Led Zeppelin,
The First Three Album Newly Remastered (Atlantic Records, 2014, 6 Cd)
Stanno facendo notizia questi Led Zeppelin che sono ripiombati in cima alle cassifiche di mezzo mondo con una reissue di lusso dei primi loro primi tre dischi. Balza subito agli occhi che per raggiungere (nuovamente) questo invidiabile primato, gli Zep siano stati costretti a ricorrere a tutto quello a cui, negli anni sessanta, avevano detto di no. In prima istanza, la pubblicazione, o meglio ancora ripubblicazione dei singoli: Good Times, Bad Times e Comunication Breakdown (Live At The Olympia, Paris 1969) estratti dal primo album, Whole Lotta Love (Rough Mix) dal secondo e The Immigrant Song (Alternative Mix) dal terzo. A seguire, un martellante passaggio per radio di tutti i singoli sopra elencati. Per carità, fa altro che piacere sintonizzarsi su radio scadenti come 102.5 e sentire l'inconfondibile riff con cui Jimmy Page apre Led Zeppelin II, ma si sta parlando dei Led Zeppelin, divinità della musica che conosco benissimo e che non hanno bisogno di presentazioni e di passaggi radiofonici annunciati da disc jokey cafoni e arroganti e che si guadagnano da vivere urlando banalità in un microfono.
Qualche buon extra mai sentito neanche nei diversi bootleg usciti finora c'è, e l'ottimo lavoro di remissaggio si fa sentire. Mi correggo: si fa sentire se si ha un discreto Hi-fi o delle ottime casse collegate al computer in cui far risuonare questa cascata di capolavori. Spendere bei soldini per una reissue di questa fattura e fruirne tramite cassine di qualità scadente o cuffiette da cellulare deve risultare piuttosto avvilente.
Imperdonabile l'assenza del IV, specie se si pensa ai motivi legali che trovate meglio esplicati qua.
Tirando le somme: per chi è questa magica triade? Per i fan e per i giovani che si avvicinano ai Led Zeppelin e decidono di farlo "in grande". A me, che amo gli Zeppelin da sempre e vanto una bella collezione dei loro album, non ha tolto nulla, nè tantomeno aggiunto niente. E questo ultimo punto forse è il vero problema.
The First Three Album Newly Remastered (Atlantic Records, 2014, 6 Cd)
★★★
Stanno facendo notizia questi Led Zeppelin che sono ripiombati in cima alle cassifiche di mezzo mondo con una reissue di lusso dei primi loro primi tre dischi. Balza subito agli occhi che per raggiungere (nuovamente) questo invidiabile primato, gli Zep siano stati costretti a ricorrere a tutto quello a cui, negli anni sessanta, avevano detto di no. In prima istanza, la pubblicazione, o meglio ancora ripubblicazione dei singoli: Good Times, Bad Times e Comunication Breakdown (Live At The Olympia, Paris 1969) estratti dal primo album, Whole Lotta Love (Rough Mix) dal secondo e The Immigrant Song (Alternative Mix) dal terzo. A seguire, un martellante passaggio per radio di tutti i singoli sopra elencati. Per carità, fa altro che piacere sintonizzarsi su radio scadenti come 102.5 e sentire l'inconfondibile riff con cui Jimmy Page apre Led Zeppelin II, ma si sta parlando dei Led Zeppelin, divinità della musica che conosco benissimo e che non hanno bisogno di presentazioni e di passaggi radiofonici annunciati da disc jokey cafoni e arroganti e che si guadagnano da vivere urlando banalità in un microfono.
Qualche buon extra mai sentito neanche nei diversi bootleg usciti finora c'è, e l'ottimo lavoro di remissaggio si fa sentire. Mi correggo: si fa sentire se si ha un discreto Hi-fi o delle ottime casse collegate al computer in cui far risuonare questa cascata di capolavori. Spendere bei soldini per una reissue di questa fattura e fruirne tramite cassine di qualità scadente o cuffiette da cellulare deve risultare piuttosto avvilente.
