lunedì 24 febbraio 2014

[Recensione] The Lego Movie

Se i possessori dell'edizione DVD di Monty Python e il Sacro Graal datata 2001 e tuttora, credo, in commercio premessero il tasto "menu" e aprissero i contenuti speciali, troverebbero una buffa sorpresa: il video della canzone Camelot animato in stop motion con i mattoncini Lego e prodotto dalla celeberrima casa di giocattoli danese. Sono passati tredici anni prima che a Billund si decidessero a sfornare, con l'ausilio della Warner Bross., The Lego Movie, un lungometraggio creato con una tecnica mista di stop-motion e una computer grafica di qualità eccelsa. Nel frattempo, i videogiochi (ricordo bene Lego Island per PC, ed era il 1997) e le serie televisive sono serviti da "riscaldamento" per i produttori, sicuri e disposti ad attendere quanto tempo era necessario al fine di affinare ulteriormente una produzione da sessanta milioni di dollari e di ottenere così un risultato tecnico che definire stupefacente è dire poco. 
E se sul piano formale The Lego Movie è ineccepibile, per quanto riguarda storia e contenuti è ancora più straordinario. Immaginate solo che il protagonista, il proletario Emmet, è un ordinario operaio felice del proprio "essere pecora" e convinto che la realtà distopica costruita a tavolino dal grigio imprenditore Lord Business sia il migliore dei sistemi possibili. Le sue giornate proseguono fra caffè che costano 37 dollari a tazza, il martedì dei tacos ("Taco Tuesday"), una sitcom demenziale e sempre uguale (<<Tesoro, hai visto i miei pantaloni?>>, risate finte a seguire), il traffico vissuto all'insegna della felicità più totale e scandito dalle note di una terrificante e robotica canzoncina (<<E' meravigliosoooooooo!>>). Ci sono però persone che vivono in mondi di Lego alternativi e nascosti e disposti ad abbattere la dittatura di Business e che vedono proprio in Emmet il "prescelto" da una balorda profezia udita dal mago Vitruvius (nome non affibbiato casualmente, visto che Vitruvio Pollione, vissuto poco prima di Cristo, è il più grande teorico antico dell'architettura). E così, al fianco di Emmet, troviamo una galleria di statuette (e personaggi) proveniente dall'immaginario collettivo: da un Batman fanfarone e meno serio (anche giustamente) del Cavaliere Oscuro nolaniano ai due "Michelangeli" (Buonarroti, uno, Tartaruga Ninja l'altro), dai competitivi maghi Silente e Gandalf (le citazioni al Signore degli anelli fioccano) alla gatta repressa Unikitti, dallo svampito Lanterna Verde all'agente "bipolare" Poliduro. E nonostante il film strabordi di parodie dirette ad un pubblico magari più adulto (l'esercito di Lord Business è composto da innumerevoli statuette-terminator) e  di riferimenti satirici alla realtà odierna e alla cultura pop, The Lego Movie ofrrirà ai bambini un incredibile bagaglio di invenzioni fantasiose e intelligenti. Cosa che farebbe sicuramente felice Ole Kirke Christiansen (1891-1958), l'inventore dei mattoncini colorati: infatti, in danese "leg godt" significa "gioca bene", e i registi Phil Lord e Christopher Miller hanno giocato benissimo.
E' superfluo aggiungere che per un quasi venticinquenne che non ha mai smesso di incastrare mattoncini, il film sia una vera delizia degli occhi e dello spirito.

venerdì 21 febbraio 2014

[Recensione] 12 anni schiavo

Ripetiamolo ancora una volta: Steve McQueen non è Steve McQueen.
Steve McQueen (nato a Londra nel 1969) è un regista britannico che non ha mai girato un film (lungometraggio) brutto. Nell'arco di appena tre anni abbiamo visto infatti due capolavori come Hunger e Shame, entrambi firmati da lui e interpretati da Michael Fassbender, ed entrambi incentrati su temi ben precisi: le forme di schiavitù, lo svilimento dell'essere umano, l'oppressione, lo sfinimento fisico (Hunger) e psicologico (Shame) della persona. E così, anche il più recente 12 anni schiavo, candidato a ben nove statuette e già vincitore del Golden Globe come migliore film drammatico, affronta gli stessi argomenti, ma da una prospettiva diversa e in maniera ben più ampia e "storica". McQueen trae il soggetto del film dal romanzo autobiografico 12 Years A Slave (1853) di Salomon Northup (Ejifor), virtuoso violinista newyorchese di colore che nel 1841 fu attirato in una trappola infernale: giunto dalla sua Saratoga a Washington come uomo libero per tenere dei concerti, fu in realtà incatenato e ridotto in schiavitù, gli venne cambiato nome e fu venduto al proprietario terriero "buono" della Louisiana William Ford (il grande Benedict Cumberbatch). Peccato però che il senso di ribellione sito nell'animo dell'uomo libero Northup fosse direttamente proporzionale all'imbecillità dei sorveglianti della tenuta in cui lavora, in particolare a quella insita nel cervello del razzista Tibeats (Paul Dano, come sempre talmente bravo nel rendersi insopportabile da essere costretto a chiudersi in casa per anni dopo l'uscita di un suo film, e chi lo ricorda nel ruolo del fanatico predicatore del Petroliere sa di cosa parlo): a quest'ultimo, infatti, fu tolta la frusta di mano dal suo stesso schiavo, che lo punì- seppur in minima dose -per le pene inflitte ai neri fino a quel momento. Graziato, per un pelo, dall'impiccagione (una delle innumerevoli scene da incubo, fra l'altro), Northup venne rivenduto allo spietato magnate del cotone Epps (un Fassbender tanto bravo nell'essere il debosciato di turno, quanto un po' troppo ancorato ad una certa "schematicità" del proprio ruolo), presso il quale passò molti anni all'insegna di qualunque privazione e di atroci punizioni corporali e morali. 
Sembra un pelo che abbiamo visto una certa realtà nel Django Unchained di Tarantino, e McQueen, nel dipingere la sua tela (impressionista, come impressionisti sono quelle albe e quei tramonti sulle paludi e sulle foreste sudiste, magicamente filtrate dalla fotografia di Sean Bobbitt) offre una visione analoga a quella dell'autore di Pulp Fiction sullo schiavismo, non tanto come pagina di un manuale di storia (se vi piace questo approccio, il cinema spielberghiano ne è zipillo), quanto come un ritratto degli uomini che lo schiavismo lo hanno portato avanti e lo hanno subito. Che sia il padrone Fassbender, a sua volta schiavo della moglie gelosa, della sessualità violenta e malsana e dell'alcool, o che sia il gretto sorvegliante Dano, lo schiavista è una figura sociale stupida come un bambino che non capisce assolutamente nulla. Il razzismo viene raccontato con una crudezza e una rabbia raramente riviste in altre pellicole e viene trattato per la piaga sociale che è: i razzisti (di ieri o di oggi poco cambia) sono davvero tratteggiati- senza vergogna o sterili buonismi da film per famiglie -come dei ritardati, gente che non capisce, non "ci arriva", ma che comanda e ha il potere in un determinato periodo storico e in quello che, praticamente, era un paese diviso in due nazioni molto diverse da loro (il Nord e il Sud). E chiunque delinea la propria vita anche in base alla razza, per McQueen ma anche per chi scrive, è una persona imbecille e priva di dignità.
Alla luce della schietta sincerità che continua a impregnare tutta l'opera del regista, della straordinaria prova di attore di Chiwetel Ejiofor (in molte locandine del nostro paese, stupidamente "adombrato" dai volti giganti di Fassbender e di un grande Brad Pitt "illuminista", che compare meno di dieci minuti in tutto il film), delle magiche atmosfere sudiste che mi hanno fatto tornare in mente più Walter Hill che Quentin Tarantino, delle fredde musiche originali composte da Hans Zimmer e dei più "umani", meravigliosi canti delle piantagioni al cui ascolto ci aveva già introdotto quella "vecchia volpe" di Scorsese con The Blues- From Mali To Mississippi (2003), 12 anni schiavo è un film potente, forte, privo di pietà per chi lo interpreta e per chi lo guarda, ma con una capacità di trasmettere emozioni totalmente fuori dalla media di questa nostra epoca della solidarietà fasulla e patinata. Un film magistrale.

