domenica 30 settembre 2018

Più sangue, più tracce [Extra]

Bloccato in una assurda fila automobilistica alle porte del paese, controllo l'orologio. Sono in ritardo, ma in questi giorni amo prendermela comoda. Il contratto è scaduto e io, in attesa di un paventato rinnovo stagionale, sono in ferie. Ferie che non sembrano destinate a essere consumate in nessuna delle due mete che mi ero prefissato (la Galizia e la California) e che dunque rappresentano un capitolo ancora tutto da scrivere. Guardo il lato positivo: è il venerdì di un inizio autunno climaticamente identico alla piena estate, il sole si fa sentire, l'animo si tinge di colori neutri. Manca meno di due mesi al mio compleanno e non ho mai avuto tanta urgenza di invecchiare come adesso. Non dipende solo dal fatto che pochi giorni prima uscirà The Bootleg Series Vol. 14: More Blood More Tracks- anche se in questo caso non sarò minimamente combattuto su quale delle due versioni prendere (prenderò quella su disco singolo) -né dall'urgenza di ricevere notizie sul mio prossimo futuro lavorativo, né ancora sulla smania dettata dal concludere Gli anni selvaggi (voglio finirlo proprio entro novembre e non mi importa di niente, devo farcela). Non importa: ho i miei motivi per bramare che questo lasso di tempo scorra più veloce del solito, col sole che trafigge le tempie di questa testa fra le nuvole e col cuore scosso dall'incessante attraversamento di campagne, città e luoghi improbabili. Che il tempo svanisca, purtroppo, lo so da me.
Penso all'irrigidimento climatico che avrà luogo- si spera -fra un paio di mesi e compro un paio di pantaloni di velluto a coste color ocra che avevo in testa da tempo ma che la realtà aveva stentato a restituirmi. Sono giorni in cui leggo voracemente: in biblioteca ho preso in prestito Hotel California. L'identità del suono in più di 300 album fondamentali, un lungo (623 pagine) saggio di Mauro Ronconi sul panorama AOR e sulla sua evoluzione attraverso i decenni, ma come mi capita sempre più frequentemente con le pubblicazioni Arcana, mi incazzo e lo ripongo nel giro di poche pagine. Non succede lo stesso con M Train della Smith, che ormai scrive i libri meglio di quanto le riesca fare con le canzoni. In contemporanea, proseguono le "riletture": nelle ultime settimane tocca a Post-office di Bukowski e a La nascita della filosofia di Giorgio Colli, un libro che andrebbe fatto leggere  obbligatoriamente in terza superiore in tutti i licei di Italia: sono convinto che i pregiudizi (se non l'odio) nei confronti di una materia come la storia della filosofia si attenuerebbero non poco.
Quella che va rivelandosi come una delle letture più intense degli ultimi mesi me la regala Martina poche sere prima di partire per Bali. E' una serata strana. Siamo seduti nel giardino sul retro di casa sua ad ammirare l'estate dissolversi. Mentre arrivavo ad Air Mountain, in macchina, ho percorso gli ultimi chilometri imboccando un breve tratto di Chiantigiana e lasciando che dai finestrini abbassati entrasse l'inconfondibile odore di vigne ancora per poco gravide d'uva: attraverso l'oscuro calore della notte mi è quasi parso di poter contare i chicchi uno a uno. Incrocio le gambe alla maniera degli indiani e vengo invitato a portare in fondo una riserva dei Colli Senesi biologica. <<Tanto era aperta...>>. Racconto di quanto negli ultimi giorni abbia sbrigato il mio lavoro diligentemente ma con un insano miscuglio di noia, accidia e fastidio debitamente espanso per tutte le vene del corpo. Cerco di spiegare come, dopo due mesi e mezzo di flusso ininterrotto e dionisiaco, la mia vena creativa stia pericolosamente rientrando in standard più apollinei e che le bestemmie e i sospiri, alla fine, non servano a molto. <<Fare i conti con un foglio bianco è sempre più difficile. Anche per questo ho praticamente smesso di scrivere>>, sovviene Martina. Poi mi porge il suo regalo pre-feriale: il romanzo Scritto sul corpo di Jeanette Winterson, una scrittrice inglese di cui ho sentito molto parlare ma della quale non ho mai letto niente. E' un'edizione di una collana che negli ultimi anni ha perso gradualmente smalto e qualità, ossia la Piccola