Imperdonabile l'assenza del IV, specie se si pensa ai motivi legali che trovate meglio esplicati qua.
Tirando le somme: per chi è questa magica triade? Per i fan e per i giovani che si avvicinano ai Led Zeppelin e decidono di farlo "in grande". A me, che amo gli Zeppelin da sempre e vanto una bella collezione dei loro album, non ha tolto nulla, nè tantomeno aggiunto niente. E questo ultimo punto forse è il vero problema.
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Kasabian,
48:13 (Sony Music, 2014)
★½
E' una mattina di agosto del 2009, e sono a Londra, dentro il gigantesco HMV al 150 di Oxford Street. Alla prima posizione ci sono i Kasabian con West Ryder Pauper Lunatic Asylum. Da noi non sono molto conosciuti, ma Underdog sta circolando abbastanza bene in radio, e MTV ne manda spesso il video. Io li ascolto da un anno: un'amica mi ha prestato i loro due primi dischi, e soprattutto il secondo, Empire, mi piace da morire. Ci sento dentro le radici di una tradizione tutta britannica che risale su fino ai Beatles buttata in un calderone elettronico e miscelata alla chitarra di questo Sergio Pizzorno. Lo stesso Pizzorno che pensa, scrive e produce tutto ciò che i Kasabian fanno. Oltretutto, gli Oasis hanno portato i Kasabian in tour con loro nel 2006. E io degli Oasis mi sono sempre fidato.
Un paio di anni dopo quel capolavoro di West Ryder, ritrovo i Kasabian a fare un grande casino con Velociraptor!. Il disco è un successo immediato, anche in Italia, dove i giornali si riempiono di articoli lunghissimi che dicono tutti la stessa cosa: <<Sergio Pizzorno è di origini genovesi>>. Fra echi morriconiani, ispirazioni techno e ballatone à la Burt Bacharach, il disco si lascia ascoltare ma è un bel passo indietro rispetto a quanto fatto in precedenza.
Ed eccoci qua con questo 48:13, un album che è uscito da due settimane ed è già fonte di discordia. Per alcuni è orribile, per altri è l'opera in cui è possibile udire "i veri Kasabian". Per chi scrive, si tratta di un mediocre alternative rock che si ripete per tredici brani di una noia mortale. Lo ammetto: arrivare in fondo è stata una gran fatica. E non vale neanche la pena soffermarsi troppo sui come e sui perchè.
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Jack White,
Lazaretto (XL Recordings/ Columbia Records, 2014)
★★½
Per tanti è un genio. Per altri è un grande furbacchione a cui non riesce manco suonare.
La verità, manco a dirlo, sta nel mezzo: Jack White è un ottimo musicista (70° dei 100 chitarristi migliore di sempre secondo Rolling Stone), un bravo compositore di canzoni, un cantante non eccelso ma dal timbro facilmente riconoscibile, un uomo che ha avuto solamente la sfortuna di nascere nell'epoca (1975) e nel luogo (Detroit) sbagliati. Fosse stato per lui, la sua casa sarebbe stata nel profondo Sud, possibilmente in quel periodo dove non era difficile imbattersi nel Diavolo fermo agli incroci delle strade. Con Meg White negli White Stripes ha regalato al mondo una musica nuova e al contempo estremamente tradizionale: cult come Elephant (2003) e Icky Thump (2007) non sono frutti della capacità di chiunque. L'ombra del blues si staglia anche sui due bellissimi dischi dei Racounters e sui due meno compresi e più cupi album dei Dead Weather, la band sorta nel 2009 dove Jack suona la batteria e canta.
