mercoledì 20 agosto 2014

DragonForce, "Maximum Overload" [Suggestioni uditive]

DragonForce,
Maximum Overload (earMusic, 2014)
★★
















Secondo la concezione leopardiana, la noia è un sentimento nato dalla percezione della nostra stessa incapacità/impossibilità di godere. Non godo, di conseguenza non esisto.
Per esempio: ascolto da un paio di giorni Maximum Overload dei DragonForce, ma non riesco a godere. Peccato, perchè i 240 bpm di The Game mi avevano mandato in brodo di giuggiole con largo anticipo rispetto all'uscita dell'album, ma parliamoci chiaro: questi ordinari ragazzi inglesi a me stanno simpatici, ma mi annoiano molto. Ho iniziato ad ascoltare i loro primi due dischi intorno al 2009, lodando più certi arditi esperimenti sonori che non l'impressionante, iperveloce e martellante stile che li ha resi famosi in tutto il mondo. E mentre Sam Totman (chitarrista e compositore del 98% del repertorio DragonForce) cita gli Slayer o i Sepultura- cioè gruppi essenziali nella crescita umana e culturale del sottoscritto -come fonti di ispirazione per brani quali Defenders o Tomorrow's King, io guardo con scetticismo alla sbornia trash e progressive presa dal gruppo in Maximum Overload. Sarà forse per la produzione di Jens Borgen (per i non addetti, questo distinto trentenne svedese vanta fra i propri album prodotti capolavori di band quali Opeth, Amon Amarth e Paradise Lost, ed è attualmente a lavoro sul nuovo disco degli Angra), sarà per mettere in ulteriore risalto le impeccabili tastiere di Pruzhanov, ma se l'intento dei DragonForce era di riuscire a plasmare un sistema musicale che sembra provenire da una dimensione parallela ci sono riusciti in pieno. Lasciamo perdere i versi di denuncia civile contenuti in molti dei nuovi brani (il disco dovrebbe parlare del flusso ininterrotto di informazioni e martellamenti mediatici a cui le nostre menti sono sottoposte ogni giorno) o le canzonette "da spiaggia" come Three Hammers: Maximum Overload è un disco-mondo, cioè un sistema in cui il mondo non c'è più e delle canzoni fanno in modo di sostituirsi ad esso, e lo fanno seguendo le loro regole, senza doversi preoccupare della percezione di cui esse godranno nel crudele mondo reale. Ma nonostante la squassante polifonia digitale dei brani e la loro raffinata composizione materica e produttiva, gli album dei DragonForce non mi fanno godere e mi annoiano. E perfino in un universo dove le leggi di generi quali il power o lo speed metal (ovvero le fondamenta di questa band inglese) riuscissero a regnare incontrastate, non riuscirei mai a percepire nessuna di queste dieci nuove canzoni come veramente affine
Perciò giriamo pagina. O meglio, cambiamo disco.
Ancora una volta.

domenica 3 agosto 2014

Grave Digger, "Return Of The Reaper" [Suggestioni uditive]

Grave Digger,
Return Of The Reaper (Napalm Records, 2014)