Biblioteca Oscar Mondadori, un tempo contraddistinta da quelle pagine di carta pesante tagliate in maniera a dir poco grossolana. <<Questo è il suo best-seller per eccellenza, il libro che tutti leggono quando decidono di scoprire la Winterson>>, mi spiega mentre io ne ammiro la dedica ingenuamente scritta a lapis e poi ripassata a penna. Non ricevendo praticamente più regali da nessuno (c'è la crisi e siamo invecchiati), tendo a emozionarmi. Va da sé che Martina non mi regalava un libro dal compimento dei miei diciotto anni e che la Winterson, dopo appena sei pagine, mi conquisterà perdutamente, con lo stile di una mosca bianca autentica e affascinante e una storia enigmatica e particolarissima. Il fatto di aver ricevuto il romanzo in una serata che sembra uscire dai solchi di Ladies of the Canyon non significa però che questa sia una scrittrice beat o allineata col mood narrativo delle signore forti e temprate dalla vita. Al contrario, anche nei passaggi più "caldi" la Winterson si conferma un'autrice estremamente british, la sua sensibilità è intima e riflessiva, racconta il sesso accuratamente ma lo fa con parole rarefatte e aggettivi centellinati. Insomma, se si cerca un corrispettivo letterario a The North Star Grassman and the Ravens di Sandy Denny, in Scritto sul corpo lo si può trovare.
Mi sforzo di girovagare più avanti e poco indietro, immergendomi laddove possibile nei primi, timidi umori autunnali. L'aria della mattina non sempre si rivela benevola, ma il tramonto, l'ora del tramonto, restituisce la giusta dimensione alla scorrevolezza della vita. Di ritorno da un'escursione pomeridiana nel bosco di Sasseta, mi imbatto in una luce fantastica. La strada di Coneo è quella che ho percorso in motorino con Nikke in molte occasioni: una volta, ci abbiamo visto l'alba insieme, all'inizio di giugno, ma era un'altra vita. Scatto qualche foto, mi concedo un selfie coi Ray-Ban sugli occhi e con la terra arata di fresco che assume quel colore fra il rosso e il marrone scuro di sfondo. Rincaso passando da borghetti rustici dove i migranti aspettano l'autobus fissando ognuno il proprio smartphone (non sventolano i proverbiali 35 euro al giorno, ma poco importa) e dove signore di mezza età fanno footing avviluppate da improbabili tute Decathlon e tengono un passo che le fa somigliare a delle papere intorpidite dal sonno. Lo stereo butta fuori l'ultima, gradevole fatica solista di Slash (e Myles Kennedy), scaricata di fresco. Qualche idea qua e là emerge, ma, a ogni modo, la banalizzazione in atto nella attuale scena mainstream rock non trova termini di paragone con nulla.
E' un martedì pomeriggio quando torno a casa e mi faccio un caffè che non è solo lungo: rasenta l'infinito. Lascio nell'impianto Los Angeles degli X, che è agli sgoccioli. Batto alcuni paragrafi aggiuntivi del primo capitolo de Gli anni selvaggi, ma il risultato mi disturba, è palloso solo a rileggerlo. Fuori gli X, dentro Tumbleweed Connection di Elton John. La situazione migliora, va bene, ma le parole continuano a fare fatica ad uscire. Chiudo il portatile/macchina da scrivere e mi butto in un angolo, tentando di raccogliere idee che non arriveranno mai. Ci facciamo tante pippe sullo scrivere con la giusta musica e bevendo caffè nella propria camera piena di oggetti che amiamo, ma a me riesce davvero bene solo senza musica, senza bere e possibilmente fuori di camera. Era così dieci, dodici, tredici anni fa ed è così oggi.

lunedì 24 settembre 2018

The Sbellu, Brune & Lollo Whites Power Trio Live in Scandicci, 22/9/2018 [Extra]

Ogni giorno persone mediocri cercano di ucciderci coi loro luoghi comuni, luoghi comuni a cui noi dobbiamo rispondere col pensiero, con l'intelligenza e con la dialettica, ma anche con un sonoro <<Vaffanculo!>>. Venerdì sera, ad esempio, ho assistito a una dimostrazione di mera, sconfortante mediocrità. Sabato mattina mi è successo altrettanto, al che mi è venuto spontaneo pormi la domanda che si erano fatti anche Joe Strummer e Mick Jones in un loro singolo molto famoso, molto venduto e pure bruttino: <<Devo restare o me ne devo andare?>>. Io in questi casi me ne vado, ma me ne vado di buon umore. 
