"Out on the Road today/ I Saw a Deadhead sticker on a Cadillac" cantava Don Henley in Boys of Summer. Pur essendo stata uno dei tanti singoli milionari sfornati alla fine degli anni '80 dalla fabbrica dei sogni di David Geffen, la canzone cadde nel dimenticatoio per almeno un decennio. Se ne riappropriò una band punk-rock denominata Ataris nel 2003. Io facevo le medie, ma quella versione non me la sono mai dimenticata. Gli Ataris però volevano spaccare tutto e arrivare al successo includendo un paio di cover "ricercate" nel loro terzo album, Henley voleva raccontare una storia molto semplice, che potrebbe essere così riassunta: c'è stato un sogno, ma è finito.
Io non ho una Cadillac, né ambisco ad acquistarne una, ma ho deciso comunque di abbellire Ginetta con un omaggio ai Dead, a Boys of Summer e anche a me stesso, che nonostante tutto sono ancora qua.
Ad agosto ho cercato di fare ordine in una stanza che definire trascurata sarebbe eufemistico. Così, mi sono rifatto da una parte e ho cercato di dare un senso al mio microcosmo, anche eliminando certe foto, certe immagini, certe cose del mio tragicomico passato prossimo che- qualora lasciate al loro posto -sarebbero risultate ingombranti e avrebbero solo alimentato il blues. Dalle mensole dei libri sono passato ai cassetti, dove ho ritrovato di tutto. Ho messo in ordine cronologico i diari cartacei, ne ho rilette certe pagine, ho fatto il parallelo con quello digitale che tengo su Word e mi è venuto da ridere. Il
primo "volume" è un taccuino verde di
carta finissima (marca Favini) e inizia senza preamboli, senza prefazioni, senza
prologhi, senza "c'era una volta", in un banalissimo pomeriggio
del 13 agosto 2005. Ero al mondo da oltre quindici anni e ne
sono passati quasi altrettanti. Ciò significa che ho avuto
la fortuna e l'ispirazione di scrivere per metà della mia vita terrena. Non sempre i tempi si sono rivelati continuativi, e altrettanto sconnesse sono state le forme, i mezzi gli strumenti: questo stesso blog, per dire, è nato su una piattaforma ormai dimenticata che si chiamava Windows Live Spaces (eravamo in molti a utilizzarla e alcuni avevano davvero creato dei piccoli angoli di paradiso di letteratura amatoriale) e ha finito col divenirne un sostituto "pubblico", che curo e a cui, in verità, tengo molto più adesso di quando lo aprii. Come ho fatto presente recentemente a Martina, mi sono reso conto che rileggere incessantemente
queste lunghe pagine in cui un "vecchio me" si innamora, si
diverte, soffre, scopre il mondo, le cose e le persone non mi avrebbe portato da nessuna parte. Ragion per cui li ho impilati amorevolmente, ho scattato loro una foto e li ho riposti in perfetto ordine.
Trascorrere le lunghe ore in cassa e al rifornimento merci del punto vendita Coop dove lavoro da alcuni mesi può essere terapeutico, ma pure estremamente rischioso. Finisco sempre a vagare, coi pensieri, per territori pericolosi. E' un'evasione, ma si tratta di un'evasione ad alto tasso di rischio. Centinaia di persone si servono da me e mi pagano per ciò che li mantiene lontani dalla tomba. Ad alcune di queste importa solo di spendere poco, altre sono ossessionate dal cibo, altre ancora rincorrono una qualità e una perfezione che non fanno parte di questa terra. Mi vorrei fermare e spiegarglielo: <<Guardi, la perfezione non è di
questa terra, e, se lei non l'ha capito, è condannato a vivere male>>. Ho
passato anni a dannarmi nella ricerca di serate perfette, di una
relazione perfetta, di un'idea di futuro perfetto e nulla si è
avverato. Al limite, ho idealizzato certe cose (sbagliate) e ne ho
fatte decomporre altre (magari più giuste). Proust, in una delle
novantamila impareggiabili pagine della Recherche,
scrive che "l'amore ama solo le cose imperfette" e ognuno di noi
può piegare queste parole, leggere in questo assunto tutto e niente.
Alla persona di un'incerta età che sono oggi l'imperfezione e le
cose irrisolte piacciono, dieci anni fa le avrei odiate. La
mia vita attraversa fasi dure e sgradevoli in questo periodo, ma ciò non mi impedisce di pormi certi quesiti e di rincorrerne le risposte. A quelli consueti e maggiormente "datati" finiscono spesso con l'aggiungersene altri. Il lavoro che faccio influenza pesantemente tutta la questione e io mi ritrovo a fare la parte di Groucho in quello stratosferico numero di Dylan Dog intitolato La macchina umana:
Ferragosto è il primo giorno libero dopo diciassette di lavoro filato. Lo passo a casa, in totale solitudine. Ho una promessa da mantenere, anzi due: ascoltare con attenzione il primo EP dei Greta Van Fleet e rileggere La casa degli spiriti della Allende, uno dei libri che si leggono quando si inizia ad avvertire il bisogno di affacciarsi sul mondo, nonché il mio preferito della cilena dopo Eva Luna. Faccio entrambe le cose e il risultato è il seguente: dei Greta Van Fleet finisco col salvare un paio di pezzi (ma se suonassero in zona e il biglietto costasse una quindicina di euro probabilmente andrei a vederli), La casa degli spiriti finisce con l'entusiasmarmi e ciò potrebbe comportare che Eva Luna rischi di finire spodestato. Per fugare ogni dubbio, alcuni giorni dopo rileggo Eva Luna.
