Se era difficile, per me, pensare a un 2018 prospettivamente superiore
al 2017 (in ambito musicale), sono stato prontamente smentito: dapprima,
la notizia di un sostanzioso frammento di Never Ending Tour
comprendente sette date e quattro città italiane (Roma, Firenze,
Mantova, Milano), e pochi giorni dopo gli appuntamenti della seconda
edizione di Firenze Rocks, che quest'anno cresce e regala gioie. La
scorsa estate, rinunciai ad andare a vedere gli Aerosmith: non che fossi
pentito (avrei visto gli Stones due mesi dopo), ma un minimo di
curiosità mi era rimasta, più per l'evento che per altro. Ma- se si è
persone con un minimo di cervello e una viscerale passione per la musica
-come si può osservare il cartellone su cui si susseguono i nomi di Foo
Fighters, Guns N'Roses, Iron Maiden e Ozzy Osbourne senza metter mano
al portafogli? Le persone più avvedute e di bocca buona hanno sborsato
270€ per l'abbonamento: in pratica, paghi l'equivalente di tre concerti
su quattro, compri il biglietto con qualche giorno di anticipo e non hai
da litigare con app che non funzionano, terminali in tilt,
distribuzioni delinquenziali, ecc.; scelta legittima, ma onestamente non
saprei davvero di cosa farmene, considerando che provo fatica già solo
pensando di trascorrere quattro giorni alle Cascine e che delle quattro
serate ritengo imperdibile quella dei GNR, appetibile quella dei Maiden,
trascurabile quella dei Foo Fighters e del tutto inutile quella di
Ozzy. Ovviamente, su Facebook e sulla carta stampata se ne leggono di
tutti i colori, anche se fa piacere veder superate alcune lamentele sul
caro-prezzi (che poi la gente può dire quello che le pare, ma io ho
speso meno dell'anno scorso a Imola). Finisco in una polemica (della cui
nascita verrò paradossalmente additato fra i principali responsabile) del tipo "mainstream contro underground", roba che mi fa convincere, per alcuni secondi, di essere finito in una puntata della serie Ai confini della realtà.
Nonostante i toni assumano, a tratti, quelli di un'ipotetica mitologia
becera, cerco di mantenere fermezza, lucidità e senso della grammatica,
così da poter argomentare al meglio le mie ragioni. Leggo delle cazzate
interminabili, piagnistei sui tutti i grandi gruppi che, per rimanere
"puri", rinunciano a un maggior successo di pubblico e ciò fa di loro
delle persone e degli artisti intrinsecamente migliori. Eppure a me
sembra così semplice accettare, quando si parla di
musica, che la fama e il successo non hanno necessariamente alcun rapporto con il valore
artistico: o meglio, può capitare che lo abbiano, ma la discografia è
un'industria con le sue regole precise ed è chiaro che ciò che essa fa emergere e ciò che poi, sempre grazie alla stessa,
diventa popolare è solo una piccola parte, la punta dell'iceberg di
un mondo
musicale vasto come l'oceano e spesso sotterraneo. Sono il primo a
conoscere, ascoltare e apprezzare centinaia di
band del mondo che hanno prodotto migliaia di canzoni di cui solo l'1%
della popolazione è e sarà mai a conoscenza. Una scena musicale sommersa
che abbraccia ogni genere e che è totalmente ignorata dalla massa.