In realtà, mi viene in aiuto il pensiero che nel pomeriggio avrò tutto il tempo per veleggiare col Brune verso i dintorni di Firenze, più precisamente a Scandicci, nel cui Palasport si tiene una mostra-mercato di fumetti e dischi ormai celebre. Il rendez vous col Brune è fissato per le 14:30, mentre Lore "Il Duca" Bianchi (che nella rubrica del mio nuovo Huawei ho inglesizzato battezzandolo direttamente Lollo Whites) arriva in tram. L'autunno, sulla carta, è iniziato da due giorni, ma fuori la temperatura si aggira sui 32° e io continuo a godere del beneficio dei pantaloni corti. La prima buona notizia è che subito di fianco all'ingresso trova spazio un bar ben fornito dove ci rifocilliamo: il Brune ordina il diciottesimo caffè della giornata, Il Duca- astemio e notoriamente alieno a quelli che Andreotti definiva "vizi minori" -si concede un Esta Thè al limone, io prendo una boccetta di acqua di frigo, che sorseggio avidamente. Diamo un'occhiata in giro e io avverto solo vibrazioni positive: nessun cosplayer, pochissimi nerd fastidiosi, spazio relegato ai fumetti ridotto al minimo. Alcuni banchi di fumetti integrano anche figurine, gadget, action-figures e altre amenità con cui però non sono sintonizzato: lascio comunque al Duca il compito di esprimersi esplorando certe scaffalature. Nel frattempo, ci affacciamo sulla zona che si rivelerà la più significativa e curata di tutta la mostra: quella dei dischi. Premetto che non sono un grande frequentatore di fiere del disco e penso di avere i miei motivi: il primo è che questi eventi sono un terreno di gioco più consono ai collezionisti che non ai musicofili; il secondo è che io, acquistando e ascoltando in formato fisico ed essendo il mio formato fisico di riferimento i cd, non traggo grande giovamento da frequentare mostre e mercati dove il novanta percento delle attenzioni sono dirottate sui vinili; il terzo è che- con le dovute eccezioni -una significativa fetta degli espositori si limita a promuovere materiale generico e maltenuto, preferendo vendere i "pezzi migliori" e le rarità più ambite su internet. Altrettanto consapevolmente, però, mi rendo conto che oggi di occasioni per scambiarsi opinioni e idee sulla musica non è che ce ne siano rimaste molte. Anzi, visti i tempi che corrono e i negozi che chiudono, direi che anche in fatto di spazi per poter fruire della musica, spulciarla, sceglierla e comprarla non siamo messi bene. Perciò, se ne possiamo approfittare tanto meglio.
Ho lo zainetto di pelle e la mia lista dei dischi da comprare nel 2018. Sono a un buon punto e comunque lontano da completarla, anche perché mi viene naturale ritoccarla e modificarla di continuo e ogni due, tre acquisti, più o meno, ne aggiungo uno nuovo da fare. Inizio a pescare da dei brutti contenitori di plastica di un espositore del nord, uno che sembra più interessato a vendere dei grossi e costosi poster coi personaggi di qualche manga che non i cd (cd che pure possiede in abbondanza). Il prezzo è estremamente economico (dai due ai cinque euro a disco), gli album però difficilmente provengono da prima del 1989. La mia lista comprende di tutto (dalla musica brasiliana al country, passando per colonne sonore e rock generico), ma è logico che il grosso dei titoli graviti attorno ai '60-'70. Con dodici euro mi porto a casa Living with the Law di Chris Whitley (c'è chi lo ha definito il più bel disco di esordio degli anni '90, insieme a Grace di Jeff Buckley), Bringing Down the Horse degli Wallflowers e una consunta copia dell'omonimo di Rickie Lee Jones. Pur non essendo il mio ambito, visito uno stand di un pistoiese che vende solo ed esclusivamente progressive: gli appassionati da lui fanno la fila. Chiedo una copia in cd di Entertainment dei Family e mi dice che l'unica l'ha venduta in mattinata. Sento un tale domandargli se tratta anche dischi metal e lui risponde negativamente. <<Peccato, te ne vendevo un migliaio a poco. Robaccia della mia gioventù che sta in soffitta a prendere polvere...>>. Inorridisco. Per me- eccetto i doppioni -è impensabile vendere i propri dischi, neppure quando assumono le forme di errori (od orrori) giovanili. Magari non ce ne rendiamo conto vivendo un'età di transizione che somiglia a una prolungata e ridicola giovinezza, ma tutto resta a ricordare il solco che abbiamo tracciato per arrivare fino qui.