domenica 16 febbraio 2014

[Recensione] Monuments Men

Fra i molti crimini commessi dai nazisti, il furto dell'intero (o poco ci manca) patrimonio artistico di tutta Europa rimane una pagina non tanto misteriosa quanto poco discussa. Nella realtà, l'operazione Monuments Men coinvolse 350 individui fra storici dell'arte, collezionisti, militari e anche "semplici" intenditori che avevano però buon occhio nel distinguere un falso dall'originale. Al cinema, George Clooney preferisce invece concentrarsi su sei attempati esperti newyorchesi (Clooney, Damon, Murray, Goodman, Bonneville, Balaban), il giovane soldato ebreo di origine tedesca Sam Epstein (Leonidas), il francese Jean-Claude (Dujardin) e la bella guardiana del Jeu De Pomme Rose (Blanchett): questo incredibile cast si muove fra Belgio, Francia e Germania al termine di una guerra già vinta, recuperando capolavori della storia dell'arte, collezioni private, lingotti d'oro, sculture, campane da chiesa.
Pur essendo un film di uomini in guerra (che non è un film di guerra, attenzione), il quinto lavoro da regista di George Clooney lascia non poco spazio alla risata, allo humor sottile e superbamente riuscito, complice anche un cast di caratteristi che riescono a ritagliarsi, ognuno con la propria simpatia e il proprio stile, un posto speciale nel cuore di chi guarda (poi, per me, Bill Murray è sempre un passo avanti a tutti). Stesso esito non viene ottenuto, purtroppo, quando il tono dell'opera diviene bruscamente cupo e malinconico, triste e solenne: fra stornelli natalizi uditi al domani della battaglia delle Ardenne (che poi non saranno mai insulsi come la Piaf udita in Salvate il soldato Ryan) e certe cene parigine a lume di candela (che ricordano un po' Il sangue degli altri di Chabrol) da cui emerge solo che la guerra è più importante dei piaceri della carne (da quando, scusate?), il film brancola un po' fra cliché patriottico-hollywoodiani e facilonerie sentimentali. Clooney continua, sul versante tecnico, ad essere un eccellente e classico regista americano, intento stavolta a fare i conti con il fascino delle tre lingue (un esercizio già ampiamente collaudato da Tarantino) e a omaggiare vecchie pellicole a stelle e strisce quali Il treno di Frankenheimer e Patton generale d'acciaio di Schaffner.
Peccato soltanto che il regista e il fido sceneggiatore Grant Heslov (suo lo script dello stupendo Le idi di marzo) abbiano voluto omaggiare- anche se soltanto alla fine -quei brutti film che andavano di moda nella "democratica" america degli anni cinquanta (e poi ottanta) in cui i russi erano anche più cattivi dei tedeschi, o poco ci mancava. Qualcuno dovrebbe spiegare agli autori che i russi facevano sì pellicole di propaganda e dichiaravano (basti pensare ad Ejzenstejn) dal principio che queste erano da recepire come tali: ma allora come mai questi film non vedevano mai l'americano cattivo al centro della scena? Perchè in un film russo non si è mai visto un americano stronzo? Forse perchè il cinema sovietico contemplava l'esaltazione dell'URSS senza però ricorrere a confronti con altri paesi e altri sistemi di governo. E perchè anche una commedia come Monuments Men del very liberal ex-uomo più sexy del mondo deve cadere su questi meccanismi? Magari quest'estate, in una villa sul lago di Como, i paparazzi fotograferanno un meditabondo George Clooney intento a porre rimedio alle sue lacune culturali, immerso fra bottiglie di vino, un paio di libri di storia e una manciata di film sovietici belli, famosi e reperibili anche su Nowvideo.

sabato 15 febbraio 2014

[Recensione] Sotto una buona stella

Che sia la demenza o l'intelligenza, la raffinatezza o la volgarità, le armi con cui i commediografi contemporanei del cinema italiano sono stati chiamati a interpretare e mettere in scena la crisi di sistema si sono spesso rivelate poco funzionali. Ad esempio, pur con tutte le difficoltà economiche del mondo, anche negli ultimi cinque, sei anni Neri Parenti non ha potuto fare a meno di continuare a spedire in località da sogno i suoi falsi italiani medi; così come i fratelli Vanzina hanno dovuto creare intrecci sempre più elaborati e irreali per dimostrare che- ora più che mai -il loro "cittadino modello" già fuori moda nel 1992 è portato a delinquere e ad assurgere al rango di mascalzone simpatico perchè è la società (di qualunque colore essa sia) ad essere marcia, e non perchè è un determinato tipo di personaggio ad essere merda dentro. Le nuove leve non si comportano di certo meglio: il proletario qualunquista, delinquentello, di chiara matrice "morale" berlusconiana che però, alla fine, risulta buono e bravo è stato portato in scena da "sua maestà campione di incassi" Checco Zalone per ben tre volte fra il 2010 e il 2013; senza contare poi il lavoro svolto da registucoli da strapazzo, manovalanti prestati dalla tv al cinema per realizzare gli innumerevoli Sharm el-Sheikh, Buongiorno papà, Immaturi, Tutta colpa di Freud, e via discorrendo. 
Insomma, sono ben lontani i tempi della commedia come genere cinematografico popolare di svago ma anche di riflessione civile e sociale. Sono lontani, anche se ogni tanto fanno capolino delle eccezioni. E si dà il caso che Sotto una buona stella, nuovo film diretto e interpretato dal grande Carlo Verdone (che per me è e rimane uno dei più grandi attori di tutti i tempi), sia una di queste. Perchè proprio come era già successo due anni fa nell'eccellente Posti in piedi in Paradiso, l'autore romano si riconferma totalmente in grado di interpretare i malumori del suo tempo e dei suoi personaggi e di sapere mettere in scena come nessuno, ad oggi, sa fare (ricordo che sto parlando di commedie nostrane) le situazioni scaturite dal vivere una crisi umana, economica, familiare. E tutto questo si verifica con grande libertà e spontaneità, con un buonismo di fondo che può emergere una, due volte di troppo ma mai senza scadere nella ridicolezza da fiction di serie B, e anche grazie all'ausilio di un'attrice bravissima e  perfettamente a suo agio come la Cortellesi (la sequenza dei divani alla fine è il picco del film). Per il resto, Sotto una buona stella fila dritto per un'ora e mezza con un paio di momenti di grave caduta (il provino del figlio Niccolò è terribile, il rapporto coi figli poteva avere degli sviluppi migliori, certi personaggi sono davvero troppo "perfetti" ai fini dello sviluppo della trama) e con forse un certo abuso, in termini stilistici, dell'uso degli interni, che purtroppo accostano molto il film ad una dimensione più televisiva che poteva essere comodamente evitata. Però, a conti fatti e a paragone con quanto la scena della commedia nostrana (non) è in grado di offrirci, siamo veramente su un altro livello. E ogni tanto una boccata d'aria simile ci vuole.

