In breve. Faccio fatica a comprendere la natura di The Visitor, trentottesimo disco in studio di Neil Young. Non è per la sua bruttissima copertina, nè per la scelta dei Promise of the Real come backing band (a loro, ormai, tocca rassegnarsi), ma proprio per le motivazioni che spingono, da tre lustri abbondanti, un fuoriclasse del calibro di Young a prodigarsi in pubblicazioni scialbe, prive di spessore, mediocri. The Visitor, parimenti a Earth, Monsanto Years, A letter Home, Storytone, Fork in the Road, Chrome Dreams II o Living with War, non sembra destinato a lasciare il segno nella produzione della terza età del canadese. Capisco anche che non si possa pretendere, da una rockstar settantenne, un Prairie Wind l'anno, un secondo Le Noise o un ulteriore, incredibile, doppio come Psychedelic Pills. Ma allora che senso ha, per un legacy artist che da tempo "promette di regalare oceani", illudere e deludere il proprio pubblico con dischi in tutto e per tutto simili a un lungo riempitivo? Certo, Carnival è talmente inconsueta (per Young, non per Ry Cooder o i Los Lobos o i Doors) da risultare perfino accattivante a un primo ascolto: fosse durata meno, sarebbe stata perfino bella. Change of Heart ora conquista (l'unica a riuscirci), ma fra un mese ce la farò ad ascoltarla senza rompermi i coglioni? Vorrei sottolineare che amo Neil Young: senza i suoi album del periodo 1969-1979 (nessuno escluso) potrei vivere, ma vivrei male. Anche Deja-vù, Four Way Street (inarrivabili esempi del sodalizio con Crosby, Stills e Nash) e Long May You Run (a firma Stills-Young Band) mi hanno aiutato e continuano tuttora a farmi galleggiare meglio nelle acque torbide dell'esistenza. Tuttavia, sono cinque anni che non compro un suo album "nuovo", perchè non ne trovo il senso. Passa dall'Italia, tiene concerti che sembrano pure essere molto belli, ma non vado a sentirli, perchè mi evito volentieri il cordoglio di vederlo capitanare una squadra di pischelli, una band dal basso profilo e priva di personalità. So che l'ha scelta lui, ma è una scelta che non mi sento di condividere, specie dopo aver ascoltato i desolanti risultati discografici degli ultimi due anni. Neil resta un gigante, per la sua statura musicale, per il suo songwriting, per
la sua concezione di come debba essere il suono di una chitarra, per la
sua idea di rock in senso stretto. Ma The Visitor è fonte di imbarazzo sia per lui (che lo ha scritto), che per noi (che lo ascoltiamo).
Se era difficile, per me, pensare a un 2018 prospettivamente superiore
al 2017 (in ambito musicale), sono stato prontamente smentito: dapprima,
la notizia di un sostanzioso frammento di Never Ending Tour
comprendente sette date e quattro città italiane (Roma, Firenze,
Mantova, Milano), e pochi giorni dopo gli appuntamenti della seconda
edizione di Firenze Rocks, che quest'anno cresce e regala gioie. La
scorsa estate, rinunciai ad andare a vedere gli Aerosmith: non che fossi
pentito (avrei visto gli Stones due mesi dopo), ma un minimo di
curiosità mi era rimasta, più per l'evento che per altro. Ma- se si è
persone con un minimo di cervello e una viscerale passione per la musica
-come si può osservare il cartellone su cui si susseguono i nomi di Foo
Fighters, Guns N'Roses, Iron Maiden e Ozzy Osbourne senza metter mano
al portafogli? Le persone più avvedute e di bocca buona hanno sborsato
270€ per l'abbonamento: in pratica, paghi l'equivalente di tre concerti
su quattro, compri il biglietto con qualche giorno di anticipo e non hai
da litigare con app che non funzionano, terminali in tilt,
distribuzioni delinquenziali, ecc.; scelta legittima, ma onestamente non
saprei davvero di cosa farmene, considerando che provo fatica già solo
pensando di trascorrere quattro giorni alle Cascine e che delle quattro
serate ritengo imperdibile quella dei GNR, appetibile quella dei Maiden,
trascurabile quella dei Foo Fighters e del tutto inutile quella di
Ozzy. Ovviamente, su Facebook e sulla carta stampata se ne leggono di
tutti i colori, anche se fa piacere veder superate alcune lamentele sul
caro-prezzi (che poi la gente può dire quello che le pare, ma io ho
speso meno dell'anno scorso a Imola). Finisco in una polemica (della cui
nascita verrò paradossalmente additato fra i principali responsabile) del tipo "mainstream contro underground", roba che mi fa convincere, per alcuni secondi, di essere finito in una puntata della serie Ai confini della realtà.