I miei dischi (aprile 2006).
Ho praticamente già finito di girare la fiera. Nel frattempo, il Brune ha comprato un intera serie a fumetti Dark Horse pagandola appena venti euro e si è aggiudicato- a prezzo ampiamente competitivo -la prima edizione di Batman Vs. Predator, un albo che nel 1992 spopolò e valse persino un Eisner Award ad Adam Kubert per l'eccellente opera di inchiostrazione. Lore ha finito col farmi compagnia: snobba i fumetti e predilige rincorrere qualche album in vinile e domandare di certi 45 giri che brama ardentemente. Sfogliamo degli adesivi di donne nude e vedo di trovarne qualcuno adatto a Ginetta: tuttavia, mi fermo a meditare sugli imperversanti tempi di cattofemminismo moralista in cui siamo costretti a vivere e lascio che il perbenismo freni le mie esuberanti voglie consumistiche. Richiudo il libidinoso e perverso raccoglitore per lasciarmi perforare l'occhio da uno stand che non ho ancora visitato. Dei cartelli parlano chiaro: ampia scelta di materiale psichedelico (distinto fra USA e UK, quindi l'attestato di serietà il negoziante in questione se lo è già ampiamente guadagnato) e folk-rock inglese d'epoca. Inizio a scartabellare, ma non trovo nulla di quello che mi occorre: Basket of Light dei Pentagle, una dozzina di retrospective dei Dead, gli omonimi e introvabili album della Diga Rhythm Band e dei Great Speckled Bird, Easter Everywhere dei 12th Floor Elevators nella limited edition inglese, Hurdy Gurdy Man di Donovan, She used to wanna be a Ballerina di Buffy Sainte-Marie, Oar di Skip Spence, per citarne alcuni che il banco in questione potrebbe avere. 
Tuttavia, mi basta svoltare un angolo per trovare ottime cose: un cd tenuto come nuovo del Live at Budokan di His Bobness preso con l'equivalente di tre caffè, una eccelsa sezione di southern-rock da cui riporto a casa ben tre album (fra cui uno uscito appena tre anni fa), Sunflower dei Beach Boys. Scorro la discreta selezione di cd di Van Morrison, ma di Veedon Fleece in cd non c'è traccia. <<Ce l'ho in vinile>>, dice il tipo (pisano?) mostrandomene una copia imbustata e tenuta splendidamente. Sono già dentro la copertina, su quel prato verde e inizio a sentire vicino il pelo caldo e folto dei levrieri irlandesi quando torno in me e mi accorgo che sto dando l'impressione di essere uno di quei feticisti disposti a donare un rene pur di avere uno sconto sul prezzo di un 33 giri. <<Viene 60, ma te lo faccio 55>>. <<No grazie, compro solo in cd!>>. Potrebbe essere uno splendido motto per una maglietta. Concludo la visita buttando una rapida occhiata alla piccola sezione giapponese dello stand: SACD di Dylan come piovesse, pregiate confezioni Original Master Recording, SHMCD degli Allman, tutta bella roba, eppure un dubbio permane e provo a confrontarmi coi miei due compagni di fiera. <<Ma tutta questa gente che negli ultimi anni ricompra in vinile tutto ciò che magari per tre decenni ha comprato in cd che problemi ha?>>. I miei amici mi squadrano con l'aria di chi si domanda <<Ma questo che problemi si fa?>>. Il Brune spezza l'incantesimo e ci riporta sulla terra con un quesito più congruo che condensa al meglio l'intero pomeriggio: <<Ci avete fatto caso? In questi posti la fica è sempre drammaticamente assente>>.
Uno scatto di infima qualità fatto al bottino scandiccese (settembre 2018).

