Visto che anche io ne ho scoperto l'opera e la poetica sui banchi di scuola, la notizia dell'inclusione di certi testi deandreiani nei
programmi di letteratura italiana delle scuole superiori non ha destato in me alcuna particolare emozione.
Il professor Biotti, che portava avanti già da molti anni il laboratorio teatrale del mio liceo, affisse per i corridoi un paio di volantini in cui pregava chiunque sapesse o volesse tenere in mano uno strumento di partecipare a una prova pomeridiana che avrebbe riguardato un nuovo progetto. Nikke decise di andare, portandosi dietro il suo ampli Laney e quella che da neanche un anno era la sua inseparabile compagna di vita (niente che fosse composto da ossa, sangue e ciccia, solo una Squier Stratocaster) e io, semplicemente, decisi di accompagnarlo. La prova (non uso il termine "audizione" perchè potrebbe suggerire una professionalità che avrebbe snaturato l'intera operazione) era fissata per le 15:00 nella palestra più piccola, quella che odiavo di più, giacchè, di norma, entrare là dentro significava sempre e solo giocare a pallavolo. E io la pallavolo l'ho sempre odiata.
Eravamo una ventina, quel pomeriggio. Ci sedemmo sul parquet in bamboo, mentre lo sguardo del prof. rimbalzava fra noi e il pavimento. Iniziò lentamente, a voce bassa, un discorso che sembrava portarsi dentro da tempo. <<Ascoltare De Andrè fa bene... fa bene per prima cosa, al cervello, poi al cuore e infine a tutto il resto>>, poi passò a citare riflessioni che <<nessun cantautore aveva mai fatto>> ed estrasse da una grande busta di un negozio di scarpe un paio di grossi cofanetti di dischi e un libro sulla cui copertina svettava il baloon della collana Super Miti della Mondadori. <<Fateli girare, ma non portateveli a casa. A chi volesse approfondire posso masterizzare i dischi e fotocopiare i testi... altrimenti, se potete, comprateveli e studiateveli, meditate, piangete, ridete, crescete...>>. Ecco, grossomodo la faccenda iniziò così.
Di come riuscii a passare l'audizione e a essere reclutato col grado di percussionista (carica che avrei fieramente mantenuto, condividendola con due batteristi molto più seri di me, fino al 2009, suonando concerti fra le province di Siena, Grosseto e Firenze) lo racconterò un'altra volta, ma di quanto, da quel pomeriggio in avanti, le riflessioni e le poesie di De Andrè mi abbiano aiutato a maturare convinzioni molto importanti vorrei scrivere due righe adesso. Pochissimo, infatti, non ho condiviso delle sue posizioni politiche e sociali. Per il nostro primo spettacolo, recante il titolo E ti piace lasciarti ascoltare, mi vidi recapitare una discreta quantità di materiale: quattro compilation che ripercorrevano l'intera epopea deandrèiana, un tributo (largamente discutibile ma pure contenente picchi di assoluta bellezza) registrato a Genova poco dopo la morte del cantautore, pacchi di fotocopie dei testi e un DVD-r contenente il concerto al Teatro Brancaccio di Roma.
Il poco che conoscevo prima della formazione del gruppo era tutto legato alla fase giovanile di Faber. Le traduzioni di Suzanne e Desolation Row (che odiavo), Le passanti (che costituiva un ottimo ponte con Brassens e, in generale, con un certo cantautorato francese che proprio all'epoca iniziavo ad apprezzare), La canzone dell'amore perduto e Bocca di rosa (la versione prog, però, quella catturata in concerto con la PFM) erano fra le poche cose che avevo avuto modo di ascoltare, ed erano tutte sparpagliate in compilation altrettanto variegate. Non avevo idea che la carriera di quest'uomo vantasse i primi esempi di concept-album italiani. Non conoscevo La buona novella (disco che avremmo approfondito molto nei concerti del 2008, riproponendolo spesso integralmente) o lo stupefacente Non al denaro, non all'amore, nè al cielo, nè avevo mai sentito la Storia di un impiegato, che da principio fu l'album che, nella sua interezza, ascoltai maggiormente, quello con cui scattò, magari prevedibilmente, la fatidica scintilla. Pezzi come Canzone del padre, Verranno a chiederti del nostro amore e Nella mia ora di libertà mi portavano a domandarmi quanto- dall'alto dei miei diciassette anni -mi sentissi libero: una questione che mi ha sempre condizionato la vita e a cui ho sempre dato una risposta lapidaria e negativa (nessuno di noi, a mio parere, lo è veramente). Fortuna vuole che per me "essere liberi" non necessariamente coincidesse (e abbia mai coinciso) col "farsi i cazzi propri": seppur cresciuto in un'Italietta già prepotentemente berlusconiana e post-ideologica, mi è stato insegnato ad avere estremo rispetto per i limiti del mio agire, facendoli terminare laddove iniziavano quelli degli altri.
