuno credeva in Peckinpah, nessuno voleva dargli lavoro e denaro, neanche i rivoluzionari astri nascenti della New-Hollywood che avevano amato i suoi western degli anni '60 e che tanto gli dovevano in termine di ispirazione e insegnamenti. Le sue cattive abitudini e il suo anticonformismo cozzavano con idee e gusti del pubblico molto diversi. Malato, povero in canna e spossato dalla massiccia dose di ipocrisia e meschinità (oltre che di intolleranza) somministratagli dallo star-system hollywoodiano, decise di tornare a lavorare in Europa. Scelse il romanzo Das Geduldiche Fleisch di Willi Einrich come soggetto per il suo primo (e unico) war-movie.
La croce di ferro uscì nel 1977 e destò pochi clamori: un vero peccato per un film girato benissimo che ancora oggi è in grado di meravigliare per la propria modernità e di rivaleggiare, da solo, con una buona fetta dei film sulla Seconda Guerra Mondiale girati negli ultimi trent'anni. Da parte sua, Peckinpah pretese soltanto che nei panni del protagonista ci fosse James Coburn; le restanti scelte dipesero dalle direttive dalla EMI Films e dal produttore Wolf C. Hartwig, che provvedette a tagliare una decina di minuti di pellicola senza però arrecare troppi danni alla versione finale. E fu sempre grazie alla EMI che Peckinpah potè dirigere Convoy (1978), il film con cui tornò a guadagnare cifre che non vedeva dai tempi di Cane di paglia e Getaway! e che gli permise di lavorare ancora con vecchi amici quali Kris Kristofferson, Ali McGraw, Ernest Borgnine e James Coburn (qui misteriosamente coinvolto non come attore ma come 2nd unit director e compagno di sbornie).
Solo un talento di prima grandezza come quello di Peckinpah poteva riuscire a tirare fuori da un qualunque chase-movie un cult della fattura di Convoy, dove la lotta per la totale indipendenza del singolo diventava azione collettiva contro il potere costituito, strumentalizzata dai media malvagi (la televisione) e promossa positivamente da quelli buoni (la radio). Chi meno di dieci anni prima lo aveva bollato come fascista e misogino, nel 1978 lo promosse a simbolo di una nuova ribellione giovanile, quasi un profeta antesignano dell'America Blue Collar, ma al maestro queste cose interessavano poco. Il terzo matrimonio stava naufragando, la cocaina regnava sovrana, ma Peckinpah non sbandierava i suoi vizi sui giornaletti di gossip: non ne avvertiva il bisogno, erano drammi dolorosi, personali e nulla avevano a che spartire con i suoi film, sempre superlativi e all'altezza del loro autore. Tuttavia, chi si trovava a frequentare il regista sul finire degli anni '70 poteva assistere ad un declino psicofisico inarrestabile. Pallido, emaciato, totalmente assorbito da bottiglie di whisky e sigarette, Peckinpah si ritrovò a soffrire di paranoia e crisi maniaco-depressive che ne compromisero definitivamente la carriera. E fu così che, braccato da avvocati, agenti aguzzini, ex-mogli furiose e produttori ingrati, lasciò la natia California e riparò a Livingston, Montana, dove affittò in pianta stabile una stanza al caratteristico Murray Hotel. Da lì iniziò un suo tormentato e oscuro (e non si sa quanto effettivamente riuscito) periodo di disintossicazione, che egli dichiarò concluso solo nel 1983, quando tornò al cinema con Osterman Weekend, il thriller spionistico con cui prevedeva di aprire una nuova fase della propria carriera ma che sarebbe stato il suo quattordicesimo e ultimo film.
La hall del Murray Hotel di Livingston (Montana) |
Le sue ultime prove registiche furono un paio di video di Julian Lennon (Valotte e Too Late For Goodbyes, presentati anche agli MTV Video Awards 1985), straordinariamente affini al cinema di cui parlava negli ultimi tempi: inquadrature secche, asciutte, potenti e sempre al servizio di un soggetto semplice. Non è un caso che Walter Hill, amico di Peckinpah e sceneggiatore di Getaway!, fosse in quei primi anni '80 l'unico in grado di portare il western oltre la zona del crepuscolo a cui era giunto il maestro con Pat Garrett & Billy The Kid. Stando a un paio di testimonianze, pare che "Bloody Sam" (così lo chiamavano ormai) avesse visto e amato I cavalieri dalle lunghe ombre (1980) di Hill, che fondamentalmente è rimasto l'unico vero capolavoro del genere girato nel decennio della plastica e del sintetico. Forse è stato quello l'ultimo film dove Peckinpah, prima di venire a mancare il 28 dicembre 1984, ha intravisto sia una forma del proprio lascito che un ricordo delle origini: la frontiera era la sua vera casa, e lui la visse, come uomo e come artista, nella sua essenza più profonda. Era un westerner che affermava di girare "commedie morali" (agli antipodi c'era John Ford che apriva le interviste con la frase ad effetto <<Mi chiamo John Ford e faccio western>>) e lo faceva senza perdersi in fronzoli. Poteva essere fatto e ubriaco, ma sul set era concentrato come nessun altro, motivato, impegnato a raccontare storie di vecchi amici, fuorilegge, tempi duri e delusioni. Le storie di amore erano sempre storie di violenza, e il Peckinpah degli ultimi anni finì per somigliare straordinariamente molto al Pike Bishop de Il mucchio selvaggio: era un bandito vittima del tempo che passa, un hobo moderno che aveva vissuto il passaggio dalla ruralità alla metropolitanità e che lottava con tutto se stesso per risultare sempre un non allineato. Imitare gli stili del passato non era nel suo interesse; preferiva rivoltare i generi vecchi e fare cose nuove (di questo parlava, a conti fatti, anche Osterman Weekend, dove tutto è iper-tecnologico). Si guardava alle spalle, ma lo faceva solo per sopravvivere ad un presente fatto di soprusi, prepotenze e ingiustizie.
Sono passati esattamente trent'anni da quando se ne è andato Sam Peckinpah: il sangue, il sudore e la polvere da sparo sono ancora là. Ha girato quattordici film. Guardandone uno al giorno, bastano due settimane per avere la panoramica completa della sua produzione. Come nel caso di pochissimi altri artisti, me la sento di consigliare la sua opera omnia a prescindere.