lunedì 10 febbraio 2014

[Recensione] RoboCop

Avevo anticipato questa monnezza a settembre qui sul blog, e non è che ci sia molto da aggiungere ai miei pregiudizi. Tuttavia, ho voglia di scrivere un paio di cose sul nuovo Robocop di Padilha.
La prima è che- come avevo già fatto presente un mese fa recensendo il remake "perbenista" di Carrie -odio i remake, e ancora di più disprezzo i remake che non solo non aggiungono nulla, ma sottraggono molti aspetti presenti negli originali. E il nuovo RoboCop perde praticamente tutto, a livello di contenuti, rispetto al leggendario, ottimo film di Verhoeven. Il fatto poi che Joel Kinnaman (RoboCop) e tutto il cast (Keaton, Oldman e Jackson compresi) siano uno squadrone di belle statuine incompetenti è soltanto un fattore aggiunto. Ma la cosa che, in assoluto, dà più fastidio a chi come me conosce- nemmeno "adora", "conosce" -i vecchi film del robot poliziotto è la patina super-eroistica che Padilha e i suoi sceneggiatori hanno cucito addosso al personaggio di Alex Murphy, ridotto ad un Iron Man poliziotto meno simpatico, senza Jarvis e con un'armatura più scura addosso.
Piacerà? Non piacerà?
Domande banali e inutili. Piacerà a chi non capisce nulla, a quelli che anche in un periodo come adesso (dove in sala ci sono film da Oscar come American Hustle, Nebraska, Dallas Buyers Club, The Wolf Of Wall Street e altri, mica robetta) vogliono andare a vedere questi sostituti dei cinefumetti (ne ho già parlato giorni fa riguardo I, Frankenstein, ma il discorso vale anche per questo, dunque tanto vale evitare di ripetermi) e a chi, pur vivendo il cinema come semplice esperienza di intrattenimento, non ha comunque il buon gusto di veleggiare verso altri lidi. 
Non piacerà a chi ricorda sia il primissimo RoboCop che i discutibili due capitoli successivi firmati, nello script, dal signor Frank Miller (di lui riparleremo male fra un mesetto, complice l'uscita del sequel di 300, uno dei più brutti film della storia). 
Non piacerà a chi è fondamentalmente stanco di vedere le sale "occupate" da certa merda. 
Non piacerà a chi, come me, è ormai anche stufo di parlarne male sul web, rubando uno spazio virtuale che magari, in un secondo momento, potrà rivelarsi prezioso.

sabato 8 febbraio 2014

[Recensione] Dallas Buyers Club

Negli ultimi anni, al cinema, si banalizza tutto. Tutto.
Anche la malattia.
Però esistono le eccezioni, e una di queste si chiama, senza ombra di dubbio, Dallas Buyers Club, diretto dal canadese Jean-Marc Vallée e candidato a ben sei Oscar (fra cui miglior film e miglior attore protagonista). 
Dallas Buyers Club parla sì di malattia, ma anche di cure non approvate, di ipocrisia, di paura della morte, di stupidità, di traffici illeciti condotti a fin di bene, di una storia vera: quella di Ron Woodrof (Matthew McConaughey da -25 kg che- basta girarci intorno, dio santissimo -deve vincere l'Oscar più di Bale, Dern, Di Caprio), elettricista texano rozzo, ignorante, omofobo, testa di cazzo e bigotto che ha anche qualche pregio, fra cui l'essere un cocainomane alcoolizzato, afflitto da una polmonite cronica che cura con un paio di pacchetti di sigarette al giorno e dedito al gioco d'azzardo e alla prostituzione (tutte virtù se paragonate a quanto scritto subito sopra). Ed è proprio la voglia incontrollata, malata, quasi maniacale della fica a far contrarre a Ron il virus dell'HIV, in un'epoca e soprattutto in un luogo dove l'AIDS è una piaga trasmissibile anche solo al tatto o con uno sputo (vedere la scena del bar) che però, deo gratia, se la prendono soltanto i "froci schifosi", e non i prodi cowboys da rodeo che non vedono alcuna differenza fra cavalcare un toro e una donna. Tuttavia, per quanto disprezzi con tutto il cuore gli omosessuali e i bisessuali, Ron è costretto a entrarvi in contatto, perchè come lui sono l'essenza di ciò che è destinato a diventare il Dallas Buyers Club, un circolo dove i malati di AIDS possono acquistare medicinali non approvati dalla FDA (un organo delinquenziale che, fra le altre cose, è al soldo anche delle industrie farmaceutiche) pagando una quota associativa mensile. Woodrof è il presidente del club, viene aiutato dal travestito Rayon (Jared Leto) e dalla dottoressa Eve Saks (Jennifer Garner che stranamente non recita come un comodino) e oltre a importare e distribuire medicine provenienti da tutto il mondo, riesce a creare un vero e proprio studio di "cura alternativa" e a dimostrare che l'AZT (il farmaco principale con cui venivano curati i sieropositivi americani) era soltanto veleno. 
Dunque sia lode alla sceneggiatura asciutta, coeniana e "immediata" di Craig Borten e Melissa Wallack, sia lode alle performance degli attori protagonisti (per McConaughey non è tanto una svolta dai suoi ruoli abituali, quanto il più bel personaggio della sua carriera), sia lode alla regia classicista di Vallée, che fa sì che Dallas Buyers Club abbia un pregio raro, anzi rarissimo: commuove senza per forza apparire melenso.
E poi chi ha detto che gli happy end devono per forza essere positivi e ottimisti?