Quindi, ha senso tracciare paragoni improbabili, vantarsi di preferire
al biglietto per Firenze Rocks da ottanta euro un concerto in un centro
sociale da ingresso a cinque euro (bevuta compresa)? Per me, no, perchè
altrimenti restiamo ai livelli del gioco del "miglior gruppo", del
"miglior chitarrista" o del "miglior cantante". Perfino in questi ultimi
casi che ho portato a estremo esempio finiamo comunque col parlare di
ciò che è emerso e che ha trovato un riscontro discografico, ma non
potrà mai fungere da valutazione oggettiva, in quanto la
serie A della musica rock è composta per antonomasia da band
americane e inglesi. Un discorso vecchio, usurato, tremendamente ovvio, o
almeno così credevo fino a pochi giorni fa. Che se ne facciano una
ragione i difensori dell'underground da sagra del brigidino:
quelli per cui, fino all'altro ieri, il problema era che nessuno compra
più i dischi, che le nuove generazioni non ascoltano il rock, o
che nella loro regione non viene mai nessuno a suonare. Credo che queste persone (fra cui voglio inserirmi pure io) dovrebbero dotarsi di maggiore umiltà e iniziare e rivedere le proprie
opinioni sul rock and roll come spettacolo e come fenomeno
culturale. Capisco che possa essere difficile, perché noi, il rock, lo abbiamo sempre visto da troppo
lontano, ma è uno sforzo che vale la pena fare. Ma torniamo al
vivo della materia trattata, ossia il festival fiorentino della prossima
estate, che tradotto in bellesiano significa- tagliamo la testa al toro -i Guns N'Roses a un'ora da
casa mia, cristo! Sono già partite le battute su Axl grasso? Ovvio.
Proseguono le illazioni su una reunion (che reunion non è)
fatta per i soldi? Ma è chiaro! Mi piacerebbe poter aggiungere una
terza domanda, ma i punti finiscono qui, perchè tanto queste due cose sa
pronunciare il popolo bue quando si parla di GNR: ciò che appare (la forma,
la superficie, l'avvenenza) e i quattrini. E il fatto che nessun dio si
prenda la briga di fulminare le capre ignoranti che ammorbano la rete e
la realtà è soltanto l'ennesima dimostrazione che non esiste dio
alcuno, almeno in questo universo. Si possono criticare quanto vogliamo
le scelte artistiche di una determinata band, ma, fino a prova
contraria, un gruppo non finisce quando lo dicono i fans, ma quando lo
vogliono i suoi componenti. Il Nikke, di contro, ha i biglietti (stesso
prezzo, stesso settore) per i Foo Fighters. Suonano il giorno prima,
trainano il nuovo, disdicevole Concrete and Gold e, al momento in
cui scrivo, rappresentano la serata di maggior successo su un piano di
vendite. Conosco poco i Foo dal vivo. Immagino che lavorino come i Guns o
i Pearl Jam e non disdegnino tenere concerti lunghi dalle due alle tre
ore, intrisi di pathos, con la giusta misura di vecchi classici e covers ma un minor spazio dedicato a ciò che, a mio avviso, legittima l'esistenza della musica live: improvvisazione, sorprese, qualche novità. Insomma, piano-barismo rock di
ottima fattura, anche se la loro incostanza è arcinota (su Facebook
magari non lo leggerete, ma affacciatevi in qualche forum e vi renderete
che non tutto è oro quel che luccica) e ai miei occhi rimangono la band presa per il culo sulla pagina I Foo Fighters che fanno cose buone. Ad esempio, Sofi, che i Foo Fighters li ama davvero, ha il DVD di un concerto a Wembley che si conclude con Rock & Roll dei
Led Zeppelin suonata da Grohl alla batteria, Jimmy Page alla chitarra,
John Paul Jones al basso e Taylor Hawkins alla voce ed è una delle più
brutte versioni di questo brano mai registrate. Molto più interessanti, a
confronto, nella veste acustica di Skin and Bones. E poi Dave
Grohl a me tutto questo gran pozzo di spontaneità non sembra: anzi, lo
trovo uno dei personaggi più costruiti e artefatti del rockstar system odierno. Non vogliatemene, perciò, se i Foo Fighters li mando affanculo
in maniera più che cordiale, indicando loro pure la direzione, e magari concedo il beneficio del dubbio alle vergini di ferro. Per carità, se Dave Grohl e amici non inforcano il giusto album da un decennio, gli Iron Maiden non pubblicano un capolavoro di inedite da oltre trent'anni. Qualche vagito in Fear of the Dark, un paio di buoni pezzi su A Brave New World e poi il vuoto. Eppure sono i Maiden, fautori di uno show musicale che è tutto un programma. Bruce Dickinson non ha più voce? Janick Gers potrebbe non esistere? Steve Harris è imbolsito? Chissene: andare al concerto costerebbe sette euro in più rispetto a quattordici anni fa. Allora toccò al Mandela ospitarli, il tour era quello di Dance of Death, gli Irons erano ancora il mio gruppo preferito e io di rado, nella vita, sono stato parimenti invidioso come lo fui di quei ragazzi di uno, due anni più grandi di me che riuscirono a convincere le famiglie ad accordar loro il permesso di andare.