Quando approdai a quelli che solo in tempi recenti ho cominciato a definire i dischi di cosmic italian music, ero già perdutamente innamorato di Faber, e come tutti gli innamorati cercavo di scandagliare il più possibile gli angoli del mio sogno. Ascoltare ogni sfumatura di Rimini, perdersi e ritrovarsi fra i solchi de L'indiano, vincere un consistente quantitativo di preconcetti lasciandosi sempre, nuovamente conquistare da Creuza de ma, abbandonarsi a Le nuvole, commuoversi con Anime salve divennero, in breve tempo, gesti del mio quotidiano. Contrariamente a quanto potrebbero ipotizzare i lettori di questo blog, arrivato ad un fatidico punto di non ritorno della mia vita, non furono Tunnel of Love, Blood on the Tracks, The Boatman's Call o Watertown i miei personali break-up albums. L'ingrato compito, piuttosto, spettò a L'indiano e ai brani ivi contenuti, roba come Hotel supramonte.
Con l'arrivo dell'estate, sempre destinandolo al nostro progetto teatral-musicale, iniziai a disegnare su suggerimento del prof. una serie di illustrazioni destinate ad accompagnare alcune canzoni. <<Cerca qualcosa che le possa collegare, un tratto d'unione, e lavora su quello...>>. Il comun denominatore lo trovai subito: ovviamente, la fica. Nulla di nuovo: con tutta l'umiltà del caso, cercavo di passare laddove erano già stati Guido Crepax o Hugo Pratt. La canzone erotica si faceva immagine di accompagnamento, veniva proiettata nei concerti, quando non direttamente ospitata sulle copertine dei dischi. A me non toccò nulla di tutto questo: le illustrazioni furono presto accantonate per un'idea ben più ambiziosa riguardante La domenica delle salme a fumetti, idea ugualmente naufragata. Avrei suonato nel gruppo fino al 2009.
Il professor Biotti, che portava avanti già da molti anni il laboratorio teatrale del mio liceo, affisse per i corridoi un paio di volantini in cui pregava chiunque sapesse o volesse tenere in mano uno strumento di partecipare a una prova pomeridiana che avrebbe riguardato un nuovo progetto. Nikke decise di andare, portandosi dietro il suo ampli Laney e quella che da neanche un anno era la sua inseparabile compagna di vita (niente che fosse composto da ossa, sangue e ciccia, solo una Squier Stratocaster) e io, semplicemente, decisi di accompagnarlo. La prova (non uso il termine "audizione" perchè potrebbe suggerire una professionalità che avrebbe snaturato l'intera operazione) era fissata per le 15:00 nella palestra più piccola, quella che odiavo di più, giacchè, di norma, entrare là dentro significava sempre e solo giocare a pallavolo. E io la pallavolo l'ho sempre odiata.
Eravamo una ventina, quel pomeriggio. Ci sedemmo sul parquet in bamboo, mentre lo sguardo del prof. rimbalzava fra noi e il pavimento. Iniziò lentamente, a voce bassa, un discorso che sembrava portarsi dentro da tempo. <<Ascoltare De Andrè fa bene... fa bene per prima cosa, al cervello, poi al cuore e infine a tutto il resto>>, poi passò a citare riflessioni che <<nessun cantautore aveva mai fatto>> ed estrasse da una grande busta di un negozio di scarpe un paio di grossi cofanetti di dischi e un libro sulla cui copertina svettava il baloon della collana Super Miti della Mondadori. <<Fateli girare, ma non portateveli a casa. A chi volesse approfondire posso masterizzare i dischi e fotocopiare i testi... altrimenti, se potete, comprateveli e studiateveli, meditate, piangete, ridete, crescete...>>. Ecco, grossomodo la faccenda iniziò così.
Di come riuscii a passare l'audizione e a essere reclutato col grado di percussionista (carica che avrei fieramente mantenuto, condividendola con due batteristi molto più seri di me, fino al 2009, suonando concerti fra le province di Siena, Grosseto e Firenze) lo racconterò un'altra volta, ma di quanto, da quel pomeriggio in avanti, le riflessioni e le poesie di De Andrè mi abbiano aiutato a maturare convinzioni molto importanti vorrei scrivere due righe adesso. Pochissimo, infatti, non ho condiviso delle sue posizioni politiche e sociali. Per il nostro primo spettacolo, recante il titolo E ti piace lasciarti ascoltare, mi vidi recapitare una discreta quantità di materiale: quattro compilation che ripercorrevano l'intera epopea deandrèiana, un tributo (largamente discutibile ma pure contenente picchi di assoluta bellezza) registrato a Genova poco dopo la morte del cantautore, pacchi di fotocopie dei testi e un DVD-r contenente il concerto al Teatro Brancaccio di Roma.