lunedì 3 febbraio 2014

[Recensione] La gente che sta bene

Umberto Maria Dorloni (Bisio) è un noto avvocato milanese con una bella casa, la bella moglie Carla (Buy), e due bei bambini iscritti a delle belle scuole cattoliche: appartiene, insomma, a "la gente che sta bene" cui fa riferimento il titolo di questo film firmato da Francesco Patierno e tratto dal romanzo omonimo di Federico Baccomo (pubblicato da Marsilio).
Il protagonista va in televisione, dove si autodefinisce un uomo di successo, arrivato professionalmente e pronto soltanto ad uno scatto successivo, quello che lo scaraventerebbe nell'olimpo degli avvocati di affari. Tale occasione pare prospettarsi con l'invito al party annuale indetto da Patrizio Azzesi (un Abatantuono immenso in tutti i sensi e perfettamente a suo agio), celeberrimo avvocato italiano che sembra misteriosamente intenzionato a coinvolgere Dorloni in un nuovo affare: l'apertura del prestigioso studio Cocks&Cocks (letteralmente, "Cazzi&Cazzi") in Italia. Crisi familiare, corna, tradimenti reciproci, sventure assortite e tutta l'altra paccottiglia nostrana arriva- seppure in ritardo rispetto a pellicole analoghe nei temi e nella messinscena -a gravare su un film che riesce splendidamente a catturare l'essenza dell' homo novus italicus (<<The New Italian Man>>, per dirla con l'anglofilo Azzesi), figura sociale partorita dal berlusconismo e salita alla ribalta nell'arco dell'ultimo ventennio. Del resto, Bisio è bravissimo nel restituire al proprio personaggio un humus vitale appartenente ad una certa realtà (milanese, ma non solo): Dorloni, infatti, è ottimista, bigotto, pragmatico, poco incline a preservare la memoria di cose passate (a stento ricorda i nomi di battesimo dei propri familiari), perfettamente a suo agio nel fare della retorica da basso intrattenimento e del populismo più bieco le proprie armi vincenti sia nella sfera lavorativa che in quella privata. L'italiano vincente non ha "tempo da perdere" dietro le grandi e piccole tragedie della vita, e così, se anche si deve licenziare un sottoposto più giovane, è raccomandabile farlo con un ottuso sorriso stampato in faccia, utilizzando i pochi strumenti forniti da appositi corsi di aggiornamento e toni degni della migliore (o peggiore, dipende dai punti di vista) politica del comico. 
Fin qui, gli intenti di Patierno sono onorevoli e portati avanti mirabilmente: peccato, ripeto, che il film non riesca (o non voglia) fare il salto, quello che gli permetterebbe di andare oltre, quello che lo farebbe accedere al livello di un film divertente e perfettamente in grado di intrattenere dove però sopraggiungono, per più motivi, elementi di dramma sociale e anche un minimo di critica cattivella. La regia è umile, ma mai sciatta, se non nel finale "di comodo", dove si vira indubbiamente di più verso la famiglia teorizzata dagli spot del Mulino Bianco piuttosto che verso la pellicola da impegno civile. E questo un po' dispiace.

domenica 2 febbraio 2014

Il giglio infranto (Capitolo IV) [Trame]


IL GIGLIO INFRANTO
Capitolo IV
Già da quella mattina il maggiore Hank Patterson, comandante del terzo battaglione, quarto reggimento, della 170° brigata fanteria, basata a Baumholder, in Germania, si era accorto che quella sarebbe stata una giornata di merda.
Prima uno dei suoi HUMVEE era uscito dalla carreggiata, andando a schiantarsi contro una Volkswagen e mandando al pronto soccorso un’intera famiglia tedesca.
Poi avevano scoperto che tutta l’ultima partita di munizioni arrivata dagli Stati Uniti era difettosa; lo avevano ovviamente appurato nel modo peggiore: un M-16, durante un’esercitazione di tiro, era esploso in mano ad un soldato, staccandogli tre dita.
Infine, una partita di carne di maiale avariata aveva mandato in infermeria quasi metà del battaglione, colpita da una delle peggiori crisi di diarrea che avesse mai visto. Una degna conclusione. O almeno sperava che fosse stata la conclusione.
Erano più delle dieci e mezzo; seduto nel suo ufficio, scorreva alcune carte riguardanti il programma di addestramento; si passò una mano tra i capelli brizzolati, sentendosi molto più vecchio dei suoi quarant’anni; distrattamente, aprì un cassetto della scrivania ed estrasse un sigaro Austin ed una scatoletta di fiammiferi. All’interno della caserma Neubruecke sarebbe stato vietato fumare, ma dopo una giornata come quella, se qualcuno fosse venuto a rompere, avrebbe saputo dirgli chiaramente dove poteva mettersi i divieti. Tagliò una delle estremità del sigaro, mise in bocca l’altra e lo accese. Si meritava un po’ di relax. Ancora una mezz’ora e sarebbe rientrato nel suo alloggio.
Capì che era successo qualche altro guaio nell’istante stesso in cui sentì bussare alla porta. Fu con una certa fatica che borbottò:- Avanti.
Il volto del caporale che, titubante, entrò nel suo ufficio tenendo in mano un fascicolo, gli confermò che non gli stava portando la notizia di una decorazione; il militare si mise sull’attenti; trattenendo a stento il nervosismo, gli disse:- Riposo, caporale Garbin.
- Buo..buonasera, maggiore. Temo di non avere buone notizie.
- Oggi è la giornata.- rispose l’ufficiale, stropicciandosi gli occhi; tirò una boccata dal sigaro, poi aggiunse: - Che altro è successo?
- Ci è appena arrivata la notizia che alcuni dei nostri soldati hanno…beh…hanno avuto un alterco con dei civili tedeschi in un locale di Birkenfeld.
Al maggiore venne voglia di mettersi le mani nei capelli:- Un alterco?
Il caporale tirò un sospiro:- C’è stata una rissa. Tra un gruppo di nostri uomini, probabilmente ubriachi, e alcuni studenti dell’università. Pare che abbiano devastato un birreria in città. La comunicazione ci è arrivata dalla polizia tedesca. E sembra che abbiano arrestato sia gli americani che gli altri; sono tutti in prigione a Kaiserslautern.
Il maggiore si lasciò andare sullo schienale della sedia; poggiò il sigaro sul posacenere, poi borbottò:- Non è possibile. Sono meno di quattro mesi che siamo qui ed è già la quinta volta che qualcuno del mio battaglione finisce in galera! Per ora il record è cinque tutti assieme.
Il caporale deglutì:- Temo che questa volta abbiano polverizzato il record, signore.
L’ufficiale lo fissò, con gli occhi stralunati:- Di quanti arresti stiamo parlando, caporale?L’urlo del maggiore fu udito anche fuori dall’ufficio:- Come sarebbe a dire “ventisette”?!?!

