IL GIGLIO INFRANTO
Capitolo IV
Già
da quella mattina il maggiore Hank Patterson, comandante del terzo
battaglione, quarto reggimento, della 170° brigata fanteria, basata
a Baumholder, in Germania, si era accorto che quella sarebbe stata
una giornata di merda.
Prima
uno dei suoi HUMVEE era uscito dalla carreggiata, andando a
schiantarsi contro una Volkswagen e mandando al pronto soccorso
un’intera famiglia tedesca.
Poi
avevano scoperto che tutta l’ultima partita di munizioni arrivata
dagli Stati Uniti era difettosa; lo avevano ovviamente appurato nel
modo peggiore: un M-16, durante un’esercitazione di tiro, era
esploso in mano ad un soldato, staccandogli tre dita.
Infine,
una partita di carne di maiale avariata aveva mandato in infermeria
quasi metà del battaglione, colpita da una delle peggiori crisi di
diarrea che avesse mai visto. Una degna conclusione. O almeno sperava
che fosse stata la conclusione.
Erano
più delle dieci e mezzo; seduto nel suo ufficio, scorreva alcune
carte riguardanti il programma di addestramento; si passò una mano
tra i capelli brizzolati, sentendosi molto più vecchio dei suoi
quarant’anni; distrattamente, aprì un cassetto della scrivania ed
estrasse un sigaro Austin ed una scatoletta di fiammiferi.
All’interno della caserma Neubruecke sarebbe stato vietato fumare,
ma dopo una giornata come quella, se qualcuno fosse venuto a rompere,
avrebbe saputo dirgli chiaramente dove poteva mettersi i divieti.
Tagliò una delle estremità del sigaro, mise in bocca l’altra e lo
accese. Si meritava un po’ di relax. Ancora una mezz’ora e
sarebbe rientrato nel suo alloggio.
Capì
che era successo qualche altro guaio nell’istante stesso in cui
sentì bussare alla porta. Fu con una certa fatica che borbottò:-
Avanti.
Il
volto del caporale che, titubante, entrò nel suo ufficio tenendo in
mano un fascicolo, gli confermò che non gli stava portando la
notizia di una decorazione; il militare si mise sull’attenti;
trattenendo a stento il nervosismo, gli disse:- Riposo, caporale
Garbin.
-
Buo..buonasera, maggiore. Temo di non avere buone notizie.
-
Oggi è la giornata.- rispose l’ufficiale, stropicciandosi gli
occhi; tirò una boccata dal sigaro, poi aggiunse: - Che altro è
successo?
-
Ci è appena arrivata la notizia che alcuni dei nostri soldati
hanno…beh…hanno avuto un alterco con dei civili tedeschi in un
locale di Birkenfeld.
Al
maggiore venne voglia di mettersi le mani nei capelli:- Un alterco?
Il
caporale tirò un sospiro:- C’è stata una rissa. Tra un gruppo di
nostri uomini, probabilmente ubriachi, e alcuni studenti
dell’università. Pare che abbiano devastato un birreria in città.
La comunicazione ci è arrivata dalla polizia tedesca. E sembra che
abbiano arrestato sia gli americani che gli altri; sono tutti in
prigione a Kaiserslautern.
Il
maggiore si lasciò andare sullo schienale della sedia; poggiò il
sigaro sul posacenere, poi borbottò:- Non è possibile. Sono meno di
quattro mesi che siamo qui ed è già la quinta volta che qualcuno
del mio battaglione finisce in galera! Per ora il record è cinque
tutti assieme.
Il
caporale deglutì:- Temo che questa volta abbiano polverizzato il
record, signore.
L’ufficiale
lo fissò, con gli occhi stralunati:- Di quanti arresti stiamo
parlando, caporale?L’urlo del maggiore fu udito anche fuori
dall’ufficio:- Come sarebbe a dire “ventisette”?!?!