Mi sarebbe piaciuto molto scrivere qualcosa su Oh, vita, nuovo singolo di Lollo Cherubini volto ad anticipare il chiacchieratissimo album dal titolo analogo prodotto da Rick Rubin. Tuttavia, devo invocare il perdono dei lettori: sto ancora cercando per terra i coglioni, che mi sono caduti dopo qualche secondo di ascolto.
X-Factor (e le schegge che fuoriescono da esso intaccando la realtà pure di chi non lo segue) assume sempre di più le fattezze di un lungo incubo. Sono arrivato al punto in cui mi basta leggere un titolo (l'articolo in sè non è poi granchè) del Fatto Quotidiano che critica Levante per scoppiare a ridere e abbandonarmi a qualche secondo di godimento. Se sin dall'adolescenza mi sono crucciato nel vedere Manuel Agnelli e gli Afterhours liberi di muoversi nel mondo e non in catene lungo una linea ferroviaria in costruzione, con la reinterpretazione di Non è per sempre da parte di Wilma de Angelis si tornano a sondare gli abissi dello sterco. Manuel, magari- dagli attici dell'alta qualità nei quali è convinto di albergare -per qualche minuto si è sentito come Rick Rubin quando mostrò per la prima volta lo spartito di Hurt dei Nine Inch Nails a Johnny Cash e gli propose di inciderne una sua versione, ma qui siamo più dalle parti dei fratelli Vanzina.
Basta seguire su Facebook un paio di pagine americane dedicate ai Grateful Dead per innervosirsi subito. Spesso e volentieri, i miei occhi passano in rassegna una lunga carrellata di oggetti, ascolti, visioni che bramo ma a cui devo resistere. Lasciando perdere le Dave's Picks- che comunque scarico in .flac e ascolto con certosina puntualità -l'argomento box-sets e deluxe edition dei Dead è ampio, complesso e scarsamente affrontato (nel nostro paese, of course). Oggettivamente, di fronte a certa roba, l'unica domanda che mi pongo è <<Ma chi se lo prende questo?>>, e mi riferisco a merce di fascia collector's che trova distribuzione anche da noi o ai costosissimi vinili 180 gr. mandati nei negozi di dischi per il Record Store. Me lo chiedo anche mentre estraggo il file zippato contenente il nuovissimo RFK Stadium, Washington D.C., July 12&13 1989 (Rhino Records, 6 cd ), io che mi definisco un deadhead per farmi due risate, mica sul serio. Infatti, anche restringendo il campo a quelle fasi della carriera del gruppo che mi interessano maggiormente (1969-1972, 1975-1978, 1987-1995 gli squarci temporali che preferisco), il numero di uscite previste o già sul mercato dedicate al gruppo sono comunque troppe. Sei cd poi sono tanti da affrontare, specie se si è reduci da quasi due settimane dedicate agli otto di Trouble No More Deluxe Edition di Bob Dylan (peraltro uno dei migliori acquisti musicali "di peso" che ricorderemo del 2017). Ad ogni modo, Pensare ai tardi anni Ottanta dei Grateful Dead significa tante cose: anzi tutto, un nuovo, provocatorio modo di registrare i dischi e l'idea di trasportare questo new sound sui palchi, le imprudenti escursioni nei territori dei videoclip, l'insperata conquista di un'intera nuova generazione di freaks, le liti plateali fra Jerry Garcia e una stampa specializzata rea di non accordare al gruppo neanche un barlume di fiducia (leggete recensioni d'epoca e voti destinati a meravigliosi album come In the Dark o Built to Last, poi ascoltateli e mettetevi a ridere), ma, soprattuto, tante avventure live peraltro già ben documentate grazie a decine di uscite ufficiali. Ecco, appunto, i Grateful Dead di fine '80 sembrano i personaggi di una saga dostoevskijiana più che un nutrito gruppo di mezza età con sulle spalle il peso dei vari Aoxomoxoa e dei Live/Dead. Questi due concerti all'RFK Stadium lo spiegano benissimo: l'ascolto è un fiume in piena che attraversa un repertorio che, allora, aveva da poco compiuto un quarto di secolo. Senza contare che il pretesto del tour era la promozione di Built to Last, vertice- ahimè, in tutti i sensi -della carriera in studio del gruppo, un disco che ad oggi funziona ancora alla grande, pieno com'è di canzoni che ardono come fiamme, piene di energia e di idee. Non ci credete? Tentate l'ascolto.