In una delle celle della prigione statale di Kaiserslautern un uomo alto e bruno, sui trent’anni, con le spalle larghe, giaceva su una branda, le mani intrecciate dietro la testa; indossava una lacera e sporca uniforme da ufficiale, con le mostrine da tenente dell’esercito americano, e teneva un berretto calato sugli occhi pesti. Sembrava profondamente addormentato, ma alzò immediatamente la tesa del copricapo quando un’ombra si stagliò fuori dalle sbarre; un uomo dai capelli brizzolati, almeno dieci anni più vecchio di lui, lo fissava con le mani nelle tasche dell’uniforme e uno sguardo a metà tra il divertimento e il compatimento.
- Chissà perché, quando mi hanno detto che c’era un ufficiale tra gli americani che avevano arrestato non ho avuto neanche bisogno di leggere il suo nominativo. Sapevo già che sarebbe stato “William Grant”!
Il tenente sbatté un paio di volte le palpebre, poi, con voce impastata dall’alcool, disse:- Buona sera, maggiore Patterson; mi scusi se non le faccio il saluto, ma non sono sicuro di essere in grado di alzarmi.
- La cosa non mi sorprende.- continuò, fissandolo duramente – A quante volte siamo? Mi sembra che sia la quinta occasione in cui vengo a trovarti dietro le sbarre.
Il tenente si passò la mano sotto il berretto:- La sesta.
Patterson vide una sedia appoggiata al muro, la prese, si sedette e chiese:- Ti dispiacerebbe spiegarmi cosa è successo questa volta?
Grant deglutì un paio di volte, poi disse:- Eravamo in un locale giù a Birkenfeld…mi pare si chiami Regenbogen. C’erano quelle due ragazze…un vero spettacolo. Io e un paio dei miei le abbiamo invitate a bere qualcosa…poi sono spuntati quegli stronzi di studenti crucchi, e sembrava che uno di loro pensasse di avere qualche diritto su una delle due. Sono volati degli insulti, anche se non so cosa possano averci detto quei mangiapatate. Poi uno di loro ha preso per il bavero della camicia uno dei miei, lui gli ha tirato un pugno, i suoi amici hanno risposto, noi li abbiamo raggiunti, altri sono intervenuti da entrambe le parti…poi non lo so, non ricordo altro che una valanga di cazzotti. Mi sono svegliato qui dentro.
- Un po’ riduttiva come ricostruzione.- sorrise ironicamente Patterson – A quanto mi hanno detto è stata la più grossa rissa avvenuta in questa parte della Germania negli ultimi vent’anni. E per quanto ne so, non era mai accaduto che ventisette soldati americani finissero in galera tutti assieme. Quella povera birreria non si riprenderà mai più dal vostro piccolo battibecco. Cosa volevate fare, la rivincita della Seconda Guerra Mondiale?-
Il tenente si tirò faticosamente a sedere, senza rispondere.
- Posso sapere quanto avevate bevuto?
Grant si passò una mano tra i capelli, poi rispose:- Sei…forse sette boccali. E un paio di bicchieri di schnapps, credo…
- Ed erano solo le dieci!- sbottò il maggiore – Comincio ad essere stufo di tirare il tuo culo fuori dai guai, William. Sei l’ufficiale più problematico che abbia mai visto. Insubordinato, irrispettoso, ubriacone, donnaiolo, assolutamente indolente rispetto all’autorità. E la cosa peggiore è che riesci a trasmettere questi difetti anche ai tuoi uomini. Ti avevo mandato il nuovo sergente appositamente per tenerti calmo, ma a quanto pare non è servito a molto!
Il tenente lo fissò per qualche secondo con sguardo vacuo, poi rispose:- Se parla del sergente Parker, credo che sia tre o quattro celle più avanti.
- Ecco, appunto. Prima di venire a contatto con te il sergente Parker non aveva mai avuto una singola nota di demerito.- il maggiore prese fiato – Avrei lasciato che ti togliessero i gradi molto tempo fa, se non fosse perché sei anche l’ufficiale più abile che ho nel mio battaglione. Ma sarebbe meglio se non tirassi sempre la corda al massimo. Un giorno o l’altro potrei decidere che costi più di quanto rendi.
William si tirò in piedi e si accostò alle sbarre, leggermente più sveglio; poi chiese:- Può tirarci fuori di qui, signore? Sinceramente, non mi andrebbe di passare tutto il nostro turno in Europa in una schifosa galera crucca insieme a metà del mio plotone solo perché abbiamo scelto due vacche che appartenevano alla mandria di un altro!
Il maggiore si alzò:- Credo di potervi evitare la Corte Marziale, anche se sono convinto che, almeno a te, non potrebbe che fare del bene; con un po’ di impegno, credo di poter riuscire anche a non far degradare né te, né il sergente, ma penso proprio che dovrete farvi un po’ di gattabuia. Ci vorrà del tempo per calmare le autorità tedesche.- si avvicinò alla porta che conduceva fuori dal corridoio delle celle – Nel frattempo, spero che un po’ di sole a scacchi ti calmi i bollenti spiriti, anche se non ci conto molto. Buonanotte.- e, senza aspettare una risposta, uscì.
Il tenente si buttò di nuovo sulla branda, stanco morto. Non era certo la prima volta che si trovava in galera. Aveva ventinove anni, e ne erano già passati dieci da quando era andato via di casa. Prima di entrare nell’esercito, aveva vissuto per un periodo vagabondando tra Utah, Arizona e California, e si era ritrovato diverse volte ad essere arrestato. Questo però non lo aveva mai spinto a cambiare stile di vita di una virgola; quelli che il tenente gli aveva sputato in faccia come difetti lui li considerava pregi. Se avesse voluto vivere da puritano, sarebbe rimasto con la sua famiglia. Si tolse il cappello, sprimacciò il duro cuscino e, intrecciate le mani dietro la testa, chiuse gli occhi. L’ultimo pensiero prima di addormentarsi, giunto chissà da dove tra i fumi dell’alcool, fu una domanda che non si poneva molto spesso. Si chiese che cosa stesse facendo la sola persona della sua famiglia per la quale provava un po’ di rispetto, cioè suo fratello Julian. Era il solo che sembrava somigliargli un po’, il solo con cui riusciva a capirsi. Se non si sbagliava, in quel periodo il ragazzino era a Firenze, in Italia, per una sorta di vacanza studio. Prima che il suo cervello si spegnesse, William sperò che in quel momento il fratellino fosse a letto con almeno tre belle morette italiane.

Il sabato sera all'Isolotto era un qualcosa di profondamente alienante: enormi palazzi moderni, più simili ad ospedali che a case, venivano occupati esclusivamente da persone che avevano passato i quarantacinque anni, mentre tutti gli altri si davano alla fuga: chi riparava sulle colline, alla ricerca di un clima più clemente, chi in centro, a mettersi in fila per inseguire l'ebbra turista di turno, e chi si gettava, spesso accompagnato dalla propria dolce metà, nei campi vicini a quei grandi e tristi quartieri della zona nord della città. Erano quelle serate in cui l'evasione e il caldo facevano mettere da parte la cronaca, una cronaca nera che raccontava della scomparsa in massa degli animali randagi e di una ventina di misteriose sparizioni avvenute dalla fine della primavera ad allora. Quei decrepiti cinquantenni dell'Isolotto scorrevano sei canali televisivi ogni trenta secondi, e questo era il loro modo di misurare il tempo; le bibite gassate e messe a raffreddare a temperature quasi polari avevano ormai rimpiazzato le Peroni gelate o il fiasco di vino rosso tenuto in ghiacciaia: la vita veniva ormai disegnata con forme di una nauseante banalità. E forse fu proprio per questo motivo, dopo che ad un appartamento di via Martini fu demolita un'intera parete da un qualcosa di non ben identificato, che tutti si sentirono offesi da questa inattesa piega degli eventi di un sabato sera all'Isolotto.