In
una delle celle della prigione statale di Kaiserslautern un uomo alto
e bruno, sui trent’anni, con le spalle larghe, giaceva su una
branda, le mani intrecciate dietro la testa; indossava una lacera e
sporca uniforme da ufficiale, con le mostrine da tenente
dell’esercito americano, e teneva un berretto calato sugli occhi
pesti. Sembrava profondamente addormentato, ma alzò immediatamente
la tesa del copricapo quando un’ombra si stagliò fuori dalle
sbarre; un uomo dai capelli brizzolati, almeno dieci anni più
vecchio di lui, lo fissava con le mani nelle tasche dell’uniforme e
uno sguardo a metà tra il divertimento e il compatimento.
-
Chissà perché, quando mi hanno detto che c’era un ufficiale tra
gli americani che avevano arrestato non ho avuto neanche bisogno di
leggere il suo nominativo. Sapevo già che sarebbe stato “William
Grant”!
Il
tenente sbatté un paio di volte le palpebre, poi, con voce impastata
dall’alcool, disse:- Buona sera, maggiore Patterson; mi scusi se
non le faccio il saluto, ma non sono sicuro di essere in grado di
alzarmi.
-
La cosa non mi sorprende.- continuò, fissandolo duramente – A
quante volte siamo? Mi sembra che sia la quinta occasione in cui
vengo a trovarti dietro le sbarre.
Il
tenente si passò la mano sotto il berretto:- La sesta.
Patterson
vide una sedia appoggiata al muro, la prese, si sedette e chiese:- Ti
dispiacerebbe spiegarmi cosa è successo questa volta?
Grant
deglutì un paio di volte, poi disse:- Eravamo in un locale giù a
Birkenfeld…mi pare si chiami Regenbogen.
C’erano quelle due ragazze…un vero spettacolo. Io e un paio dei
miei le abbiamo invitate a bere qualcosa…poi sono spuntati quegli
stronzi di studenti crucchi, e sembrava che uno di loro pensasse di
avere qualche diritto su una delle due. Sono volati degli insulti,
anche se non so cosa possano averci detto quei mangiapatate. Poi uno
di loro ha preso per il bavero della camicia uno dei miei, lui gli ha
tirato un pugno, i suoi amici hanno risposto, noi li abbiamo
raggiunti, altri sono intervenuti da entrambe le parti…poi non lo
so, non ricordo altro che una valanga di cazzotti. Mi sono svegliato
qui dentro.
-
Un po’ riduttiva come ricostruzione.- sorrise ironicamente
Patterson – A quanto mi hanno detto è stata la più grossa rissa
avvenuta in questa parte della Germania negli ultimi vent’anni. E
per quanto ne so, non era mai accaduto che ventisette soldati
americani finissero in galera tutti assieme. Quella povera birreria
non si riprenderà mai più dal vostro piccolo battibecco. Cosa
volevate fare, la rivincita della Seconda Guerra Mondiale?-
Il
tenente si tirò faticosamente a sedere, senza rispondere.
-
Posso sapere quanto avevate bevuto?
Grant
si passò una mano tra i capelli, poi rispose:- Sei…forse sette
boccali. E un paio di bicchieri di schnapps, credo…
-
Ed erano solo le dieci!- sbottò il maggiore – Comincio ad essere
stufo di tirare il tuo culo fuori dai guai, William. Sei l’ufficiale
più problematico che abbia mai visto. Insubordinato, irrispettoso,
ubriacone, donnaiolo, assolutamente indolente rispetto all’autorità.
E la cosa peggiore è che riesci a trasmettere questi difetti anche
ai tuoi uomini. Ti avevo mandato il nuovo sergente appositamente per
tenerti calmo, ma a quanto pare non è servito a molto!
Il
tenente lo fissò per qualche secondo con sguardo vacuo, poi
rispose:- Se parla del sergente Parker, credo che sia tre o quattro
celle più avanti.
-
Ecco, appunto. Prima di venire a contatto con te il sergente Parker
non aveva mai avuto una singola nota di demerito.- il maggiore prese
fiato – Avrei lasciato che ti togliessero i gradi molto tempo fa,
se non fosse perché sei anche l’ufficiale più abile che ho nel
mio battaglione. Ma sarebbe meglio se non tirassi sempre la corda al
massimo. Un giorno o l’altro potrei decidere che costi più di
quanto rendi.
William
si tirò in piedi e si accostò alle sbarre, leggermente più
sveglio; poi chiese:- Può tirarci fuori di qui, signore?
