venerdì 1 agosto 2014

Lana Del Rey, "Ultraviolence" [Suggestioni uditive]

Lana Del Rey,
Ultraviolence (Interscope, 2014)
★★★ ½
















Sono onesto: è il primo di agosto. Non mi interessano i servizi dei tg sul fatto che quest'anno Autostrade per l'Italia non prevede nessun bollino nero limitandosi a segnalare due giornate da bollino rosso. Allo stesso modo, non mi interessa leggere le lunghe indagini di Vice sulla ormai pluriennale carenza di tormentoni estivi, sul fatto che fra dieci anni queste terrificanti stagioni verranno ricordate come "l'era Avicii". Infine, non mi interessa sapere se Lana Del Rey è davvero sensibile, malinconica e romantica come vuole apparire o se è tutta una montatura delle case discografiche che da un paio d'anni a questa parte hanno trovato una gallinella dalle labbra carnose e dalle uova d'oro in grado di fare vendite (nel senso di copie-di-un-disco-realmente-e-legalmente-vendute-in-tutto-il-mondo) da capogiro.
E poi mi rimane simpatica, perchè fa incazzare gli indie maniacs più radicali con le sue hit da classifica, i suoi testi da Britney Spears laureata in Metafisica (lo è davvero, stando a quanto leggo su Wikipedia), le sue frequentazioni mondane che si imprimono meglio sulla carta di Novella 2000 che non su quella di Blow Up. 
Le canzoni del precedente Born To Die sapevano coinvolgere, commuovere, divertire ed essere spunti per riflessioni sull'umanità, sui comportamenti sociali e sui nostri sentimenti. Però, a certi testi mancava davvero molto, mentre, sul piano prettamente musicale, il disco risultava essere ipertrofico, barocco, pomposo ed esagerato già al primo ascolto: perciò, avvertendo un certo odore di pretenziosità gratuita, ho smesso di ascoltare Video Games, Summertime Sadness e altri singoloni praticamente subito. In seguito, non mi ha smosso la Young And Beauty composta ad hoc per Il grande Gatsby, mentre non mi vergogno di ammettere che la cover di Chelsea Hotel #2 (uscita poco dopo) mi ha letteralmente fatto sciogliere. Infine, è arrivato questo Ultraviolence, trainato da operazioni di marketing ridicole ma mai inutili e da un singolo che, diciamolo, non è nè carne nè pesce, e cioè West Coast
Invece le reminescenze velvetundergroundiane del primo pezzo Cruel World mostrano da subito un'altra faccia della medaglia, che poi corrisponde perfettamente a tutto il codice genetico di Ultraviolence, un album ancora più cupo e introspettivo rispetto al suo predecessore e ironicamente ancora più riuscito a livello commerciale. La musica di Lana Del Rey, talvolta snobbata da un pubblico intellettualmente pigro e arroccato su preconcetti facili, si rinnova grazie al lavoro su pezzi come la title-track, Shades Of Cool o Money Power Glory. Se il giudizio di un disco non fosse globale ma settoriale, Ultraviolence sarebbe, per come è arrangiato e prodotto, da 10: davvero non esistono abbastanza parole per lodare l'ottimo lavoro portato a termine da Dan Auerbach (quello dei Black Keys, sì), che alleggerisce il dream-pop con cui la Del Rey ha galoppato di classifica in classifica e lo sovraccarica di blues, art-rock e country. 
Chitarre, organi, echi di mondi lontani che si uniscono a creare canzoni pop perfette che stanno già ottenendo un ampio successo, andando leggermente oltre l'eterna e noiosa lotta fra indie e mainstream, oltre la banalità della canzoncina da colonna sonora di un film Disney (Once Upon A Time non sembra essere stata scritta dalla stessa artista di Brooklyn Baby), oltre le discussioni conviviali sulle varie mode culturali del nostro tempo. Da consigliare l'ascolto dei brani della deluxe edition (su tutti, Black Beauty e la perla nascosta Guns And Roses), che documentano e ribadiscono nuovamente vizi e stravizi di una star che sembra vivere in perenne bilico fra orrore e amore. 


















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