Mi sarebbe piaciuto molto scrivere qualcosa su Oh, vita, nuovo singolo di Lollo Cherubini volto ad anticipare il chiacchieratissimo album dal titolo analogo prodotto da Rick Rubin. Tuttavia, devo invocare il perdono dei lettori: sto ancora cercando per terra i coglioni, che mi sono caduti dopo qualche secondo di ascolto.
Basta seguire su Facebook un paio di pagine americane dedicate ai Grateful Dead per innervosirsi subito. Spesso e volentieri, i miei occhi passano in rassegna una lunga carrellata di oggetti, ascolti, visioni che bramo ma a cui devo resistere. Lasciando perdere le Dave's Picks- che comunque scarico in .flac e ascolto con certosina puntualità -l'argomento box-sets e deluxe edition dei Dead è ampio, complesso e scarsamente affrontato (nel nostro paese, of course). Oggettivamente, di fronte a certa roba, l'unica domanda che mi pongo è <<Ma chi se lo prende questo?>>, e mi riferisco a merce di fascia collector's che trova distribuzione anche da noi o ai costosissimi vinili 180 gr. mandati nei negozi di dischi per il Record Store. Me lo chiedo anche mentre estraggo il file zippato contenente il nuovissimo RFK Stadium, Washington D.C., July 12&13 1989 (Rhino Records, 6 cd ), io che mi definisco un deadhead per farmi due risate, mica sul serio. Infatti, anche restringendo il campo a quelle fasi della carriera del gruppo che mi interessano maggiormente (1969-1972, 1975-1978, 1987-1995 gli squarci temporali che preferisco), il numero di uscite previste o già sul mercato dedicate al gruppo sono comunque troppe. Sei cd poi sono tanti da affrontare, specie se si è reduci da quasi due settimane dedicate agli otto di Trouble No More Deluxe Edition di Bob Dylan (peraltro uno dei migliori acquisti musicali "di peso" che ricorderemo del 2017). Ad ogni modo, Pensare ai tardi anni Ottanta dei Grateful Dead significa tante cose: anzi tutto, un nuovo, provocatorio modo di registrare i dischi e l'idea di trasportare questo new sound sui palchi, le imprudenti escursioni nei territori dei videoclip, l'insperata conquista di un'intera nuova generazione di freaks, le liti plateali fra Jerry Garcia e una stampa specializzata rea di non accordare al gruppo neanche un barlume di fiducia (leggete recensioni d'epoca e voti destinati a meravigliosi album come In the Dark o Built to Last, poi ascoltateli e mettetevi a ridere), ma, soprattuto, tante avventure live peraltro già ben documentate grazie a decine di uscite ufficiali. Ecco, appunto, i Grateful Dead di fine '80 sembrano i personaggi di una saga dostoevskijiana più che un nutrito gruppo di mezza età con sulle spalle il peso dei vari Aoxomoxoa e dei Live/Dead. Questi due concerti all'RFK Stadium lo spiegano benissimo: l'ascolto è un fiume in piena che attraversa un repertorio che, allora, aveva da poco compiuto un quarto di secolo. Senza contare che il pretesto del tour era la promozione di Built to Last, vertice- ahimè, in tutti i sensi -della carriera in studio del gruppo, un disco che ad oggi funziona ancora alla grande, pieno com'è di canzoni che ardono come fiamme, piene di energia e di idee. Non ci credete? Tentate l'ascolto.