Sinceramente, non mi andrebbe di passare tutto il nostro turno in
Europa in una schifosa galera crucca insieme a metà del mio plotone
solo perché abbiamo scelto due vacche che appartenevano alla mandria
di un altro!
Il
maggiore si alzò:- Credo di potervi evitare la Corte Marziale, anche
se sono convinto che, almeno a te, non potrebbe che fare del bene;
con un po’ di impegno, credo di poter riuscire anche a non far
degradare né te, né il sergente, ma penso proprio che dovrete farvi
un po’ di gattabuia. Ci vorrà del tempo per calmare le autorità
tedesche.- si avvicinò alla porta che conduceva fuori dal corridoio
delle celle – Nel frattempo, spero che un po’ di sole a scacchi
ti calmi i bollenti spiriti, anche se non ci conto molto.
Buonanotte.- e, senza aspettare una risposta, uscì.
Il
tenente si buttò di nuovo sulla branda, stanco morto. Non era certo
la prima volta che si trovava in galera. Aveva ventinove anni, e ne
erano già passati dieci da quando era andato via di casa. Prima di
entrare nell’esercito, aveva vissuto per un periodo vagabondando
tra Utah, Arizona e California, e si era ritrovato diverse volte ad
essere arrestato. Questo però non lo aveva mai spinto a cambiare
stile di vita di una virgola; quelli che il tenente gli aveva sputato
in faccia come difetti lui li considerava pregi. Se avesse voluto
vivere da puritano, sarebbe rimasto con la sua famiglia. Si tolse il
cappello, sprimacciò il duro cuscino e, intrecciate le mani dietro
la testa, chiuse gli occhi. L’ultimo pensiero prima di
addormentarsi, giunto chissà da dove tra i fumi dell’alcool, fu
una domanda che non si poneva molto spesso. Si chiese che cosa stesse
facendo la sola persona della sua famiglia per la quale provava un
po’ di rispetto, cioè suo fratello Julian. Era il solo che
sembrava somigliargli un po’, il solo con cui riusciva a capirsi.
Se non si sbagliava, in quel periodo il ragazzino era a Firenze, in
Italia, per una sorta di vacanza studio. Prima che il suo cervello si
spegnesse, William sperò che in quel momento il fratellino fosse a
letto con almeno tre belle morette italiane.
Il sabato sera
all'Isolotto era un qualcosa di profondamente alienante: enormi
palazzi moderni, più simili ad ospedali che a case, venivano
occupati esclusivamente da persone che avevano passato i
quarantacinque anni, mentre tutti gli altri si davano alla fuga: chi
riparava sulle colline, alla ricerca di un clima più clemente, chi
in centro, a mettersi in fila per inseguire l'ebbra turista di turno,
e chi si gettava, spesso accompagnato dalla propria dolce metà, nei
campi vicini a quei grandi e tristi quartieri della zona nord della
città. Erano quelle serate in cui l'evasione e il caldo facevano
mettere da parte la cronaca, una cronaca nera che raccontava della
scomparsa in massa degli animali randagi e di una ventina di
misteriose sparizioni avvenute dalla fine della primavera ad allora.
Quei decrepiti cinquantenni dell'Isolotto scorrevano sei canali
televisivi ogni trenta secondi, e questo era il loro modo di misurare
il tempo; le bibite gassate e messe a raffreddare a temperature quasi
polari avevano ormai rimpiazzato le Peroni gelate o il fiasco di vino
rosso tenuto in ghiacciaia: la vita veniva ormai disegnata con forme
di una nauseante banalità. E forse fu proprio per questo motivo,
dopo che ad un appartamento di via Martini fu demolita un'intera
parete da un qualcosa di non ben identificato, che tutti si sentirono
offesi da questa inattesa piega degli eventi di un sabato sera
all'Isolotto.
“La
Nazione” di un surriscaldato sabato mattina riportava a caratteri
cubitali il seguente titolo: Proseguono
le scomparse: l'Isolotto trema, ma resta il mistero.