venerdì 21 settembre 2018

September of my Years [Extra]

"Out on the Road today/ I Saw a Deadhead sticker on a Cadillac" cantava Don Henley in Boys of Summer. Pur essendo stata uno dei tanti singoli milionari sfornati alla fine degli anni '80 dalla fabbrica dei sogni di David Geffen, la canzone cadde nel dimenticatoio per almeno un decennio. Se ne riappropriò una band punk-rock denominata Ataris nel 2003. Io facevo le medie, ma quella versione non me la sono mai dimenticata. Gli Ataris però volevano spaccare tutto e arrivare al successo includendo un paio di cover "ricercate" nel loro terzo album, Henley voleva raccontare una storia molto semplice, che potrebbe essere così riassunta: c'è stato un sogno, ma è finito. 
Io non ho una Cadillac, né ambisco ad acquistarne una, ma ho deciso comunque di abbellire Ginetta con un omaggio ai Dead, a Boys of Summer e anche a me stesso, che nonostante tutto sono ancora qua.
Ad agosto ho cercato di fare ordine in una stanza che definire trascurata sarebbe eufemistico. Così, mi sono rifatto da una parte e ho cercato di dare un senso al mio microcosmo, anche eliminando certe foto, certe immagini, certe cose del mio tragicomico passato prossimo che- qualora lasciate al loro posto -sarebbero risultate ingombranti e avrebbero solo alimentato il blues. Dalle mensole dei libri sono passato ai cassetti, dove ho ritrovato di tutto. Ho messo in ordine cronologico i diari cartacei, ne ho rilette certe pagine, ho fatto il parallelo con quello digitale che tengo su Word e mi è venuto da ridere. Il primo "volume" è un taccuino verde di carta finissima (marca Favini) e inizia senza preamboli, senza prefazioni, senza prologhi, senza "c'era una volta", in un banalissimo pomeriggio del 13 agosto 2005. Ero al mondo da oltre quindici anni e ne sono passati quasi altrettanti. Ciò significa che ho avuto la fortuna e l'ispirazione di scrivere per metà della mia vita terrena. Non sempre i tempi si sono rivelati continuativi, e altrettanto sconnesse sono state le forme, i mezzi gli strumenti: questo stesso blog, per dire, è nato su una piattaforma ormai dimenticata che si chiamava Windows Live Spaces (eravamo in molti a utilizzarla e alcuni avevano davvero creato dei piccoli angoli di paradiso di letteratura amatoriale) e ha finito col divenirne un sostituto "pubblico", che curo e a cui, in verità, tengo molto più adesso di quando lo aprii. Come ho fatto presente recentemente a Martina, mi sono reso conto che rileggere incessantemente queste lunghe pagine in cui un "vecchio me" si innamora, si diverte, soffre, scopre il mondo, le cose e le persone non mi avrebbe portato da nessuna parte. Ragion per cui li ho impilati amorevolmente, ho scattato loro una foto e li ho riposti in perfetto ordine.
Trascorrere le lunghe ore in cassa e al rifornimento merci del punto vendita Coop dove lavoro da alcuni mesi può essere terapeutico, ma pure estremamente rischioso. Finisco sempre a vagare, coi pensieri, per territori pericolosi. E' un'evasione, ma si tratta di un'evasione ad alto tasso di rischio. Centinaia di persone si servono da me e mi pagano per ciò che li mantiene lontani dalla tomba. Ad alcune di queste importa solo di spendere poco, altre sono ossessionate dal cibo, altre ancora rincorrono una qualità e una perfezione che non fanno parte di questa terra. Mi vorrei fermare e spiegarglielo: <<Guardi, la perfezione non è di questa terra, e, se lei non l'ha capito, è condannato a vivere male>>. Ho passato anni a dannarmi nella ricerca di serate perfette, di una relazione perfetta, di un'idea di futuro perfetto e nulla si è avverato. Al limite, ho idealizzato certe cose (sbagliate) e ne ho fatte decomporre altre (magari più giuste). Proust, in una delle novantamila impareggiabili pagine della Recherche, scrive che "l'amore ama solo le cose imperfette" e ognuno di noi può piegare queste parole, leggere in questo assunto tutto e niente. Alla persona di un'incerta età che sono oggi l'imperfezione e le cose irrisolte piacciono, dieci anni fa le avrei odiate. La mia vita attraversa fasi dure e sgradevoli in questo periodo, ma ciò non mi impedisce di pormi certi quesiti e di rincorrerne le risposte. A quelli consueti e maggiormente "datati" finiscono spesso con l'aggiungersene altri. Il lavoro che faccio influenza pesantemente tutta la questione e io mi ritrovo a fare la parte di Groucho in quello stratosferico numero di Dylan Dog intitolato La macchina umana:
Ferragosto è il primo giorno libero dopo diciassette di lavoro filato. Lo passo a casa, in totale solitudine. Ho una promessa da mantenere, anzi due: ascoltare con attenzione il primo EP dei Greta Van Fleet e rileggere La casa degli spiriti della Allende, uno dei libri che si leggono quando si inizia ad avvertire il bisogno di affacciarsi sul mondo, nonché il mio preferito della cilena dopo Eva Luna. Faccio entrambe le cose e il risultato è il seguente: dei Greta Van Fleet finisco col salvare un paio di pezzi (ma se suonassero in zona e il biglietto costasse una quindicina di euro probabilmente andrei a vederli), La casa degli spiriti finisce con l'entusiasmarmi e ciò potrebbe comportare che Eva Luna rischi di finire spodestato. Per fugare ogni dubbio, alcuni giorni dopo rileggo Eva Luna
Sempre nel cuore di agosto, con la gente in ferie e i problemi che fanno gradualmente sentire meno il loro peso, torna Lea. Trascorre qua una ventina di giorni, prendendosi cura di me come ormai poche persone sono in grado di fare. Da più di cinque anni, Lea abita in Francia, ma le sue radici sono saldamente piantate nella Valley. Siamo stati lontani a lungo- succede a chi si ama, figuriamoci nell'arco di una relazione di amicizia -e ci siamo rivisti alla cena di classe dello scorso marzo dopo una fase abbastanza significativa in cui nessuno dei due aveva ritenuto troppo opportuno farsi vivo con l'altro. Lea conserva da sempre la dote innata di calmarmi l'animo ed entrare in sintonia col mio battito e col mio respiro. La compagnia di persone che si conoscono da quando siamo nati può,  allo stesso tempo, avvolgere, rallegrare e immalinconire, ma fondamentalmente sentirsi vivi è questo. Lea è ripartita l'8 settembre. <<Parigi per te sarà sempre aperta, fin tanto ci sarò io>>, mi ha detto. <<Appena mi scade il contratto, mi organizzo>>, ho risposto io, in linea con la mentalità da precario che ormai marchia a fuoco il codice genetico di un'intera generazione. Lea è ripartita, le giornate hanno proseguito il loro corso con minore entusiasmo e quando penso a lei (e a chi è lontano ma ti vuole bene lo stesso e a chi vorresti vedere ma non si può e non si deve e non si vuole e a chi c'è sempre e poi non c'è mai e anche a chi sai per certo ci sarà sempre, anche se il tempo che ci trascorri insieme sembra non bastare mai) mi rivedo in quel verso di Raymond Carver: "I miei polmoni sono pieni/ del fumo della tua assenza".
Il 14 agosto mia sorella piccola ha compiuto 15 anni, così approfitto di un insolito pomeriggio libero dal lavoro e scarrozzo lei e un'amica per Firenze. Sono con la Punto- Ginetta è chiusa in un hangar e il mio meccanico in ferie -e non riesco a quantificare la temperatura esterna, ma più o meno somiglia a quella di una notte d'inverno su Venere. Mia sorella è una teenager a pieno titolo e come tutte le teenager è un miscuglio di intelligenza e influenzabilità, di sicurezza e timore, di consapevolezza e spregiudicatezza. Con le sue amiche, ragazze parimenti intelligenti e dotate di personalità- merce ormai rara anche fra chi l'adolescenza l'ha superata da un pezzo-guardano i film giusti, rincorrono le serie tv migliori e seguono le notizie del mondo con un senso critico che ammicca comunque a sinistra. In più, mia sorella è una guerriera in lotta con la musica di merda del nostro tempo, e questo mi rende particolarmente orgoglioso, perché so di essere stato un buon mentore. I soliti cinque, sei tormentoni reggaeton sparati a palla nella filodiffusione del supermercato uccidono anche quel poco di alettante e fascinoso che la Coop ha da offrire, ma non siamo in molti a rendercene conto. <<L'altro giorno in piscina avranno mandato Amore e Capoeira almeno otto volte!>>, mi spiegano, sdegnate, le ragazze, mentre questo pezzo riecheggia a tutto volume da dentro Kiko e si riversa in via Calzaiuoli unendosi al bollore della pietra e al viavai scomposto di certi gruppi di turisti affetti da un disagio mentale e culturale molto marcato. Si tratta perlopiù di persone anziane e bambini che con goffaggine (e allegria) si confondono dietro alle guide col bandierino: uno spettacolo che si sposa atrocemente bene coi singoli di pessima fattura della heavy rotation estiva. Entriamo da IBS, ma io continuo a tormentarmi con quesiti retorici da vecchio gufo, del tipo <<Eh, ma come faremo?>>, <<Eh, ma queste generazioni come faranno?>>, <<Eh, ma dove vogliamo andare con un bagaglio sociale e culturale di così basso livello?>>, senza pensare che le inezie musicali esistevano nel 1600 ed esistono oggi e che l'immondizia ha sempre fatto parte di un panorama più ampio. Poi alzo gli occhi e vedo Francesca, coi suoi bracciali, la sua collana da potterhead e la sua maglietta dei Nirvana, intenta a spulciare i vinili. E' allora che realizzo che non dovrei lamentarmi ma essere felice: sembra che qualche strumento per diventare un essere umano più decente a mia sorella sia stato davvero in grado di trasmetterlo.