Ferru plays FdA (Follonica, GR, giugno 2008) |
Una delle illustrazioni che avrebbero dovuto accompagnare Hotel Supramonte fra 2007 e 2008. |
Il
rispetto per il poeta e l'artista non si è mai scalfito. Certo, ho
passato anni interi senza ascoltarne mezza canzone, ma quei pensieri,
quel senso della poesia non mi hanno mai abbandonato. Mi sono
sforzato- e credo di esserci riuscito -nel non diventare mai uno di
questi presunti "proprietari della cultura", ovvero
personaggi che sospirano <<Ah, il Faber...>> prima di
svenire. Oggi, parimenti a molti altri colleghi suoi, il feretro di
De Andrè è tirato per la giacchetta da chiunque (eloquente
l'esempio di Matteo Salvini, secondo il quale "la musica
italiana inizia e finisce con Fabrizio De Andrè"), nessuno lo
lascia in pace, nè sembra volerne rispettare lascito ed eredità. I
familiari sono il primo esempio: le ambigue dichiarazioni di Dori
Ghezzi e l'atteggiamento in cui si mescolano, odio, invidia e
sudditanza del figlio Cristiano (a proposito, il suo Scaramante è
un ottimo disco) non conoscono tregua. Gli odiosi tributi organizzati
annualmente in Sardegna da qualche facoltoso milanese proprietario di
mezza Costa Smeralda (il tutto, ovviamente, con la complicità di
amministratori esibizionisti e di tutta la boria jazzofila italica)
non hanno migliorato le cose. La massacrante, narcisistica
celebrazione messa in atto a più riprese da Fabio Fazio nei suoi
osceni programmi televisivi ha infine dirottato il canzoniere
deandreiano verso lidi più nazional-popolari e lì il cadavere
sembra essersi irreversibilmente arenato. Non ho visto (per motivi di
tempo) Il
principe libero, la fiction amabilmente
camuffata da biopic uscita
pochi giorni fa, ma l'idea di buttare giù queste righe mi è stata
fornita proprio da quella. Conto comunque di recuperarla nella futura
messa in onda di RAI1. Inutile dire che ho molto poca fiducia
nell'operazione e che del De Andrè che parla romanesco mentre va a
puttane nei vicoletti di Genova col suo amico Paolo Villaggio mi
interessa fino a un certo punto.
Circa
tre anni fa, ero a Siena per delle commissioni e mi capitò di
entrare in una libreria in via di Camollia perchè in vetrina
tenevano un libro che mi interessava. Il negozio si chiamava
Cartazucchero e, come scoprii non appena misi piede al suo interno,
comprendeva anche una caffetteria e una sala lettura. Un locale non
originalissimo (in Olanda avevo visto attività analoghe anche nelle
più estreme periferie portuali), ma che comunque era stato in grado
di attirare la mia attenzione. La libreria si rivelò subito ben
fornita, tant'è che, oltre a quello della vetrina, presi altri due
volumi. L'ambiente odorava di nuovo, i mobili erano di quelli belli e
costosi, sedie e tavoli abilmente invecchiati, libri e bignet
mescolati senza darsi fastidio. Nonostante pagassi in denaro contante
e non avessi ficcato le dita negli occhi a nessuno dei due
commessi/baristi, in cambio ricevetti solo maleducazione e arroganza.
Rimasi colpito da quanta supponenza potessero emanare due bottegai
che, fondamentalmente, vendevano libri usati e rimpiansi subito di
aver contribuito al loro benessere piuttosto che a quello di qualche
modesto gestore di mercatino dell'usato (un franchising cui
sono legato da molto tempo). Mentre maledivo loro e il loro modo
spudorato di tirarsela, mi cadde l'occhio su ciò che tenevano
esposto di fianco alla cassa: un tomo fotografico costosissimo
incentrato su paesi poverissimi e il cui ricavato veniva devoluto a
Save the Children, l'ultimo (magari lo fosse stato davvero) disco di
Jovanotti (per giunta doppio e in edizione limitata) e infine, tenuto
in bilico più di tutto il resto, un libricino di "ricette di
viaggio" recante l'inedito titolo Per
chi viaggia in direzione ostinata e contraria.
Uscii rassegnato all'idea che la condizione post-mortem di
Faber dovesse per forza di cose somigliare ad un'ininterrotta serie
di rotture di palle e mancanze di rispetto. Da quel giorno non sono
più entrato in quella libreria, chiaramente. Ma devo anche ammettere
che non ho mai più smesso di ascoltare la musica e le poesie di
Fabrizio De Andrè.
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