Julian Grant lo lesse distrattamente e gettò il quotidiano fuori dal
letto; dal bagno proveniva un rumore di acqua che scorre: era Serena
che si stava facendo una doccia. - Cosa fai?- chiese il giovane
dell'Iowa in un buffo italiano. - Mi lavo dei miei peccati...-
rispose scoppiando a ridere la ragazza. - Pensavo ti avessero
rapita!- replicò Julian sarcastico. L'acqua smise di scorrere e
Serena si presentò fulmineamente sulla soglia della camera da letto.
- Non c'è niente da ridere! E' la mia città, e noi di mostri
ne abbiamo già visti troppi!- e, detto ciò, afferrò i vestiti,
indossò le scarpe da ginnastica e, con i capelli ancora bagnati,
uscì dall'appartamento di via dell'Anguillara. “Tasto dolente...”
pensò il ragazzo, mettendosi entrambe le mani dietro la nuca sudata.
Capì in quel momento che non era a casa propria, che l'Iowa era
lontano, e con esso anche la mentalità americana che, oramai
abituata a scomparse misteriose e alla naturalezza di certi eventi,
non poteva essere riproposta in quel contesto. Inoltre, era la prima
volta che lui e Serena avevano modo di litigare, e questo rendeva il
tutto ancor più spiacevole. Ma Julian- ricordandosi di una “lezione”
di William- pensò che una donna che esce da una camera da letto
senza neanche salutare non fosse poi una gran donna, e decise di
mandarla a quel paese.
Il
Questore di Firenze Duccio Innocenti si versò l'ennesimo caffè
della giornata, pur sapendo che non sarebbe servito a molto. In
realtà era sfinito, e neanche cento litri di caffeina avrebbero
potuto fargli passare il sonno. Lo confermò il prolungato sbadiglio
che seguì la prima, lunga sorsata. Il cinquantenne Duccio, ormai,
neppure si riconosceva quando si guardava allo specchio: sembrava
invecchiato di quindici anni, e le borse sotto i suoi occhi
iniziavano a farsi preoccupanti.
Gli
ultimi giorni erano stati veramente un inferno; non ricordava un
periodo simile in tutta la sua carriera. Non gli era mai accaduto di
doversi occupare, nel giro di poco più di una settimana, di ben
ventitré persone scomparse nel nulla. Neanche il “Mostro di
Firenze” aveva mai raggiunto un ritmo simile. E, nonostante lui e
parecchi suoi sottoposti rimanessero quasi tutte le sere in ufficio a
lavorare sui casi fino ad ore improbabili, non avevano fatto un passo
avanti.
La
cosa era cominciata con una coppia di giovani tedeschi scomparsi
senza lasciare tracce otto notti prima. Inizialmente la cosa non era
parsa così insolita, ma quando, dopo la notte successiva, erano
state denunciate altre tre scomparse, la questione aveva iniziato a
far drizzare le orecchie agli alti comandi delle forze dell'ordine
fiorentine. L'escalation successiva aveva fatto pensare alla presenza
di un serial killer, ma ad un vecchio segugio come Innocenti la
situazione non poteva che apparire molto strana.
Anche
quella sera, seduto nel suo ufficio con davanti gli incartamenti dei
casi, non riusciva a non ripassare mentalmente tutte le
caratteristiche insolite di quei crimini. Per prima cosa, non aveva
mai sentito parlare di un degenerato di quel genere: rapiva le sue
vittime (il comandante non voleva neanche pensare che quelle persone
potessero essere veramente tutte morte) con una velocità
impressionante e, apparentemente senza nessun criterio, a caso. Gli
sembrava inoltre impossibile che quel maledetto, chiunque fosse, non
lasciasse neanche una traccia. Eppure non avevano mai trovato il più
minimo indizio. Non era mai stato possibile neppure scoprire i luoghi
precisi dove le vittime erano state rapite. In alcuni casi si
conosceva solo la zona, in altri neanche quella. Se si escludeva
un'apparente predilezione per parchi e zone alberate, stavano dando
la caccia ad uno spettro. E la stampa stava letteralmente stroncando
le forze dell'ordine, sottolineandone l'incapacità. La situazione
era incandescente.
Il
suono del telefono riscosse il comandante dalle sue riflessioni.
Prese di malavoglia la cornetta e borbottò:- Innocenti. Chi è?