Nonostante i toni assumano, a tratti, quelli di un'ipotetica mitologia
becera, cerco di mantenere fermezza, lucidità e senso della grammatica,
così da poter argomentare al meglio le mie ragioni. Leggo delle cazzate
interminabili, piagnistei sui tutti i grandi gruppi che, per rimanere
"puri", rinunciano a un maggior successo di pubblico e ciò fa di loro
delle persone e degli artisti intrinsecamente migliori. Eppure a me
sembra così semplice accettare, quando si parla di
musica, chela fama e il successo non hanno necessariamente alcun rapporto con il valore
artistico: o meglio, può capitare che lo abbiano, ma la discografia è
un'industria con le sue regole precise ed è chiaro che ciò che essa fa emergere e ciò che poi, sempre grazie alla stessa,
diventa popolare è solo una piccola parte, la punta dell'iceberg di
un mondo
musicale vasto come l'oceano e spesso sotterraneo. Sono il primo a
conoscere, ascoltare e apprezzare centinaia di
band del mondo che hanno prodotto migliaia di canzoni di cui solo l'1%
della popolazione è e sarà mai a conoscenza. Una scena musicale sommersa
che abbraccia ogni genere e che è totalmente ignorata dalla massa.
Quindi, ha senso tracciare paragoni improbabili, vantarsi di preferire
al biglietto per Firenze Rocks da ottanta euro un concerto in un centro
sociale da ingresso a cinque euro (bevuta compresa)? Per me, no, perchè
altrimenti restiamo ai livelli del gioco del "miglior gruppo", del
"miglior chitarrista" o del "miglior cantante". Perfino in questi ultimi
casi che ho portato a estremo esempio finiamo comunque col parlare di
ciò che è emerso e che ha trovato un riscontro discografico, ma non
potrà mai fungere da valutazione oggettiva, in quanto la
serie A della musica rock è composta per antonomasia da band
americane e inglesi. Un discorso vecchio, usurato, tremendamente ovvio, o
almeno così credevo fino a pochi giorni fa. Che se ne facciano una
ragione i difensori dell'underground da sagra del brigidino:
quelli per cui, fino all'altro ieri, il problema era che nessuno compra
più i dischi, che le nuove generazioni non ascoltano il rock, o
che nella loro regione non viene mai nessuno a suonare. Credo che queste persone (fra cui voglio inserirmi pure io) dovrebbero dotarsi di maggiore umiltà e iniziare e rivedere le proprie
opinioni sul rock and roll come spettacolo e come fenomeno
culturale. Capisco che possa essere difficile, perché noi, il rock, lo abbiamo sempre visto da troppo
lontano, ma è uno sforzo che vale la pena fare. Ma torniamo al
vivo della materia trattata, ossia il festival fiorentino della prossima
estate, che tradotto in bellesiano significa- tagliamo la testa al toro -i Guns N'Roses a un'ora da
casa mia, cristo! Sono già partite le battute su Axl grasso? Ovvio.
Proseguono le illazioni su una reunion (che reunion non è)
fatta per i soldi? Ma è chiaro! Mi piacerebbe poter aggiungere una
terza domanda, ma i punti finiscono qui, perchè tanto queste due cose sa
pronunciare il popolo bue quando si parla di GNR: ciò che appare (la forma,
la superficie, l'avvenenza) e i quattrini. E il fatto che nessun dio si
prenda la briga di fulminare le capre ignoranti che ammorbano la rete e
la realtà è soltanto l'ennesima dimostrazione che non esiste dio
alcuno, almeno in questo universo. Si possono criticare quanto vogliamo
le scelte artistiche di una determinata band, ma, fino a prova
contraria, un gruppo non finisce quando lo dicono i fans, ma quando lo
vogliono i suoi componenti. Il Nikke, di contro, ha i biglietti (stesso
prezzo, stesso settore) per i Foo Fighters. Suonano il giorno prima,
trainano il nuovo, disdicevole Concrete and Gold e, al momento in
cui scrivo, rappresentano la serata di maggior successo su un piano di
vendite. Conosco poco i Foo dal vivo. Immagino che lavorino come i Guns o
i Pearl Jam e non disdegnino tenere concerti lunghi dalle due alle tre
ore, intrisi di pathos, con la giusta misura di vecchi classici e covers ma un minor spazio dedicato a ciò che, a mio avviso, legittima l'esistenza della musica live: improvvisazione, sorprese, qualche novità. Insomma, piano-barismo rock di
ottima fattura, anche se la loro incostanza è arcinota (su Facebook
magari non lo leggerete, ma affacciatevi in qualche forum e vi renderete
che non tutto è oro quel che luccica) e ai miei occhi rimangono la band presa per il culo sulla pagina I Foo Fighters che fanno cose buone. Ad esempio, Sofi, che i Foo Fighters li ama davvero, ha il DVD di un concerto a Wembley che si conclude con Rock & Roll dei
Led Zeppelin suonata da Grohl alla batteria, Jimmy Page alla chitarra,
John Paul Jones al basso e Taylor Hawkins alla voce ed è una delle più
brutte versioni di questo brano mai registrate. Molto più interessanti, a
confronto, nella veste acustica di Skin and Bones. E poi Dave
Grohl a me tutto questo gran pozzo di spontaneità non sembra: anzi, lo
trovo uno dei personaggi più costruiti e artefatti del rockstar system odierno. Non vogliatemene, perciò, se i Foo Fighters li mando affanculo
in maniera più che cordiale, indicando loro pure la direzione, e magari concedo il beneficio del dubbio alle vergini di ferro. Per carità, se Dave Grohl e amici non inforcano il giusto album da un decennio, gli Iron Maiden non pubblicano un capolavoro di inedite da oltre trent'anni. Qualche vagito in Fear of the Dark, un paio di buoni pezzi su A Brave New World e poi il vuoto. Eppure sono i Maiden, fautori di uno show musicale che è tutto un programma. Bruce Dickinson non ha più voce? Janick Gers potrebbe non esistere? Steve Harris è imbolsito? Chissene: andare al concerto costerebbe sette euro in più rispetto a quattordici anni fa. Allora toccò al Mandela ospitarli, il tour era quello di Dance of Death, gli Irons erano ancora il mio gruppo preferito e io di rado, nella vita, sono stato parimenti invidioso come lo fui di quei ragazzi di uno, due anni più grandi di me che riuscirono a convincere le famiglie ad accordar loro il permesso di andare.