La Nazione” di un surriscaldato sabato mattina riportava a caratteri cubitali il seguente titolo: Proseguono le scomparse: l'Isolotto trema, ma resta il mistero. Julian Grant lo lesse distrattamente e gettò il quotidiano fuori dal letto; dal bagno proveniva un rumore di acqua che scorre: era Serena che si stava facendo una doccia. - Cosa fai?- chiese il giovane dell'Iowa in un buffo italiano. - Mi lavo dei miei peccati...- rispose scoppiando a ridere la ragazza. - Pensavo ti avessero rapita!- replicò Julian sarcastico. L'acqua smise di scorrere e Serena si presentò fulmineamente sulla soglia della camera da letto. - Non c'è niente da ridere! E' la mia città, e noi di mostri ne abbiamo già visti troppi!- e, detto ciò, afferrò i vestiti, indossò le scarpe da ginnastica e, con i capelli ancora bagnati, uscì dall'appartamento di via dell'Anguillara. “Tasto dolente...” pensò il ragazzo, mettendosi entrambe le mani dietro la nuca sudata. Capì in quel momento che non era a casa propria, che l'Iowa era lontano, e con esso anche la mentalità americana che, oramai abituata a scomparse misteriose e alla naturalezza di certi eventi, non poteva essere riproposta in quel contesto. Inoltre, era la prima volta che lui e Serena avevano modo di litigare, e questo rendeva il tutto ancor più spiacevole. Ma Julian- ricordandosi di una “lezione” di William- pensò che una donna che esce da una camera da letto senza neanche salutare non fosse poi una gran donna, e decise di mandarla a quel paese.


Il Questore di Firenze Duccio Innocenti si versò l'ennesimo caffè della giornata, pur sapendo che non sarebbe servito a molto. In realtà era sfinito, e neanche cento litri di caffeina avrebbero potuto fargli passare il sonno. Lo confermò il prolungato sbadiglio che seguì la prima, lunga sorsata. Il cinquantenne Duccio, ormai, neppure si riconosceva quando si guardava allo specchio: sembrava invecchiato di quindici anni, e le borse sotto i suoi occhi iniziavano a farsi preoccupanti.
Gli ultimi giorni erano stati veramente un inferno; non ricordava un periodo simile in tutta la sua carriera. Non gli era mai accaduto di doversi occupare, nel giro di poco più di una settimana, di ben ventitré persone scomparse nel nulla. Neanche il “Mostro di Firenze” aveva mai raggiunto un ritmo simile. E, nonostante lui e parecchi suoi sottoposti rimanessero quasi tutte le sere in ufficio a lavorare sui casi fino ad ore improbabili, non avevano fatto un passo avanti.
La cosa era cominciata con una coppia di giovani tedeschi scomparsi senza lasciare tracce otto notti prima. Inizialmente la cosa non era parsa così insolita, ma quando, dopo la notte successiva, erano state denunciate altre tre scomparse, la questione aveva iniziato a far drizzare le orecchie agli alti comandi delle forze dell'ordine fiorentine. L'escalation successiva aveva fatto pensare alla presenza di un serial killer, ma ad un vecchio segugio come Innocenti la situazione non poteva che apparire molto strana.
Anche quella sera, seduto nel suo ufficio con davanti gli incartamenti dei casi, non riusciva a non ripassare mentalmente tutte le caratteristiche insolite di quei crimini. Per prima cosa, non aveva mai sentito parlare di un degenerato di quel genere: rapiva le sue vittime (il comandante non voleva neanche pensare che quelle persone potessero essere veramente tutte morte) con una velocità impressionante e, apparentemente senza nessun criterio, a caso. Gli sembrava inoltre impossibile che quel maledetto, chiunque fosse, non lasciasse neanche una traccia. Eppure non avevano mai trovato il più minimo indizio. Non era mai stato possibile neppure scoprire i luoghi precisi dove le vittime erano state rapite. In alcuni casi si conosceva solo la zona, in altri neanche quella. Se si escludeva un'apparente predilezione per parchi e zone alberate, stavano dando la caccia ad uno spettro. E la stampa stava letteralmente stroncando le forze dell'ordine, sottolineandone l'incapacità. La situazione era incandescente.
Il suono del telefono riscosse il comandante dalle sue riflessioni. Prese di malavoglia la cornetta e borbottò:- Innocenti. Chi è?
Gli rispose una voce maschile dal marcato accento meridionale, apparentemente sull'orlo del panico:- Comandante, sono il commissario Del Santo. D...deve venire all'obitorio di Careggi. C'è...beh, c'è qualcosa che deve vedere.
Innocenti conosceva Del Santo, il comandante del Commissariato Firenze Oltrarno, da anni, e non lo aveva mai sentito tanto terrorizzato:- Che diavolo le è successo, Del Santo? Le trema la voce.
-N...non posso spiegarlo per telefono, signore. Venga solo qui il prima possibile!