Mentre Lea era qua, ho avuto modo di rivedere Non ti muovere di (e con) Castellitto, uno di quei brutti film italiani di cui si conserva la memoria solo per ciò che concerne le scene più spinte. Ce lo siamo gustato per intero sul divano di casa sua, con un paio di bottiglie di vino del contadino a lubrificare il nostro spirito critico. Il soggetto in sé non sarebbe neanche male, ma tutta la storia è gestita, interpretata e girata talmente male che a uno spettatore un minimo più esigente rimarrà molto poco impresso. Non ti muovere è un film che racconta la redenzione di un uomo che ha tradito una donna e lo fa offrendo una risoluzione dolorosa e un happy-ending oscenamente cattolico e familista. Non ti muovere è un film in cui spicca Un senso di Vasco Rossi (una canzone che di suo spiccherebbe poco). Non ti muovere rimane impresso più per i vestiti di Penélope Cruz che non per tutto il suo lungo (due ore e passa di pellicola) svolgimento, eppure anche quegli abiti e quei colori di inizio anni Duemila sembrano oggi inguaribilmente vecchi e datati. E poi i suoi migliori costumi la Cruz li aveva già indossati un anno prima, in Masked and Anonymous. Non c'è proprio storia.
Per chi fosse arrivato fin qua e volesse prendere appunti, segue una rassegna della campagna acquisti/ascolti/letture di fine estate 2018.











mercoledì 19 settembre 2018

Rust never sleeps (especially in september) [Extra]

Arrivato a settembre, ho fatto una certa fatica ad accettare di essere ancora vivo. Vivo e  pure relativamente vegeto. 
Nessuno magari ne avrebbe dubitato, ma io sì. Da abile imprenditore nell'arte del fallimento, ho avuto bisogno di scontrarmi col vuoto, di uscire dal blu per entrare nel nero: una volta là, le soluzioni non sono molte, tutte le scelte si riducono a una sconcertante binarietà e l'unico conforto arriva da bislacche e paradossali forme di speranza. 
A fine luglio ho intravisto, di nuovo, una certa luce e ho capito che in me abitava ancora un'anima fresca e smaniosa. Agosto è trascorso fra massacranti ritmi di lavoro, orari sbagliati, ondate di euforia, ore di infinita tristezza e un fiume in piena di parole scritte e dette che si è portato via un mese dove la sopravvivenza è stata l'unico, vero obbiettivo. 
La felicità c'è stata e ovviamente ha sempre avuto la voce e l'aspetto di una donna, magari accompagnata dalla giusta luce, dai giusti sapori, dalla giusta colonna sonora. Come Nello in Thrasher, ho speso tempo cercando i miei compagni in un canyon di cristallo, poi ho capito che per molti di loro non c'è davvero più niente da fare. E così ho fatto l'ennesimo pieno alla macchina (con la carta di credito, ovvio) e sono partito diretto dove l'asfalto diventa sabbia, con in tasca un biglietto di sola andata verso la terra della verità. E se è ancora presto per avvistare il motel dei compagni perduti, quello con la piscina riscaldata e il bar, o per sapere so se anche io finirò col tirare dritto verso il mio filare da zappare (la vendemmia inizia in questo periodo) attraversando biblioteche, musei, stelle e galassie, sono altrettanto certo che il tempo in cui dare a qualcuno ciò che è mio è arrivato ed è ora.