Mi sarebbe piaciuto molto scrivere qualcosa su Oh, vita, nuovo singolo di Lollo Cherubini volto ad anticipare il chiacchieratissimo album dal titolo analogo prodotto da Rick Rubin. Tuttavia, devo invocare il perdono dei lettori: sto ancora cercando per terra i coglioni, che mi sono caduti dopo qualche secondo di ascolto.
X-Factor (e le schegge che fuoriescono da esso intaccando la realtà pure di chi non lo segue) assume sempre di più le fattezze di un lungo incubo. Sono arrivato al punto in cui mi basta leggere un titolo (l'articolo in sè non è poi granchè) del Fatto Quotidiano che critica Levante per scoppiare a ridere e abbandonarmi a qualche secondo di godimento. Se sin dall'adolescenza mi sono crucciato nel vedere Manuel Agnelli e gli Afterhours liberi di muoversi nel mondo e non in catene lungo una linea ferroviaria in costruzione, con la reinterpretazione di Non è per sempre da parte di Wilma de Angelis si tornano a sondare gli abissi dello sterco. Manuel, magari- dagli attici dell'alta qualità nei quali è convinto di albergare -per qualche minuto si è sentito come Rick Rubin quando mostrò per la prima volta lo spartito di Hurt dei Nine Inch Nails a Johnny Cash e gli propose di inciderne una sua versione, ma qui siamo più dalle parti dei fratelli Vanzina.
Basta seguire su Facebook un paio di pagine americane dedicate ai Grateful Dead per innervosirsi subito. Spesso e volentieri, i miei occhi passano in rassegna una lunga carrellata di oggetti, ascolti, visioni che bramo ma a cui devo resistere. Lasciando perdere le Dave's Picks- che comunque scarico in .flac e ascolto con certosina puntualità -l'argomento box-sets e deluxe edition dei Dead è ampio, complesso e scarsamente affrontato (nel nostro paese, of course). Oggettivamente, di fronte a certa roba, l'unica domanda che mi pongo è <<Ma chi se lo prende questo?>>, e mi riferisco a merce di fascia collector's che trova distribuzione anche da noi o ai costosissimi vinili 180 gr. mandati nei negozi di dischi per il Record Store. Me lo chiedo anche mentre estraggo il file zippato contenente il nuovissimo RFK Stadium, Washington D.C., July 12&13 1989 (Rhino Records, 6 cd ), io che mi definisco un deadhead per farmi due risate, mica sul serio. Infatti, anche restringendo il campo a quelle fasi della carriera del gruppo che mi interessano maggiormente (1969-1972, 1975-1978, 1987-1995 gli squarci temporali che preferisco), il numero di uscite previste o già sul mercato dedicate al gruppo sono comunque troppe. Sei cd poi sono tanti da affrontare, specie se si è reduci da quasi due settimane dedicate agli otto di Trouble No MoreDeluxe Edition di Bob Dylan (peraltro uno dei migliori acquisti musicali "di peso" che ricorderemo del 2017). Ad ogni modo, Pensare ai tardi anni Ottanta dei Grateful Dead significa tante cose: anzi tutto, un nuovo, provocatorio modo di registrare i dischi e l'idea di trasportare questo new sound sui palchi, le imprudenti escursioni nei territori dei videoclip, l'insperata conquista di un'intera nuova generazione di freaks, le liti plateali fra Jerry Garcia e una stampa specializzata rea di non accordare al gruppo neanche un barlume di fiducia (leggete recensioni d'epoca e voti destinati a meravigliosi album come In the Dark o Built to Last, poi ascoltateli e mettetevi a ridere), ma, soprattuto, tante avventure live peraltro già ben documentate grazie a decine di uscite ufficiali. Ecco, appunto, i Grateful Dead di fine '80 sembrano i personaggi di una saga dostoevskijiana più che un nutrito gruppo di mezza età con sulle spalle il peso dei vari Aoxomoxoa e dei Live/Dead. Questi due concerti all'RFK Stadium lo spiegano benissimo: l'ascolto è un fiume in piena che attraversa un repertorio che, allora, aveva da poco compiuto un quarto di secolo. Senza contare che il pretesto del tour era la promozione di Built to Last, vertice- ahimè, in tutti i sensi -della carriera in studio del gruppo, un disco che ad oggi funziona ancora alla grande, pieno com'è di canzoni che ardono come fiamme, piene di energia e di idee. Non ci credete? Tentate l'ascolto.