Tanti progetti, è vero. Jack White è questo. Mai fermo, instancabile sul piano dei concerti e grande lavoratore in studio. Nell'arco di una settimana è in grado di comparire in un film, di tenere un concerto con uno dei suoi tanti gruppi "aperti" e di produrre un nuovo disco in studio come Lazaretto. Come abbia fatto a trovare il tempo utile a comporre e incidere questa manciata di nuovi brani negli ultimi due anni (tale è la distanza temporale che lo separa dall'esordio solista di Blunderbuss) è un mistero. Fatto sta che Lazaretto è uscito senza troppi clamori da noi, anticipato da un singolo omonimo piuttosto povero di idee. E nonostante una Three Women al vetriolo messa in apertura, questo Lazaretto non gode per nulla della qualità dei migliori lavori firmati dal chitarrista. La critica specializzata lo applaude, e magari anche a ragione. Però qua mancano molte cose.
Tanti progetti, è vero. Jack White è questo. Mai fermo, instancabile sul piano dei concerti e grande lavoratore in studio. Nell'arco di una settimana è in grado di comparire in un film, di tenere un concerto con uno dei suoi tanti gruppi "aperti" e di produrre un nuovo disco in studio come Lazaretto. Come abbia fatto a trovare il tempo utile a comporre e incidere questa manciata di nuovi brani negli ultimi due anni (tale è la distanza temporale che lo separa dall'esordio solista di Blunderbuss) è un mistero. Fatto sta che Lazaretto è uscito senza troppi clamori da noi, anticipato da un singolo omonimo piuttosto povero di idee. E nonostante una Three Women al vetriolo messa in apertura, questo Lazaretto non gode per nulla della qualità dei migliori lavori firmati dal chitarrista. La critica specializzata lo applaude, e magari anche a ragione. Però qua mancano molte cose.
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Ben & Ellen Harper,
Childhood Home (Prestige Folklore, 2014)
★★★½
Torniamo al punto di partenza. Il calcio di inizio. La casa di Ben Harper a Claremont. La guardo mentre ascolto A House Is A Home, brano tratto dall'album Childhood Home, fresco di stampa. Penso al bosco che sorge vicino a dove abito, me lo immagino all'inizio dell'autunno, con le foglie che volano fino ai giardini dei palazzi. Una madre spiega al figlio che i tempi andati sono lontani, gli racconta di come è stato crescerlo e lui la raggiunge nel canto, per intonare che il futuro si avvicina. Mezz'ora di musica, dieci brani folk cantati in un giardino (vedere il bellissimo videoclip di Learn It All Again Tomorrow per avere un'idea dell'essenza del disco) da Ben e sua madre Ellen, che oltre ad essere la donna più importante della sua vita- come ogni mamma -è stata la principale artefice dell'avvicinamento dell'autore di Diamonds On The Inside alla musica. Ellen Harper, infatti, viene sempre ricordata come la proprietaria del Folk Music Center, un famoso negozio di strumenti dentro cui il piccolo Ben è cresciuto. Adesso, grazie al figlio, viene fuori che ha anche una bella voce, che potrebbe ricordare i momenti più "intimi" di un grande duo quale Delaney&Bonnie.
Ben Harper è uno dei più grandi artigiani della musica americana del nostro tempo, eppure nessuno sembra mai dargli il peso che meriterebbe. Ci limitiamo a sentire i suoi pezzi più famosi alla radio e dire <<Ah, già... questo è Ben Harper... c'è anche lui...>>, quando dovremmo tutti ascoltare più attentamente i suoi concerti dal vivo, le cover che sceglie via via, gli artisti con cui collabora (Get Up!, uscito lo scorso anno e suonato con Charlie Musselwhite, è una perla passata quasi inosservata), i progetti di musica che porta avanti. Forse solo allora potremo capire la bellezza nascosta e appannata dietro quelle che ad un primo ascolto potrebbero sembrare dieci piccole ninne-nanne.