Sempre nel cuore di agosto, con la gente in ferie e i problemi che fanno gradualmente sentire meno il loro peso, torna Lea. Trascorre qua una ventina di giorni, prendendosi cura di me come ormai poche persone sono in grado di fare. Da più di cinque anni, Lea abita in Francia, ma le sue radici sono saldamente piantate nella Valley. Siamo stati lontani a lungo- succede a chi si ama, figuriamoci nell'arco di una relazione di amicizia -e ci siamo rivisti alla cena di classe dello scorso marzo dopo una fase abbastanza significativa in cui nessuno dei due aveva ritenuto troppo opportuno farsi vivo con l'altro. Lea conserva da sempre la dote innata di calmarmi l'animo ed entrare in sintonia col mio battito e col mio respiro. La compagnia di persone che si conoscono da quando siamo nati può, allo stesso tempo, avvolgere, rallegrare e immalinconire, ma fondamentalmente sentirsi vivi è questo. Lea è ripartita l'8 settembre. <<Parigi per te sarà sempre aperta, fin tanto ci sarò io>>, mi ha detto. <<Appena mi scade il contratto, mi organizzo>>, ho risposto io, in linea con la mentalità da precario che ormai marchia a fuoco il codice genetico di un'intera generazione. Lea è ripartita, le giornate hanno proseguito il loro corso con minore entusiasmo e quando penso a lei (e a chi è lontano ma ti vuole bene lo stesso e a chi vorresti vedere ma non si può e non si deve e non si vuole e a chi c'è sempre e poi non c'è mai e anche a chi sai per certo ci sarà sempre, anche se il tempo che ci trascorri insieme sembra non bastare mai) mi rivedo in quel verso di Raymond Carver: "I miei polmoni sono pieni/ del fumo della tua assenza".
Il 14 agosto mia sorella piccola ha compiuto 15 anni, così approfitto di un insolito pomeriggio libero dal lavoro e scarrozzo lei e un'amica per Firenze. Sono con la Punto- Ginetta è chiusa in un hangar e il mio meccanico in ferie -e non riesco a quantificare la temperatura esterna, ma più o meno somiglia a quella di una notte d'inverno su Venere. Mia sorella è una teenager a pieno titolo e come tutte le teenager è un miscuglio di intelligenza e influenzabilità, di sicurezza e timore, di consapevolezza e spregiudicatezza. Con le sue amiche, ragazze parimenti intelligenti e dotate di personalità- merce ormai rara anche fra chi l'adolescenza l'ha superata da un pezzo-guardano i film giusti, rincorrono le serie tv migliori e seguono le notizie del mondo con un senso critico che ammicca comunque a sinistra. In più, mia sorella è una guerriera in lotta con la musica di merda del nostro tempo, e questo mi rende particolarmente orgoglioso, perché so di essere stato un buon mentore. I soliti cinque, sei tormentoni reggaeton sparati a palla nella filodiffusione del supermercato uccidono anche quel poco di alettante e fascinoso che la Coop ha da offrire, ma non siamo in molti a rendercene conto. <<L'altro giorno in piscina avranno mandato Amore e Capoeira almeno otto volte!>>, mi spiegano, sdegnate, le ragazze, mentre questo pezzo riecheggia a tutto volume da dentro Kiko e si riversa in via Calzaiuoli unendosi al bollore della pietra e al viavai scomposto di certi gruppi di turisti affetti da un disagio mentale e culturale molto marcato. Si tratta perlopiù di persone anziane e bambini che con goffaggine (e allegria) si confondono dietro alle guide col bandierino: uno spettacolo che si sposa atrocemente bene coi singoli di pessima fattura della heavy rotation estiva. Entriamo da IBS, ma io continuo a tormentarmi con quesiti retorici da vecchio gufo, del tipo <<Eh, ma come faremo?>>, <<Eh, ma queste generazioni come faranno?>>, <<Eh, ma dove vogliamo andare con un bagaglio sociale e culturale di così basso livello?>>, senza pensare che le inezie musicali esistevano nel 1600 ed esistono oggi e che l'immondizia ha sempre fatto parte di un panorama più ampio. Poi alzo gli occhi e vedo Francesca, coi suoi bracciali, la sua collana da potterhead e la sua maglietta dei Nirvana, intenta a spulciare i vinili. E' allora che realizzo che non dovrei lamentarmi ma essere felice: sembra che qualche strumento per diventare un essere umano più decente a mia sorella sia stato davvero in grado di trasmetterlo.
Mentre Lea era qua, ho avuto modo di rivedere Non ti muovere di (e con) Castellitto, uno di quei brutti film italiani di cui si conserva la memoria solo per ciò che concerne le scene più spinte. Ce lo siamo gustato per intero sul divano di casa sua, con un paio di bottiglie di vino del contadino a lubrificare il nostro spirito critico. Il soggetto in sé non sarebbe neanche male, ma tutta la storia è gestita, interpretata e girata talmente male che a uno spettatore un minimo più esigente rimarrà molto poco impresso. Non ti muovere è un film che racconta la redenzione di un uomo che ha tradito una donna e lo fa offrendo una risoluzione dolorosa e un happy-ending oscenamente cattolico e familista. Non ti muovere è un film in cui spicca Un senso di Vasco Rossi (una canzone che di suo spiccherebbe poco). Non ti muovere rimane impresso più per i vestiti di Penélope Cruz che non per tutto il suo lungo (due ore e passa di pellicola) svolgimento, eppure anche quegli abiti e quei colori di inizio anni Duemila sembrano oggi inguaribilmente vecchi e datati. E poi i suoi migliori costumi la Cruz li aveva già indossati un anno prima, in Masked and Anonymous. Non c'è proprio storia.
Per chi fosse arrivato fin qua e volesse prendere appunti, segue una rassegna della campagna acquisti/ascolti/letture di fine estate 2018.
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