Nel giro di pochi giorni, lasciano il nostro mondo e vanno a bruciare all'inferno (anche se preferirei saperli come Jack-o'-lantern, ma senza la zucca) Totò Riina e Charles Manson. Due guru, due criminali, due anziani sopravvissuti relativamente bene al dolore che hanno arrecato ad altri esseri umani e al mondo. Ieri sera, al TG1, commentavano la scomparsa di Manson alternando ad una famosa intervista scene estratte sia da Woodstock che da Gimme Shelter (forse più adatto) e con, in sottofondo, la cover di Look at Your Game, Girl dei Guns. <<Cazzarola>>, penso, <<se per metter su un po' di buona musica al TG1 devono aspettare che muoia Charles Manson, son messi proprio male...>>. Quando i giornali avevano dato notizia del suo ricovero in fin di vita presso un ospedale californiano, mi erano rimbalzate in testa le parole di Dylan in Masters of War, quelle in cui dice "And I'll watch while you're lowered into your deathbed/ And I'll stand on your grave till I'm sure that you're dead". Nemico numero uno della musica (in senso letterale e non figurato come Gigi d'Alessio), fu amico e "scoperta" di Dennis Wilson dei Beach Boys e venne definito da Neil Young "non tanto un cantautore quanto uno sputa-canzoni". Fu proprio il rifiuto di un famoso discografico a cui Wilson lo aveva raccomandato a scatenare la furia vendicativa di Manson. La vendetta sarebbe sfociata nella strage di Bel Air, da lui pianificata e ordinata. Neil Young rimase talmente sconvolto dal riconoscere nel mandante degli omicidi quel bizzarro, mingherlino hippiefallito da farlo tornare sulla questione più volte nel corso dei decenni successivi. Ne Il sogno di un hippie (Feltrinelli, 2012) dedica alcune righe al loro casuale incontro, ma vale la pena rispolverare un'intervista del 2008 in cui- alla faccia dei "giorni di pace, amore e musica" -descrive quell'epoca come "tempi spettrali. Conoscevo Charlie Manson.Alcune persone stavano in questa casa sul Sunset Boulevard, e c'era diversa gente.Non sapevo chi fosse. Me lo presentarono e lui non era un tipo felice, ma sembrava avere presa sulle ragazze.Era il lato oscuro del Maharishi.Sapete,
c'è un lato luminoso, quello dei bei fiori, delle vesti candide e di tutto il resto, e
poi c'è qualcosa che sembra molto simile ma non lo è affatto". Di lui, si dice, parla l'ultima strofa ("I
never knew a man could tell so many lies/ He had a different story for
every set of eyes/ How can he remember who he's talking to?/ Cause I
know it ain't me, and hope it isn't you") di Ambulance Blues, epitafio di quei "tempi spettrali" e degna conclusione di un altrettanto indispensabile capolavoro. Certi pomeriggi tardo autunnali sembrano inventati per stare in casa ad
ascoltare proprio dischi come questo, di cui val la pena continuare a seguire ogni istante, ogni
nota, ogni parola. Capire On the Beach, perdersi nei suoi simboli, nella sua cristallina perfezione è
come entrare in un universo parallelo: una volta fatto, ogni altro testo
e qualsiasi altro cantautore sembrano banali.
Ognuno ha il compleanno che merita, chiassoso o silenzioso, più o meno festeggiato. Ma siccome
a ogni compleanno mi ritrovo inevitabilmente più vecchio di un anno, va a finire che cerco di distrarmi in altri modi. Se si eccettua un evento "a sorpresa" nel 2011, scavallati i venti, ho smesso di indire feste, cene e altre libagioni. Da allora, cerco di passare il giorno e la sera del mio compleanno con la mia fidanzata, andando a cena fuori o al cinema. Sono molte le cose che nascono, crescono, maturano, appassiscono e infine muoiono: gli anni sono fra quelle e io non sempre ho voglia di starmene a rimuginarci su.
28 Years Old in Riad El Walaa, Marrakech.
Sofi rimase molto colpita quando, vedendo per la prima volta Marrakech Express, realizzò che buona parte delle frasi che a volte, nel quotidiano, ripeto come un mantra provenissero da quel film. Posso parlare letteralmente di un cordone ombelicale che mi tiene legato a questa commedia dai toni crepuscolari: mi è stato raccontato che un paio di mesi prima che fossi costretto a venire al mondo, i miei andarono al cinema a vedere il film di Salvatores, vivendolo in diretta come un instant cult sulla loro età, sul passato e presente proprio e dei propri coetanei. Ecco, mi piace pensare che alla base del mio regalo di compleanno (un viaggio a Marrakech, giusto appunto) ci sia stata la visione di quel Marrakech Express (oltre alla mia passione di lunga data per Casablanca, No Quarter Unledded dei due ex-Zep, Caravanserai di Santana, Il legionario di Piani e Polese) che la mia generazione, per vari motivi, non potrà mai avere. Anche solo perchè non è un film che celebra il proprio tempo (gli anni '80), ma lo rifugge e, rifuggendolo, lo spiega meglio di ogni glorificazione. Meccanismi che si incastrano con fatica nel mondo diverso, opinionistico, per molti versi post-autentico come quello di chi ha (quasi) trent'anni oggi e in cui gli unici pensieri che finiscono con l'avere veramente un peso sono quelli fatti la sera, quando ci si corica spegnendo lo smartphone e la luce.