L'obitorio dell'ospedale, dopo le undici, era praticamente deserto. Entrando, Innocenti vide però che tre medici legali si erano trattenuti fino a tardi nella stanza dedicata alle autopsie.
Del Santo era in piedi accanto a due tavoli d'acciaio coperti da teli bianchi con evidenti macchie rosse, assieme a un altro ufficiale, che Innocenti riconobbe come il vice commissario Baldini, e a due agenti. Nel vedere gli ultimi tre, il questore ebbe un tuffo al cuore: avevano le divise strappate, macchiate di sangue e in disordine, e la faccia di chi ha visto tutti i demoni dell'Inferno. Al centro della stanza, un tavolo grande quasi il doppio degli altri, anch'esso coperto da un telo bianco che nascondeva improbabili protuberanze, stranamente macchiato da un liquido di colore azzurrino.
Quasi temendo ciò che il poliziotto gli avrebbe raccontato, Innocenti si avvicinò al commissario; non poté fare a meno di notare quanto fossero sbiancati i capelli di Baldini; avrebbe giurato che solo pochi giorni prima fossero stati neri; chiese:- Che cosa è successo, Del Santo? Sembrano essere passati dentro ad un frullatore...
L'altro poliziotto impiegò parecchio a rispondere, e si voltò a fissare il suo vice, mentre gli agenti si lasciavano cadere su due sedie; Innocenti notò che i medici, con aria stralunata, erano rimasti immobili vicino al tavolo più grande.
- Signor Questore, è meglio se lascio che le spieghi lui.- disse infine, indicando il malandato Baldini,- Non credo che ne sarei in grado.
Il vice commissario sembrò cercare di raccogliere le idee per un po', poi iniziò: - Comandante, io sto ancora pregando che quello che è successo stasera sia stato soltanto un incubo. I corpi sotto questi teli...- indicò i tavoli più piccoli- Gli agenti De Paola e Ferri; due bravi ragazzi, li conoscevo bene...No!- alzò all'improvviso la voce quando vide che Innocenti si accingeva a sollevare uno dei due lenzuoli- Non lo faccia. E' meglio, glielo assicuro. Non guardi come sono ridotti. Credo che non dormirò mai più nella mia vita.
Il questore ritrasse la mano e, con un timore che credeva gli fosse sconosciuto, chiese ancora:- Cosa è accaduto?
Baldini trasse un profondo respiro, poi iniziò:- Ero di pattuglia con De Paola quando Ferri mi ha chiamato sul cellulare. Era fuori servizio, e si trovava in via Fiume, tornava a casa...ha detto di aver sentito dei rumori in un seminterrato. Un casino impressionante, secondo lui. Noi eravamo vicini, e ho deciso che valeva la pena di controllare. Sa, con questa storia delle sparizioni...- respirò di nuovo a forza, come se quel racconto gli stesse costando una gran fatica – Quando siamo arrivati sul posto c'erano già loro.- ed indicò gli altri due poliziotti, che fissavano il pavimento con aria devastata - Ispettore Pescucci e agente scelto Romano. Erano di pattuglia anche loro, hanno visto Ferri e si sono fermati. Quando sono arrivato io il rumore era finito, ma siamo scesi lo stesso fino alla porta del seminterrato. Ho bussato. Nessuna risposta. Ho bussato di nuovo, dicendo che eravamo della Polizia. Questa volta mi ha risposto una baraonda. Sembrava che qualcuno stesse spaccando dei mobili con un'ascia. Abbiamo preso le pistole, Ferri ha sfondato la porta con un calcio...e...e...- si bloccò; non sembrava in grado di proseguire.
- Allora?- cercò di incalzarlo Innocenti; l'idea che sotto quei teli ci fossero due poliziotti morti, probabilmente smembrati vista la reazione di Baldini, gli aveva messo addosso un cupo terrore, come il presentimento di qualcosa di terribile; e non migliorava certo la situazione la paura che poteva leggere negli occhi di Del Santo, che era un uomo che a suo tempo aveva affrontato la Mafia; vedendo che il vice commissario non riusciva a continuare, insistette:- Chi diavolo avete trovato in quello scantinato?
Baldini si passò una mano trai capelli, poi finalmente borbottò:- Non è il “chi” il problema, signore. E' il “che cosa”.- e, prima che Innocenti potesse fargli una qualsiasi domanda, fece un cenno ai dottori, che, afferrato il lenzuolo che copriva il tavolo più grande, lo tirarono via di colpo.
Il questore urlò nello stesso istante in cui i suoi occhi si posarono sulla forma nera adagiata sull'acciaio, e indietreggiò istintivamente, mentre la sua mano correva sotto la giacca, a slacciare la fondina. Aveva già quasi estratto la sua Beretta quando Baldini gli afferrò il braccio:- Si calmi, comandante! E' morto.
Leggermente meno nel panico, ma con la mente totalmente svuotata per lo stupore, Innocenti ripose la pistola e si avvicinò al tavolo mormorando:- Ma che...che cazzo...?
La prima cosa che riuscì a pensare con coerenza fu che somigliava lontanamente ad una formica: il corpo diviso in segmenti, sei zampe, una testa – se quella ad una delle estremità di quel corpo assurdo era davvero la testa – di forma poco definibile e munita di mandibole e di occhi da insetto. Le somiglianze però finivano lì; intanto quell'essere era enorme: doveva superare di parecchio i due metri di lunghezza. Poi da quella che il poliziotto giudicò essere la parte posteriore del corpo partiva una corta e tozza coda piena di protuberanze. Le due coppie di zampe posteriori erano leggermene più corte delle “braccia”, se così si potevano chiamare, e in quel momento erano ripiegate, come quelle di una cavalletta. Le altre due, scompostamente buttate sul tavolo, trasmisero al poliziotto un indicibile senso di angoscia: ciascuna delle zampe più vicine alla testa terminava in una specie di lama da falce, lunga almeno cinquanta centimetri. Ed erano entrambe macchiate di rosso. Il nero e apparentemente coriaceo corpo dell'essere era crivellato: dozzine di fori si aprivano nella sorta di corazza che sembrava fargli da pelle, e da ognuno di essi sembrava essere uscito uno strano e denso sangue bluastro.
Incapace di accettare quello che stava vedendo, Innocenti fece due passi indietro e, rivolto a Baldini, chiese:- Cosa...cos'è?-
- Ne so quanto lei- rispose tristemente l'altro – So solo tre cose di questo bastardo: era molto forte, molto feroce e molto duro a morire. Ci si è buttato addosso pochi istanti dopo che siamo entrati. Ho fatto appena in tempo a notare un buco nel pavimento; credo sia entrato da lì, si vedeva un sorta di cunicolo scavato nella terra. Poi è iniziato l'inferno. Si muoveva eretto sulle quattro zampe di dietro, molto in fretta, e usava le due davanti come falci fienaie. Lo vede da solo quanti proiettili ci sono voluti prima che cadesse, e intanto ha fatto a pezzi Ferri e De Paola.
A questo punto intervenne il commissario:- Baldini mi ha chiamato subito dopo la sparatoria. Quando ho visto questa...cosa...ho capito che era meglio non buttare tutto in piazza. Siamo riusciti solo per miracolo a tenere lontani i curiosi e a portarlo via. Spero che i giornalisti si siano bevuti la mia storia di una sparatoria con dei rapinatori. Non era il massimo, ma per come stavo non potevo fare di meglio. Ho lasciato quattro agenti a guardia del cunicolo e l'ho chiamata subito- e sospirò, come se fosse stato felice di aver raccontato quella storia a qualcuno.
Innocenti rimase alcuni secondi in silenzio, fissando con sguardo allucinato l'assurda creatura che aveva davanti e tentando di riordinare le idee; alla fine disse:- E' lui. E' stato lui. Le persone scomparse...non può che averle prese lui!- con nuova decisione, dettata quasi dalla disperazione, si voltò verso il commissario:- Nessuno deve sapere niente, tanto meno i media. Scatenerebbe il panico e farebbe piombare qui tutti i maniaci degli UFO d'Italia.
Aveva detto la parola che ronzava in testa a tutti i presenti, ma che nessuno aveva avuto il coraggio di pronunciare; Del Santo provò a chiedere:- Pensa davvero che sia...?-
Il comandante lo interruppe:- A te sembra forse una formica da giardino?- poi si voltò verso i medici legali:-Immagino che non lo abbiate manomesso, vero?
Uno dei medici fece un passo avanti e, con voce tremante, rispose:- Signor Questore, questo è un ospedale, non l'Area 51; non abbiamo le attrezzature per fare un'autopsia a...- e indicò l'essere.
Innocenti annuì, poi disse:- Va bene. Allora fate un po' di foto a questa...cosa, ma non fate nessuna analisi. Mandatemene una copia appena sono pronte, poi cancellatele. Impacchettatelo senza fare confusione. Io manderò una mail all'università di Pisa per avvertirli che gli mandiamo qualcosa che deve restare segreta. Deve essere studiato da qualcuno che ne capisca più di noi. Vi farò mandare un furgone per portarlo a Pisa.- poi, ripensandoci, aggiunse:- Anzi, impacchettate anche i corpi degli agenti e mandategli anche quelli.- il tentativo di protesta di Baldini fu bloccato dagli occhi spiritati del suo superiore - Per ora alle famiglie dite che sono morti in uno scontro a fuoco, e che deve essere fatta un'autopsia.- riprese fiato; sembrò pensare per qualche secondo, poi si rivolse ancora a Del Santo e a Baldini:- Come vi sentite? Mentalmente intendo. Siete in grado di restare in campo?
Il meridionale annuì subito. Il vice commissario sembrò pensarci per qualche secondo, mentre si fissava la divisa lacera e le braccia piene di escoriazioni; poi annuì a sua volta:- Mi dia un'ora per cambiarmi, darmi una pulita e avvertire la mia famiglia che stanotte non tornerò a casa. Mi inventerò una scusa.
- E voi? Non potete andarvene in giro a raccontare questa storia.- disse ancora, rivolto ai due agenti.
Uno dei due, quello che Baldini aveva identificato come l'ispettore Pescucci, si alzò faticosamente e disse:- Conti su di noi, signore.
- Bene. Meglio che nessun altro sappia nulla per ora.- poi, nuovamente rivolto verso Del Santo, disse:- Manderò un documento a tutte le stazioni di polizia, nel quale scriverò che tu hai temporaneamente il comando su tutte le forze di polizia cittadine. Sarai il solo a conoscere la situazione, quindi ho bisogno che tu ne abbia il controllo totale. Chiama tutte le stazioni. Aumenta le pattuglie in città al massimo. Avverti gli uomini di tenere gli occhi ben aperti. Che portino sempre con loro le armi automatiche. Non dirgli nulla di questo.- e indicò la carcassa della creatura – Digli quello che vuoi, tutto tranne la verità! Contatterò il Comando dei Carabinieri e il Ministero. Almeno loro devono sapere...anche se dovrò impegnarmi parecchio perché credano a questa storia. Per il momento potremo contare solo su noi stessi. Tutto chiaro?
Troppo sorpreso per tutto ciò che aveva visto e per la grossa responsabilità che gli era piovuta sulle spalle, Del Santo riuscì solo a dire:- Signorsì. Posso fare qualcos'altro?
Il volto del questore si rabbuiò; indicò la misteriosa entità e disse, con voce tombale:- Sì. Pregare che fosse solo.