Ben Harper è uno dei più grandi artigiani della musica americana del nostro tempo, eppure nessuno sembra mai dargli il peso che meriterebbe. Ci limitiamo a sentire i suoi pezzi più famosi alla radio e dire <<Ah, già... questo è Ben Harper... c'è anche lui...>>, quando dovremmo tutti ascoltare più attentamente i suoi concerti dal vivo, le cover che sceglie via via, gli artisti con cui collabora (Get Up!, uscito lo scorso anno e suonato con Charlie Musselwhite, è una perla passata quasi inosservata), i progetti di musica che porta avanti. Forse solo allora potremo capire la bellezza nascosta e appannata dietro quelle che ad un primo ascolto potrebbero sembrare dieci piccole ninne-nanne.
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Mastodon,
Once More 'Round The Sun (Reprise Records, 2014)
★★★★★
Signore e signori, ecco qua il classico (e sempre più raro) esempio di "signor disco". A darlo alle stampe sono stati i Mastodon, band sludge-metal originaria di Atlanta composta da quattro musicisti serissimi che dal 2000 ad oggi hanno davvero prodotto delle ottime cose.
Abbandonata l'aggressività estrema degli esordi (penso a Leviathan, che è stato il disco con cui li ho scoperti), i nostri non sono propriamente diventati dei leggerini, ma si sono concentrati maggiormente sul concept-album e sul progressive metal come genere in cui muoversi. Il risultato? Sono migliorati e non di poco. Che sia passando per la produzione praticamente hard-rock di Brendan O'Brien (Crack The World) o per quella più recente di Mike Elizondo (The Hunter), i Mastodon si sono affermati come uno dei gruppi migliori del nostro tempo. E con il nuovissimo Once More 'Round The Sun non solo si riconfermano davvero i portatori dello scettro di un progressive metal molto personale, veloce e "scarno", ma pubblicano quello che onestament trovo essere il loro capolavoro.
Come in The Hunter, le canzoni difficilmente superano i quattro, cinque minuti di durata (nel progressive siamo abituati a veder passare tranquillamente i venti minuti di lunghezza), ma sono tutte talmente belle, decise e prodotte bene che è praticamente impossibile dire quale preferire o no. Certo, Chimes At Midnight è da antologia, così come High Road o la più lunga Asleep In The Deep. Chiusura epocale (che vede la collaborazione di Scott Kelly, amico del gruppo e leader dei Neurosis) con Diamond In The Witch House. Un disco da ascoltare e amare per capire come si può ancora comporre e suonare grande musica. Strepitoso.
Abbandonata l'aggressività estrema degli esordi (penso a Leviathan, che è stato il disco con cui li ho scoperti), i nostri non sono propriamente diventati dei leggerini, ma si sono concentrati maggiormente sul concept-album e sul progressive metal come genere in cui muoversi. Il risultato? Sono migliorati e non di poco. Che sia passando per la produzione praticamente hard-rock di Brendan O'Brien (Crack The World) o per quella più recente di Mike Elizondo (The Hunter), i Mastodon si sono affermati come uno dei gruppi migliori del nostro tempo. E con il nuovissimo Once More 'Round The Sun non solo si riconfermano davvero i portatori dello scettro di un progressive metal molto personale, veloce e "scarno", ma pubblicano quello che onestament trovo essere il loro capolavoro.
Come in The Hunter, le canzoni difficilmente superano i quattro, cinque minuti di durata (nel progressive siamo abituati a veder passare tranquillamente i venti minuti di lunghezza), ma sono tutte talmente belle, decise e prodotte bene che è praticamente impossibile dire quale preferire o no. Certo, Chimes At Midnight è da antologia, così come High Road o la più lunga Asleep In The Deep. Chiusura epocale (che vede la collaborazione di Scott Kelly, amico del gruppo e leader dei Neurosis) con Diamond In The Witch House. Un disco da ascoltare e amare per capire come si può ancora comporre e suonare grande musica. Strepitoso.
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