"La felicità è la strada" è una di quelle frasi che mi piacciono tanto; significa che non è tanto dove arriviamo quello che conta, quanto la strada che percorriamo per arrivarci. Cos'altro sarà poi questa felicità con cui tutti ci riempiamo la bocca e che meriti abbiamo per pretenderla rispetto a milioni di persone che non potranno permettersi neanche il lusso di sperarla davvero non sono in grado di dirlo. Anche in Marrakech Express- come in Turnè e Mediterraneo -la felicità è la strada, quella su cui si consumano, essenzialmente, sia la fuga che l'amicizia. Un'amicizia virile, autentica, appassionata, a tratti cazzona, certo, ma non per questo casermistica o guascona, un'amicizia che resiste alle distanze spaziali e temporali con la spontaneità e l'affetto di un primo amore. La stessa spontaneità che esplode, dopo appena un giorno a Marrakech, quando ci imbattiamo nel Giove, che è in ferie con la fidanzata in Marocco. Un incontro che si consuma in mezzo al caos della piazza Jamaa el Fna. Potrebbero mancare solo Plant e Page, come nel '95, ma io e Giove nel 2017, posso garantire, non siamo da meno e a me torna in mente proprio l'antico proverbio arabo di Marrakech Express: "Non bastano tutti i cammelli del deserto per comprarti un amico".
Mentre fra una patata agrodolce e una salsiccia di pecora ci raccontiamo, reciprocamente, la condotta delle nostre esistenze da marzo a ora, Giove se ne esce con un ammirevole soliloquio sull'eccessiva importanza che conferiamo all'accumulo di denaro: <<Uno non si fermerebbe mai>>, dice, <<Ti dai un traguardo, una cifra, la raggiungi e una volta raggiunta sposti l'asticella più avanti, ne vuoi ancora e ricominci tutto da capo. Non ti accontenterai mai>>. Mi tornano in mente il famoso monologo Greed is Good di Gordon Gekko in Wall Street, le facce degli yuppies negli speciali a loro dedicati dai settimanali di informazione, miriadi di frasi estrapolate da dieci anni di salotti televisivi incentrati sulla crisi economica. <<Gordon Gekko, mavvaffanculo va'!>>, penso. Purtroppo, l'amarezza dei tempi che viviamo ci condiziona l'umore e cerchiamo di cambiar rapidamente argomento prima di vederci scaraventati nelle profondità dei deserti cosmici e costretti a intonare il famoso Blues for Allah.
Digeriamo quella che rimarrà la migliore cena del nostro breve soggiorno e ci addentriamo nella Medina, dove sorgono entrambi i nostri alberghi, per bere un tè. Scegliamo un locale tipico, con i tavoli che si affacciano su una piazza che ho visitato anche stamani, ma che a quest'ora della notte è assai diversa. Dopo un fiume in piena di parole, ci zittiamo un attimo, sorseggiamo la bevanda calda e speziata. Cerco di osservare me e il Giove dall'esterno. <<Ma tu guarda questi due coglionauti, questi due ex-liceali che si ostinano a giocare ai compagni di banco, questi due vagabondi del Dharma...>>. Ci sorridiamo vicendevolmente, entrambi ancora meravigliati dalla natura lievemente surreale di un incontro tenuto in un paese tanto lontano da quelli dove viviamo (io da sempre in Italia, mentre lui, da qualche anno, ha piantato le tende in Europa dell'Est). La teiera si svuota, i minuti si rincorrono sull'orologio e io, sentendo che il momento del commiato si avvicina, mi rifugio in pensieri più solitari. Sono qui, so che sto vivendo un'esperienza indescrivibile, di quelle che mi riempiono l'anima. ma una fitta di consapevolezza non tarda ad attraversarmi il
petto: credevo di vivere, in realtà stavo già ricordando. Ero già
tornato e ancora non lo sapevo. E infatti eccomi qua, neo-ventottenne, con una domanda
antica quanto il mondo stesso: esiste o no il presente?
George Martin (il produttore e baronetto, non lo scrittore) scrive nelle sue memorie che Paul Buckmaster, scomparso lo scorso 7 novembre, era il più bravo di tutti.
Paul Buckmaster è stato un buon direttore d'orchestra, ma soprattutto un impareggiabile arrangiatore. In Italia lo ricordiamo principalmente per due motivi. Il primo, è che lui stesso aveva origini italiane da parte di madre (la signora veniva da Napoli), il secondo è che la sua abilità, il suo mestiere sono stati fondamentali in almeno due o tre bei dischi pubblicati nel nostro paese. Sul primo omonimo LP di Angelo Branduardi Paul Buckmaster figura come musicista, autore e produttore; suoi sono i synth e il missaggio nello stratosferico Rosso napoletano di Toni Esposito; sua buona parte dell'opera di arrangiamento di un disco forse poco ricordato e uscito a firma di Teresa de Sio, Toledo e regina, anno 1986.
Il primo pezzo che ho ascoltato consapevole che fosse stato lui ad arrangiarlo è Sway degli Stones, roba che ancora dopo tanti anni continua a spalancare le porte a suggestioni emotive molto profonde.
Col tempo, ho scoperto che l'apporto di Buckmaster è stato fondamentale anche in tante altre canzoni che amo e che da anni ho consegnato a quell'archivio mentale dove stanno riposti i capolavori. Ora che non è più fra noi, sembrano scritti apposta per lui i versi di Dress Rehearsal Rag "Where are you golden boy/Where is your famous golden touch?".