Nel giro di pochi giorni, lasciano il nostro mondo e vanno a bruciare all'inferno (anche se preferirei saperli come Jack-o'-lantern, ma senza la zucca) Totò Riina e Charles Manson. Due guru, due criminali, due anziani sopravvissuti relativamente bene al dolore che hanno arrecato ad altri esseri umani e al mondo. Ieri sera, al TG1, commentavano la scomparsa di Manson alternando ad una famosa intervista scene estratte sia da Woodstock che da Gimme Shelter (forse più adatto) e con, in sottofondo, la cover di Look at Your Game, Girl dei Guns. <<Cazzarola>>, penso, <<se per metter su un po' di buona musica al TG1 devono aspettare che muoia Charles Manson, son messi proprio male...>>. Quando i giornali avevano dato notizia del suo ricovero in fin di vita presso un ospedale californiano, mi erano rimbalzate in testa le parole di Dylan in Masters of War, quelle in cui dice "And I'll watch while you're lowered into your deathbed/ And I'll stand on your grave till I'm sure that you're dead". Nemico numero uno della musica (in senso letterale e non figurato come Gigi d'Alessio), fu amico e "scoperta" di Dennis Wilson dei Beach Boys e venne definito da Neil Young "non tanto un cantautore quanto uno sputa-canzoni". Fu proprio il rifiuto di un famoso discografico a cui Wilson lo aveva raccomandato a scatenare la furia vendicativa di Manson. La vendetta sarebbe sfociata nella strage di Bel Air, da lui pianificata e ordinata. Neil Young rimase talmente sconvolto dal riconoscere nel mandante degli omicidi quel bizzarro, mingherlino hippie fallito da farlo tornare sulla questione più volte nel corso dei decenni successivi. Ne Il sogno di un hippie (Feltrinelli, 2012) dedica alcune righe al loro casuale incontro, ma vale la pena rispolverare un'intervista del 2008 in cui- alla faccia dei "giorni di pace, amore e musica" -descrive quell'epoca come "tempi spettrali. Conoscevo Charlie Manson. Alcune persone stavano in questa casa sul Sunset Boulevard, e c'era diversa gente. Non sapevo chi fosse. Me lo presentarono e lui non era un tipo felice, ma sembrava avere presa sulle ragazze. Era il lato oscuro del Maharishi. Sapete,
c'è un lato luminoso, quello dei bei fiori, delle vesti candide e di tutto il resto, e
poi c'è qualcosa che sembra molto simile ma non lo è affatto". Di lui, si dice, parla l'ultima strofa ("I
never knew a man could tell so many lies/ He had a different story for
every set of eyes/ How can he remember who he's talking to?/ Cause I
know it ain't me, and hope it isn't you") di Ambulance Blues, epitafio di quei "tempi spettrali" e degna conclusione di un altrettanto indispensabile capolavoro. Certi pomeriggi tardo autunnali sembrano inventati per stare in casa ad
ascoltare proprio dischi come questo, di cui val la pena continuare a seguire ogni istante, ogni
nota, ogni parola. Capire On the Beach, perdersi nei suoi simboli, nella sua cristallina perfezione è
come entrare in un universo parallelo: una volta fatto, ogni altro testo
e qualsiasi altro cantautore sembrano banali.
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