Gli
rispose una voce maschile dal marcato accento meridionale,
apparentemente sull'orlo del panico:- Comandante, sono il commissario
Del Santo. D...deve venire all'obitorio di Careggi. C'è...beh, c'è
qualcosa che deve vedere.
Innocenti
conosceva Del Santo, il comandante del Commissariato Firenze
Oltrarno, da anni, e non lo aveva mai sentito tanto terrorizzato:-
Che diavolo le è successo, Del Santo? Le trema la voce.
-N...non
posso spiegarlo per telefono, signore. Venga solo qui il prima
possibile!
L'obitorio
dell'ospedale, dopo le undici, era praticamente deserto. Entrando,
Innocenti vide però che tre medici legali si erano trattenuti fino a
tardi nella stanza dedicata alle autopsie.
Del
Santo era in piedi accanto a due tavoli d'acciaio coperti da teli
bianchi con evidenti macchie rosse, assieme a un altro ufficiale, che
Innocenti riconobbe come il vice commissario Baldini, e a due agenti.
Nel vedere gli ultimi tre, il questore ebbe un tuffo al cuore:
avevano le divise strappate, macchiate di sangue e in disordine, e la
faccia di chi ha visto tutti i demoni dell'Inferno. Al centro della
stanza, un tavolo grande quasi il doppio degli altri, anch'esso
coperto da un telo bianco che nascondeva improbabili protuberanze,
stranamente macchiato da un liquido di colore azzurrino.
Quasi
temendo ciò che il poliziotto gli avrebbe raccontato, Innocenti si
avvicinò al commissario; non poté fare a meno di notare quanto
fossero sbiancati i capelli di Baldini; avrebbe giurato che solo
pochi giorni prima fossero stati neri; chiese:- Che cosa è
successo, Del Santo? Sembrano essere passati dentro ad un
frullatore...
L'altro
poliziotto impiegò parecchio a rispondere, e si voltò a fissare il
suo vice, mentre gli agenti si lasciavano cadere su due sedie;
Innocenti notò che i medici, con aria stralunata, erano rimasti
immobili vicino al tavolo più grande.
-
Signor Questore, è meglio se lascio che le spieghi lui.- disse
infine, indicando il malandato Baldini,- Non credo che ne sarei in
grado.
Il
vice commissario sembrò cercare di raccogliere le idee per un po',
poi iniziò: - Comandante, io sto ancora pregando che quello che è
successo stasera sia stato soltanto un incubo. I corpi sotto questi
teli...- indicò i tavoli più piccoli- Gli agenti De Paola e Ferri;
due bravi ragazzi, li conoscevo bene...No!- alzò all'improvviso la
voce quando vide che Innocenti si accingeva a sollevare uno dei due
lenzuoli- Non lo faccia. E' meglio, glielo assicuro. Non guardi come
sono ridotti. Credo che non dormirò mai più nella mia vita.
Il
questore ritrasse la mano e, con un timore che credeva gli fosse
sconosciuto, chiese ancora:- Cosa è accaduto?
Baldini
trasse un profondo respiro, poi iniziò:- Ero di pattuglia con De
Paola quando Ferri mi ha chiamato sul cellulare. Era fuori servizio,
e si trovava in via Fiume, tornava a casa...ha detto di aver sentito
dei rumori in un seminterrato. Un casino impressionante, secondo lui.
Noi eravamo vicini, e ho deciso che valeva la pena di controllare.
Sa, con questa storia delle sparizioni...- respirò di nuovo a forza,
come se quel racconto gli stesse costando una gran fatica – Quando
siamo arrivati sul posto c'erano già loro.- ed indicò gli altri due
poliziotti, che fissavano il pavimento con aria devastata - Ispettore
Pescucci e agente scelto Romano. Erano di pattuglia anche loro, hanno
visto Ferri e si sono fermati. Quando sono arrivato io il rumore era
finito, ma siamo scesi lo stesso fino alla porta del seminterrato. Ho
bussato. Nessuna risposta. Ho bussato di nuovo, dicendo che eravamo
della Polizia. Questa volta mi ha risposto una baraonda. Sembrava che
qualcuno stesse spaccando dei mobili con un'ascia. Abbiamo preso le
pistole, Ferri ha sfondato la porta con un calcio...e...e...- si
bloccò; non sembrava in grado di proseguire.