La sera, a cena, mi abbandono alla circumnavigazione di alcuni pensieri. Guardo i lampioni gialli accesi fuori, nella nebbia. Ce ne ha messo di tempo, ma è finalmente arrivato il momento dell'anno che meteorologicamente e visivamente associo al mio compleanno. <<Che fava!>>, mi dico, <<Quasi trent'anni su questo pianeta e me no sto qui, a pensare se You're so Vain sarebbe stata la stezza canzone senza l'arrangiamento di Paul Buckmaster... mah, dove andremo a finire?>>.
Poi mi viene in mente che forse, alla fine, la persona fortunata sono io. Conosco gente che è rimasta impantanata in un pressapochismo davvero dannoso e da lì non vuole muoversi, amici con cui abbiamo viaggiato lungo le stesse strade ma che hanno imboccato uscite differenti dalla mia (alcune sicuramente migliori, ma su altre non ci scommetterei troppo), persone ripiegate su se stesse, intente a coltivare un individualismo senza freni e ad allungare il brodo della loro autoreferenzialità, conoscenti spettatori di X-Factor Italia a cui non puoi neanche provar a spiegare cos'è la sindrome del melisma italo-giorgiano di seconda discendente senza che questi ti offendano accusandoti di supponenza, saccenza e intellettualismo, ragazze che non vedo e non sento da anni ma che sono comunque convinte di aver migliorato la loro esistenza passando da Guccini a Brunori Sas, dai Metallica ai Cigarettes After Sex e a cui vorrei solo dire <<Tesoro, mi dispiace per te, questa non è maturità, ma deterioramento>>. Al netto di incertezze, insicurezze, vizi e incorreggibili difetti, mi sento fortunato, anche perchè per onorare la memoria di Paul Buckmaster metto su Terrapin Station (edizione espansa e rimasterizzata su HDCD). Quando i Dead si trovarono a dover sovraincidere la lunga parte centrale della suite omonima, pensarono di confrontarsi con una vera orchestra e i nastri volarono a Londra, per finire fra le mani di Buckmaster, che dal canto suo definì "perfetto" il drumming di Bill Kreutzmann adottato nel brano. E, in effetti, come dargli torto?
Ma perchè poi non fare un salto indietro fino al 1969 per lasciarsi incantare dall'arrangiamento adottato su The Greatest Discovery di Elton John (arrangiamento di cui avrebbe conservato a lungo memoria anche "Ciccio" De Gregori)?
Oppure perchè non rispolverare una fra le grandi ballads vergate negli anni Duemila, ossia quella Drops of Jupiter dei Train che a Buckmaster valse pure un Grammy nella categoria "miglior arrangiamento"? Musica che non sentivo, letteralmente, da anni e che non ha perso un'oncia della propria grazia.
E poi come dimenticare il suo fondamentale apporto in quattro dei quattordici brani di Chinese Democracy, che non mi stanco mai di ricordare, con ogni probabilità, come il disco più citato e meno ascoltato di tutti i tempi? Portano la firma di Buckmaster numerosi interventi in ambito di arrangiamento e orchestrazione di Street of Dreams, There Was a Time, Madagascar e Prostitute. Il suo ingaggio, di poco successivo a quello di Marco Beltrami, risale al periodo 2005-2006, quando la Geffen aveva già imprudentemente diffuso una data di uscita dell'album (6 marzo 2007, puntualmente rimandata), e fu tenuto, ovviamente, segretissimo. Ciò nonostante, si prese cura di due pezzi già molto famosi in sede live e mutò non di poco la forma sia di TWAT che di Prostitute. E dal momento che considero TWAT una delle dieci canzoni dei GNR più belle di sempre e che non ho mai mancato di tributarle i giusti onori qui sul blog, ritengo oggi più giusto diffondere un'altra perla di questo magico, conturbante album:
Concludo, tanto per dare un'idea della trasversalità (non necessariamente un sostantivo a cui apporre una denotazione negativa e jovanottiana) del personaggio vorrei raccomandare un ascolto che mi esporrà pericolosamente all'abisso della contraddizione. Sì perchè, pur da amante di Miles Davis, On the Corner l'ho sempre digerito poco. Recentemente, avevo mostrato questa mia carenza su Facebook e un paio di amici sono prontamente e gentilmente (e chi ne possiede un account sa quanto rara sia la gentilezza su Facebook) intervenuti a riguardo, invitandomi ad un nuovo ascolto dell'album. Penso proprio che li darò retta, anche perchè puoi chiamarti Miles Davis quanto vuoi, ma se perfino tu, giunto a un certo punto della tua carriera, hai bisogno di un Paul Buckmaster, un motivo dovrà pur esserci. No?
Bob Dylan, The Bootleg Series Vol. 13: Trouble No More 1979-1981
(Columbia Records, 8 Cd+ DVD) ★★★★★
Non sono un patito della cosiddetta musica spiritual. In generale, non do troppo importanza al lato spirituale dell'esistenza, e quando lo faccio me ne guardo bene dal partire da una prospettiva cristiana o- peggio mi sento -cattolica. Per dare un'idea, l'altro giorno ho parcheggiato la macchina nell'area esterna della Coop del mio paese, e nello scendere mi è caduto l'occhio sull'abitacolo della Ford Escort blu parcheggiata di fianco alla mia: un rosario appeso allo specchietto retrovisore e un'effige di Padre Pio saldamente incollata al cruscotto. Sono sceso, ho chiuso e ho tirato una bestemmia.