sabato 1 febbraio 2014

[Recensione] Tutta colpa di Freud

Leggere la rubrica posta di certe riviste di cinema rincuora e fa ben sperare nel futuro: spesso capita che a scrivere siano giovani che hanno meno di diciotto anni, liceali un po' incoscienti ma che, con tanto cuore, chiedono a redattori più competenti di loro quali manuali, libri o siti web è meglio consultare al fine di apprendere i rudimenti e le basi tecniche del mestiere del cinematografo.
Da oggi, chi risponde a queste lettere con pazienza e speranza potrà consigliare a questi giovani appassionati la visione di Tutta colpa di Freud, ultima commediola "made in Medusa" firmata Paolo Genovese. E potrà consigliarlo non di certo perchè si tratta di un buon modello, ma perchè nel futuro, per il bene di tutti, sarà importante che questi aspiranti, nuovi registi non abbiano mai voglia di girare un film simile. Perchè Genovese- mestierante le cui doti sono accostabili a quelle di Parenti e Vanzina ma convinto di raccogliere un bagaglio culturale che arriva fino alla "commedia amara" di Risi e Zurlini -insegna davvero molto con questo film: come non scrivere un film, come non dirigerne la fotografia, come non far interpretare gli attori, come non scegliere la colonna sonora (salvo, in corner, la canzone di Daniele Silvestri Nel giardino di Psiche).
La trama è orribile. Francesco (Giallini) è uno psicologo con quattro clienti: tre figlie che in tre non fanno un cervello (interpretate da Vittoria Puccini, Laura Adriani e Anna Foglietta) e Alessandro (Gassman), architetto cinquantenne che lavora in una sorta di Ikea dei poveri (la catena si chiama Ovvio, e, ahimè, esiste davvero, non è inventata e il film poteva durare quaranta minuti meno senza product-placement di cattivissimo gusto). Tutto parte da Alessandro, che da mesi si scopa Emma, la figlia diciottenne di Francesco, a sua volta innamorato di una donna col cane che solo più avanti scoprirà essere Claudia (Gerini), moglie di Alessandro. Lo psicologo non vuole che la figlia sia trombata da un 50enne in crisi di mezz'età e lo invita a fare terapia da lui. Allo stesso tempo, anche le altre due figlie più grandi danno molti problemi al padre professionista, che dal canto suo ha molto tempo libero, visto che cura solo quattro pazienti. Marta ha una libreria a Campo de'Fiori, vive in un mondo tutto suo (un mondo di merda, ma questo il film non lo dice e ce lo fa solo vedere), nessuno compra UN libro nel suo negozio, ma lei riesce comunque a pagare affitto e tasse, a fare colazione in bar che nella realtà non esistono (almeno, non in quel modo) e a potersi permettere di essere derubata da Fabio (Marchioni), un sordomuto tenebroso e affascinante che lavora al teatro dell'opera e di cui lei si innamora perdutamente. E poi la situazione più imbarazzante: quella di Sara, figlia maggiore che per i primi dieci minuti del film vive a New York, dove non si sa cosa faccia (ha trentadue anni, ma va bene così) a parte andare a giro in  bicicletta e avere una "travolgente" storia lesbica con Jody (spero che l'ARCIGAY denunci la produzione per la scena della dichiarazione amorosa in metropolitana, e lo dico da persona diffidente di certe proteste talvolta un po' forzate). Poi Jody la manda in culo, Sara molla l'appartamento da barbona coi soldi (loft posto di fronte al ponte di Brooklyn, forse sub-affittato dalla figlia di Veltroni) e torna in Italia, dove decide di innamorarsi degli uomini. Ah, Sara quando si innamora starnutisce.
Basta. Anzi, no: "spoilero" (che verbo di merda, figlio del suo tempo) con orgoglio un'ultima cosa, scrivendo che il suicidio della Gerini è una delle scene di maggior cattivo gusto degli ultimi vent'anni.
A parte gli scherzi. La cosa che mi terrorizza è come un film simile non riesce, o peggio ancora non vuole rappresentare nulla che sia lontanamente reale. <<Ma siamo davvero in Italia?>>, mi sono chiesto. <<E' una città italiana, quella che vedo?>>. <<E se lo è, in che epoca siamo?>>. <<Siamo nella Terra di Mezzo?>>. <<Ma che cazzo di film escono, ragazzi?!>>. Argomenti comunque di spessore, interessanti come il mondo degli "eterni Peter Pan" vengono appiattiti; il discorso sull'identità sessuale viene ridotto ad un volgare cambio di gusti a intermittenza, manco l'amore o la sessualità siano portate del menù di qualche ristorantino romantico. E poi fosse stato un cortometraggio di quattro minuti: no, dura due ore e dieci. Tutta colpa di Freud prospetta la demenza di quel tipo di cinema italiano contemporaneo che vorrebbe essere brillante senza neanche avere i presupposti per risultare tale.
Negli ambienti dove si insegna a scrivere una sceneggiatura viene sottolineato spesso (e a ragione) che i protagonisti di una storia, dall'inizio alla fine, devono per forza compiere un percorso di cambiamento: è un presupposto obbligatorio, un assioma utile a sancire che la storia c'è, esiste e può diventare qualcosa di più (un film, un fumetto, un testo teatrale, una puntata di una sitcom, ecc.). Ma allora com'è possibile che gente come Genovese giri un film dove, a conti fatti, non succede nulla?
Basta davvero. Ormai sono andato oltre. Concludo dicendo che il cinema è saturo di Tutta colpa di Freud e compagnia bella, di film stupidi con un paio di belle tette di decoro, ricolmi di canzoncine in inglese riarrangiate da musicisti di terza categoria (ma un film dove Somewhere Over The Rainbow e What A Wonderful World sono presenti a pochi minuti di distanza, cantate da Arisa, sarà un film vedibile, secondo voi?), con Vinicio Marchioni che fa il sordomuto e riesce a fare peggio di Sean Penn ai tempi di Mi chiamo Sam, eccetera. Ormai è roba vecchia, ha fatto il suo tempo. E' un cinema stantio. Basta.