-
Allora?- cercò di incalzarlo Innocenti; l'idea che sotto quei teli
ci fossero due poliziotti morti, probabilmente smembrati vista la
reazione di Baldini, gli aveva messo addosso un cupo terrore, come il
presentimento di qualcosa di terribile; e non migliorava certo la
situazione la paura che poteva leggere negli occhi di Del Santo, che
era un uomo che a suo tempo aveva affrontato la Mafia; vedendo che il
vice commissario non riusciva a continuare, insistette:- Chi diavolo
avete trovato in quello scantinato?
Baldini
si passò una mano trai capelli, poi finalmente borbottò:- Non è il
“chi” il problema, signore. E' il “che cosa”.- e, prima che
Innocenti potesse fargli una qualsiasi domanda, fece un cenno ai
dottori, che, afferrato il lenzuolo che copriva il tavolo più
grande, lo tirarono via di colpo.
Il
questore urlò nello stesso istante in cui i suoi occhi si posarono
sulla forma nera adagiata sull'acciaio, e indietreggiò
istintivamente, mentre la sua mano correva sotto la giacca, a
slacciare la fondina. Aveva già quasi estratto la sua Beretta quando
Baldini gli afferrò il braccio:- Si calmi, comandante! E' morto.
Leggermente
meno nel panico, ma con la mente totalmente svuotata per lo stupore,
Innocenti ripose la pistola e si avvicinò al tavolo mormorando:- Ma
che...che cazzo...?
La
prima cosa che riuscì a pensare con coerenza fu che somigliava
lontanamente ad una formica: il corpo diviso in segmenti, sei zampe,
una testa – se quella ad una delle estremità di quel corpo assurdo
era davvero la testa – di forma poco definibile e munita di
mandibole e di occhi da insetto. Le somiglianze però finivano lì;
intanto quell'essere era enorme: doveva superare di parecchio i due
metri di lunghezza. Poi da quella che il poliziotto giudicò essere
la parte posteriore del corpo partiva una corta e tozza coda piena di
protuberanze. Le due coppie di zampe posteriori erano leggermene più
corte delle “braccia”, se così si potevano chiamare, e in quel
momento erano ripiegate, come quelle di una cavalletta. Le altre due,
scompostamente buttate sul tavolo, trasmisero al poliziotto un
indicibile senso di angoscia: ciascuna delle zampe più vicine alla
testa terminava in una specie di lama da falce, lunga almeno
cinquanta centimetri. Ed erano entrambe macchiate di rosso. Il nero e
apparentemente coriaceo corpo dell'essere era crivellato: dozzine di
fori si aprivano nella sorta di corazza che sembrava fargli da pelle,
e da ognuno di essi sembrava essere uscito uno strano e denso sangue
bluastro.
Incapace
di accettare quello che stava vedendo, Innocenti fece due passi
indietro e, rivolto a Baldini, chiese:- Cosa...cos'è?-
-
Ne so quanto lei- rispose tristemente l'altro – So solo tre cose di
questo bastardo: era molto forte, molto feroce e molto duro a morire.
Ci si è buttato addosso pochi istanti dopo che siamo entrati. Ho
fatto appena in tempo a notare un buco nel pavimento; credo sia
entrato da lì, si vedeva un sorta di cunicolo scavato nella terra.
Poi è iniziato l'inferno. Si muoveva eretto sulle quattro zampe di
dietro, molto in fretta, e usava le due davanti come falci fienaie.
Lo vede da solo quanti proiettili ci sono voluti prima che cadesse, e
intanto ha fatto a pezzi Ferri e De Paola.
A
questo punto intervenne il commissario:- Baldini mi ha chiamato
subito dopo la sparatoria. Quando ho visto questa...cosa...ho capito
che era meglio non buttare tutto in piazza. Siamo riusciti solo per
miracolo a tenere lontani i curiosi e a portarlo via. Spero che i
giornalisti si siano bevuti la mia storia di una sparatoria con dei
rapinatori. Non era il massimo, ma per come stavo non potevo fare di
meglio. Ho lasciato quattro agenti a guardia del cunicolo e l'ho
chiamata subito- e sospirò, come se fosse stato felice di aver
raccontato quella storia a qualcuno.