Mentre la letteratura musicale (e non solo) era ricolma di studi, citazioni, approfondimenti e descrizioni della "voce di una generazione", della svolta elettrica, dell'incidente in moto, della cantina a casa della Band, delle incursioni altalenanti nella giurisdizione del country, di Blood on the Tracks, di Desire, della conseguente Rolling Thunder Revue, io facevo una gran fatica a capire cosa fosse successo dopo il 1976. La mia (allora) esigua discografia dylaniana subiva una brusca interruzione con l'esaltante Hard Rain e riprendeva dall'impagabile Infidels, datato 1983. Poi un giorno mi capitò fra le mani un'intervista di terza o quarta mano a Bono Vox degli U2: doveva essere roba risalente alla fine degli anni Ottanta, se non addirittura successiva. Parlava dell'America, parlava del blues, di Dio e di Bob Dylan. A proposito di quest'ultimo, riusciva nell'intento di spiazzare l'intervistatore citando, fra le proprie maggiori influenze, non tanto The Freewheelin', Highway 61 o Blonde on Blonde, bensì un certo Shot of Love, che definiva bellissimo (più avanti, nello stesso articolo, descriveva anche Brownsville Girl, canzone del 1986, come una delle vette di tutta la produzione di Dylan). Quando Bono parla di fame nel mondo, va lasciato perdere, ma quando dice che un certo disco è molto bello, bisogna credergli. Non trovandolo nelle vicinanze, me lo feci scaricare e masterizzare da Checca, ma non rimasi molto colpito: era un disco gospel con sonorità soul e pop, non aveva la credibilità di Desire è l'incredibile omogeneità tematico-musicale di Infidels. In seguito capii che razza di occasione sprecata fosse stata Shot of Love: scarti come Angelina, Caribbean Wind e Need a Woman testimoniavano che Dylan e i suoi produttori dell'epoca avevano sbagliato molte cose. Per molti potrà già essere iscrivibile nel "rock di plastica anni Ottanta", ma non per il sottoscritto. Property of Jesus, The Groom's Still Waiting at the Altar, Lenny Bruce simboleggiano un gospel rock tosto e risoluto, musica e testi permeati da un gran gusto e da una bella grinta. Heart of Mine e In the Summertime presentano dinamiche eleganti e assoli chitarra-armonica davvero strabilianti. Non bastò, all'epoca, l'ottimo lavoro di Cuck Plotkin come co-produttore per proiettare l'album oltre la trentatreesima posizione della classifica Billboard, ma poco importa.
Non tutto è da buttare della "trilogia Cristiana", ma nemmeno può essere tutto rivalutabile. Senza dubbio Slow Train Coming è scritto e suonato da gente che sa il fatto proprio. Un disco apocalittico, di gospel come si fatica a ritrovarne, un disco che- al netto delle criticità religiose che un ascoltatore può decidere o meno di muovere -ha conservato intatta la credibilità del messaggio di un Bob Dylan cristiano rinato. Niente musichetta da chiesa, niente giri rompipalle, niente preghierina annacquata da mandare a Pomeriggio Cinque. Fare un disco così dopo aver provato, inventato e influenzato tutto poteva sembrare un passo indietro nel 1979, ma non lo era. Gotta Serve Somebody è indimenticabile, Precious Angel contiene una delle più belle parti di chitarra mai incise da Mark Knopfler (che, guarda caso, tornerà a lavorare con Dylan proprio suonando e producendo Infidels, il capolavoro del decennio), God Gave Names to all the Animals è un reggae alla "porcamadò" in tutto e per tutto simile agli arrangiamentiproposti At Budokan, durante l'ultimo tour laico. Saved è il più integralista della triade: quando uscì, nel giugno del 1980, tutti rimasero sconvolti dalla interminabile trafila di seghe mentali e dogmi cristiani contenuta in ogni suo singolo verso. Gospel rock dalle velleità moderniste, vecchi standard di chiesa rifatti maluccio, fallimento commerciale clamoroso ovunque (fece eccezione l'Inghilterra, dove conquistò senza difficoltà la terza posizione), ostico e faticoso come pochi altri album di Dylan, Saved conserva un paio di bei momenti (Pressing On e In the Garden), ma è davvero tutto troppo prigioniero di un'ossessione religiosa nociva: produzione Muscle Shoals non ai suoi massimi storici, musicisti sommersi da una voce indemoniata ma assai poco convincente. Quando lo comprai per soli sei euro in un negozio di Siena, non conoscevo ancora Knocked Out Loaded e Down in the Groove, quindi per me divenne istantaneamente il disco più brutto dello zio Bob. Tentai un paio di ascolti, ma la mia anima atea e irrimediabilmente perduta soffriva; una sensazione indefinita mi ottenebrava, sposandosi a fastidio e insoddisfazione.