★★★

















Nei rotoli del Mar Morto si parla dei Grave Digger.
Il Muro di Berlino lo hanno abbattuto i Grave Digger.
I Grave Digger hanno capito il finale di Lost.
Forse sto esagerando, ma, amenità a parte, raramente ho provato una sensazione di coinvolgimento più totale e vicina all'estasi divina di quando, ormai undici anni fa, mi accinsi ad ascoltare Rheingold dei tedeschi Grave Digger. Questo disco- che poi è un sentito omaggio alla saga dei Nibelunghi in salsa power metal -fu recensito piuttosto malamente all'epoca ed è da sempre considerato uno dei peggiori risultati della carriera trentennale della band: tuttavia, al suo interno trovavo tutto ciò di cui avevo bisogno a quel tempo. Musica tutta di un pezzo, chitarroni mandati a barbara velocità, batteria che viaggia al ritmo di un Eurostar, testi che parlano di eroi impavidi, draghi sputafuoco e principesse da salvare. Tutta roba di cui fruire a volume elevatissimo e preferibilmente mentre si compie quell'esercizio sacrale denominato "headbanging".
Oggi il sottoscritto non esercita più la medesima pratica da molti anni per un motivo un po' più prosaico che sarà il caso di svelare una volta per tutte: ho sempre meno capelli e temo che continuando ad ascoltare metallo pesante a manetta e agitando la testa a ritmo accellerà l'inesorabile estinzione del mio cuio capelluto. Non per questo futile motivo, però, ho smesso di seguire personaggi come i Grave Digger, i quali, pur con alcune cadute di stile sparse qua e là, tengono alto lo stendardo del power metal teutonico dal lontano 1980.
Esiste una mitologia metallara- spiegata in celebri canzoni e in alcuni importanti saggi scritti -riguardante i motivi di una passione simile a quella che arde nel cuore del frontman Chris Boltendahl per tutto ciò che odora anche solo lontanamente di mortuario. Infatti, come molte altre famosissime band del genere, i Grave Digger non rinunciano alla loro mascotte scheletrica neanche per questo nuovo Return Of The Reaper, seguito dell'album The Reaper (1993): la protagonista assoluta di tutte queste canzoni altro non è che lei, la Grigia Signora, la Grande Mietitrice, la Morte. E la Morte, in casa Grave Digger, è un'ospite tanto desiderata quanto difficile da gestire una volta che si è messa a proprio agio. Hell Funeral, ad esempio, risulta un classico singolo convincente col suo pianoforte che richiama la Marcia Funebre di Chopin e coi suoi effetti sonori di corvi, temporali e cavalli al trotto, e lo stesso vale per Resurrection Day. I nostri hanno capito che flirtare con generi poco consoni al rigore tedesco quali l'epic o il symphonic metal non li avrebbe aiutati nè a tornare ai fasti di capolavori del passato nè a sviluppare nuove forme di sperimentalismi: e così, ecco che tutta la produzione presenta un notevole e gradito alleggerimento sonoro, oltre ad un palese assottigliarsi della durata media delle canzoni. Certi barocchismi riaffiorano qua e là e i riempitivi fioccano (il disco poteva contare almeno quattro pezzettini in meno), ma la matrice speed dei loro anni d'oro viene sempre mantenuta.
A questo punto vale la pena chiedersi: è un bene o un male recuperare il passato per migliorare il presente? Nel caso di Return Of The Reaper, è un bene: l'album è registrato e confezionato splendidamente da un gruppo di professionisti seri e devoti alla musica come ormai poche band sanno risultare e, al contrario dei suoi diretti predecessori, supera abbondantemente la sufficienza. Questi cavalieri teutonici non hanno cercato il capolavoro nè l'opera maxima pomposa e super-prodotta, puntando tutto su una formula datata ma ancora pienamentre efficace. Molti pezzi sanno di risentito, è innegabile, ma stiamo parlando di una formazione che fa musica da più di trent'anni e vanta una ventina di album all'attivo. Non sono mica i Coldplay!

sabato 2 agosto 2014

Judas Priest, "Redeemer Of Souls" [Suggestioni uditive]

Judas Priest,
Redeemer Of Souls (Epic Records, 2014)

★★★★

















Se in una dimensione parallela fossi un insegnante di Storia del Rock, consiglierei agli studenti, come compito delle vacanze, l'ascolto di Redeemer Of Souls, 17° capitolo discografico di uno dei massimi gruppi di sempre. Divinità assolute della musica moderna, artefici del Metal autentico, mostri sacri che hanno da poco varcato- non senza intoppi, defezioni e tragedie temporanee -la soglia dei quarantacinque anni di attività, i Priest hanno recentemente visto uscire dal gruppo uno dei loro due membri fondatori, il chitarrista K. K. Downing: tale notizia, sommata al fatto che questo nuovo album arriva nei negozi a due anni dalla conclusione dell'acclamato, autocelebrativo e seguitissimo Epitaph Tour, ha subito dato il via a tutta una serie di questioni sulla legittimità di un'operazione simile. Musica genuina o solo un modo per racimolare i quattrini con cui assicurarsi una pensioncina dorata?
Sono ormai dodici giorni che ascolto brani come Metallizer, Crossfire e la tombale Beginning Of The End, e sono dodici giorni che mi convinco sempre di più che non potevamo chiedere un risultato migliore di questo al quintetto di Birmingham. Infatti, non solo Richie Faulkner suona alla grande tutte e sei le corde della sua chitarra (l'assolo di Sword Of Damocles ne è un brillante esempio) e rimpiazza magnificamente un semidio come Downing: la voce di Halford rimane una delle più straordinarie di sempre (e non mi riferisco di certo al solo Heavy Metal) e la produzione "vecchia scuola" di Mike Exeter è paragonabile a quella di un deus ex-machina giunto a riscattare la tronfiezza del precedente Nostradamus (per chi se lo fosse perso, è stato il primo, unico e discusso concept-album dei Judas Priest). Per il resto, Redeemer Of Souls farà felici i fans che desideravano un ritorno al sound di British Steel (1980) e fornirà ai metallari in erba un vademecum per passare un'ora di ferie in modo proficuo e istruttivo. 
Canzoni come Dragounaut e Sword Of Damocles sono la riprova di una band che ha attraversato più di quarant'anni di cambamenti epocali con naturalezza e rigore e che non si è fatta mai mancare passi falsi (Turbo) e fallimenti (Jugulator). Perciò, ben venga il Metal puro e onesto di questo Redeemer Of Souls, che ascoltato oggi suona davvero come una macchina assassina, comparsa proprio nel momento di deflusso finale dei nodi post-NuMetal per riappropiarsi del gusto e delle dimensioni dell'Heavy classico. I testi di Glenn Tipton (qui anche co-produttore) e Halford non celano metafore nè sottendono tesi, liberi di essere puro e semplice racconto, appassionanti come un feuilleton, fieri del loro potere metallaro assoluto e definitivo.