Innocenti
rimase alcuni secondi in silenzio, fissando con sguardo allucinato
l'assurda creatura che aveva davanti e tentando di riordinare le
idee; alla fine disse:- E' lui. E' stato lui. Le persone
scomparse...non può che averle prese lui!- con nuova decisione,
dettata quasi dalla disperazione, si voltò verso il commissario:-
Nessuno deve sapere niente, tanto meno i media. Scatenerebbe il
panico e farebbe piombare qui tutti i maniaci degli UFO d'Italia.
Aveva
detto la parola che ronzava in testa a tutti i presenti, ma che
nessuno aveva avuto il coraggio di pronunciare; Del Santo provò a
chiedere:- Pensa davvero che sia...?-
Il
comandante lo interruppe:- A te sembra forse una formica da
giardino?- poi si voltò verso i medici legali:-Immagino che non lo
abbiate manomesso, vero?
Uno
dei medici fece un passo avanti e, con voce tremante, rispose:-
Signor Questore, questo è un ospedale, non l'Area 51; non abbiamo le
attrezzature per fare un'autopsia a...- e indicò l'essere.
Innocenti
annuì, poi disse:- Va bene. Allora fate un po' di foto a
questa...cosa, ma non fate nessuna analisi. Mandatemene una copia
appena sono pronte, poi cancellatele. Impacchettatelo senza fare
confusione. Io manderò una mail all'università di Pisa per
avvertirli che gli mandiamo qualcosa che deve restare segreta. Deve
essere studiato da qualcuno che ne capisca più di noi. Vi farò
mandare un furgone per portarlo a Pisa.- poi, ripensandoci,
aggiunse:- Anzi, impacchettate anche i corpi degli agenti e
mandategli anche quelli.- il tentativo di protesta di Baldini fu
bloccato dagli occhi spiritati del suo superiore - Per ora alle
famiglie dite che sono morti in uno scontro a fuoco, e che deve
essere fatta un'autopsia.- riprese fiato; sembrò pensare per qualche
secondo, poi si rivolse ancora a Del Santo e a Baldini:- Come vi
sentite? Mentalmente intendo. Siete in grado di restare in campo?
Il
meridionale annuì subito. Il vice commissario sembrò pensarci per
qualche secondo, mentre si fissava la divisa lacera e le braccia
piene di escoriazioni; poi annuì a sua volta:- Mi dia un'ora per
cambiarmi, darmi una pulita e avvertire la mia famiglia che stanotte
non tornerò a casa. Mi inventerò una scusa.
-
E voi? Non potete andarvene in giro a raccontare questa storia.-
disse ancora, rivolto ai due agenti.
Uno
dei due, quello che Baldini aveva identificato come l'ispettore
Pescucci, si alzò faticosamente e disse:- Conti su di noi, signore.
-
Bene. Meglio che nessun altro sappia nulla per ora.- poi, nuovamente
rivolto verso Del Santo, disse:- Manderò un documento a tutte le
stazioni di polizia, nel quale scriverò che tu hai temporaneamente
il comando su tutte le forze di polizia cittadine. Sarai il solo a
conoscere la situazione, quindi ho bisogno che tu ne abbia il
controllo totale. Chiama tutte le stazioni. Aumenta le pattuglie in
città al massimo. Avverti gli uomini di tenere gli occhi ben aperti.
Che portino sempre con loro le armi automatiche. Non dirgli nulla di
questo.- e indicò la carcassa della creatura – Digli quello che
vuoi, tutto tranne la verità! Contatterò il Comando dei Carabinieri
e il Ministero. Almeno loro devono sapere...anche se dovrò
impegnarmi parecchio perché credano a questa storia. Per il momento
potremo contare solo su noi stessi. Tutto chiaro?
Troppo
sorpreso per tutto ciò che aveva visto e per la grossa
responsabilità che gli era piovuta sulle spalle, Del Santo riuscì
solo a dire:- Signorsì. Posso fare qualcos'altro?
Il
volto del questore si rabbuiò; indicò la misteriosa entità e
disse, con voce tombale:- Sì. Pregare che fosse solo.