venerdì 1 agosto 2014

Lana Del Rey, "Ultraviolence" [Suggestioni uditive]

Lana Del Rey,
Ultraviolence (Interscope, 2014)
★★★ ½
















Sono onesto: è il primo di agosto. Non mi interessano i servizi dei tg sul fatto che quest'anno Autostrade per l'Italia non prevede nessun bollino nero limitandosi a segnalare due giornate da bollino rosso. Allo stesso modo, non mi interessa leggere le lunghe indagini di Vice sulla ormai pluriennale carenza di tormentoni estivi, sul fatto che fra dieci anni queste terrificanti stagioni verranno ricordate come "l'era Avicii". Infine, non mi interessa sapere se Lana Del Rey è davvero sensibile, malinconica e romantica come vuole apparire o se è tutta una montatura delle case discografiche che da un paio d'anni a questa parte hanno trovato una gallinella dalle labbra carnose e dalle uova d'oro in grado di fare vendite (nel senso di copie-di-un-disco-realmente-e-legalmente-vendute-in-tutto-il-mondo) da capogiro.
E poi mi rimane simpatica, perchè fa incazzare gli indie maniacs più radicali con le sue hit da classifica, i suoi testi da Britney Spears laureata in Metafisica (lo è davvero, stando a quanto leggo su Wikipedia), le sue frequentazioni mondane che si imprimono meglio sulla carta di Novella 2000 che non su quella di Blow Up. 
Le canzoni del precedente Born To Die sapevano coinvolgere, commuovere, divertire ed essere spunti per riflessioni sull'umanità, sui comportamenti sociali e sui nostri sentimenti. Però, a certi testi mancava davvero molto, mentre, sul piano prettamente musicale, il disco risultava essere ipertrofico, barocco, pomposo ed esagerato già al primo ascolto: perciò, avvertendo un certo odore di pretenziosità gratuita, ho smesso di ascoltare Video Games, Summertime Sadness e altri singoloni praticamente subito. In seguito, non mi ha smosso la Young And Beauty composta ad hoc per Il grande Gatsby, mentre non mi vergogno di ammettere che la cover di Chelsea Hotel #2 (uscita poco dopo) mi ha letteralmente fatto sciogliere. Infine, è arrivato questo Ultraviolence, trainato da operazioni di marketing ridicole ma mai inutili e da un singolo che, diciamolo, non è nè carne nè pesce, e cioè West Coast
Invece le reminescenze velvetundergroundiane del primo pezzo Cruel World mostrano da subito un'altra faccia della medaglia, che poi corrisponde perfettamente a tutto il codice genetico di Ultraviolence, un album ancora più cupo e introspettivo rispetto al suo predecessore e ironicamente ancora più riuscito a livello commerciale. La musica di Lana Del Rey, talvolta snobbata da un pubblico intellettualmente pigro e arroccato su preconcetti facili, si rinnova grazie al lavoro su pezzi come la title-track, Shades Of Cool o Money Power Glory. Se il giudizio di un disco non fosse globale ma settoriale, Ultraviolence sarebbe, per come è arrangiato e prodotto, da 10: davvero non esistono abbastanza parole per lodare l'ottimo lavoro portato a termine da Dan Auerbach (quello dei Black Keys, sì), che alleggerisce il dream-pop con cui la Del Rey ha galoppato di classifica in classifica e lo sovraccarica di blues, art-rock e country. 
Chitarre, organi, echi di mondi lontani che si uniscono a creare canzoni pop perfette che stanno già ottenendo un ampio successo, andando leggermente oltre l'eterna e noiosa lotta fra indie e mainstream, oltre la banalità della canzoncina da colonna sonora di un film Disney (Once Upon A Time non sembra essere stata scritta dalla stessa artista di Brooklyn Baby), oltre le discussioni conviviali sulle varie mode culturali del nostro tempo. Da consigliare l'ascolto dei brani della deluxe edition (su tutti, Black Beauty e la perla nascosta Guns And Roses), che documentano e ribadiscono nuovamente vizi e stravizi di una star che sembra vivere in perenne bilico fra orrore e amore.