E' molto strano che i concerti di questo periodo (1979-1981) siano stati talmente tanto bisfrattati da non essere citati nemmeno in buona parte dei numerosi saggi dedicati a Dylan nel corso degli ultimi trent'anni. E' ancora più strano ascoltarli oggi, privati della loro veste di prediche incessanti, e realizzare quanto siano inesorabilmente fondamentali per i fans e parimenti splendidi per chiunque: un po' quello che successe nel lontano 2005, quando venne pubblicata, come quinto volume della BS, la selezione della Rolling Thunder Revue. So che Dylan e la Columbia ci hanno abituati al meglio, ma questo box di otto cd e un DVD è stato assemblato in maniera davvero superlativa. L'apparato fotografico è il migliore che si sia mai visto su questa collana, perfino superiore a quello di Another Sel Portrait. I primi due cd ospitano brandelli di serate americane ed europee, canzoni che sondano le sfumature di quel gospel-rock che la band di accompagnamento (composta dalla formidabile combo Muscle Shoals Band/Queens of Rhythm) padroneggia impeccabilmente. Trenta pezzi, fra cui tre mai uditi prima d'ora (Ain't Gonna Go to Hell for Anybody, Ain't No Man Righteous, No Not One e Blessed is the Name) e molti altri che, grazie alla veste live, acquistano una forza e una bellezza insospettabili. Singolari e intriganti risultano le alternate takes e le prove confluite nel terzo disco, outtakes talvolta segnate dalla chitarra di Knopfler, materiale in minima parte già affiorato nel terzo volume della serie (si parla, comunque, del 1993) e ben sei canzoni inedite (almeno su vie ufficiali). Thief on the Cross e City of Gold, rispettivamente destinate a Shof of Love e Saved, sono con ogni probabilità due delle dieci migliori canzoni che Dylan ha scritto come cristiano rinato. Superfluo chiedersi come mai non fossero state incluse negli album già allora. Di altrettanto spessore sono le ulteriori inedite incluse nel quarto disco: Making a Liar Out of Me è la classica, riuscita ballata dylaniana anni '80, una sorta di apripista per le molte altre che avrebbe composto basandosi sul medesimo schema. L'intreccio organo-chitarra è sublime, Jim Keltner (possiamo sentirlo nel novanta percento della raccolta) è uno dei più grandi batteristi mai venuti al mondo. Yonder Comes Sin è un gospel più ritmato, costruito sul tema di Jumpin' Jack Flash. Lo shaker che entra in gioco dal secondo minuto in poi è piuttosto inusuale e carica ulteriormente il brano. A chi lo voleva morto o prossimo al farsi prete e ritirarsi dalle scene, il Bob Dylan dell'autunno 1980 aveva da dire un mondo di cose. Con Cover Down, Pray Through (inedita presentata dal vivo a Buffalo il 1 maggio 1980) si torna ad una dimensione più negroide, la stessa che permea- fino all'abuso -tutto Saved. Nelle puntualissime note interne, si citano Curtis Mayfield e gli Impressions fra i principali ispiratori della canzone. Rise Again, standard della musica cristiana che era confluito perfino in un album di Elvis, è un momento intimo e dolce in cui Dylan abbraccia la chitarra acustica e duetta con Clydie King, un capolavoro di tre minuti di cui riparleremo ancora fra molti decenni. La Ain't Gonna Go to Hell for Anybody registrata il 2 dicembre 1980 a Salem è perfino migliore di quella ospitata sul secondo cd, mentre la alternate di Caribbean Wind con Ben Keith alla pedal steel è... beh, è Caribbean Wind con Ben Keith alla pedal steel: non occorre aggiungere altro. Come spesso capita con Dylan, i suoi scarti finiscono sempre, ironicamente, per offrire all'appassionato o al semplice ascoltatore nuovi motivi per amarlo. Come già si poteva evincere dal suo ascolto su TBS Vol. 3, You Changed my Life, al di là del messaggio permeato di fanatismo gesuita, non avrebbe sfigurato sul disco cui era destinata (Shot of Love): il cantato di Dylan del 1981 comincia a virare verso il pop, si percepisce la volontà di tornare a scalare le classifiche di vendita, senza, ovviamente, dimenticarsi di Dio. Più in generale, non esiste versione alternativa dei pezzi di Shot of Love a non suonare migliore di quelle definitive mixate da Plotkin e finite sul cd tanto amato da Bono Vox. Per quanto la sbornia religiosa fosse agli sgoccioli, la ricchezza e il fascino Dead Man, Dead Man (registrata a Los Angeles il 24 aprile 1981) fa accrescere non di poco la stima che si può avere di un autore come Dylan. Quando da un cassetto escono canzoni del genere, non si può rimanere indifferenti. Il quarto cd di rarità si conclude con la prima versione di Every Grain of Sand, che più che una canzone è una sorta di opera maxima, il brano che- a detta dello stesso Dylan nella celeberrima intervista rilasciata a Cameron Crowe -descrive in maniera più profonda e viscerale il proprio artefice. Per molti, è la più bella canzone degli anni Ottanta e, vi dirò, per un attimo, verso i 4'27'', me ne sono quasi convinto. Poi, per carità, mi sono tirato uno schiaffo e ho detto <<Va' là, che c'è sempre Welcome to the Jungle!>>, però sono anche momenti come questo che ci fanno sentire vivi.
Non nascondo che dopo tanta bellezza, si torna un po' malvolentieri sulla terra. Il concerto di supporto a Slow Train Coming e Saved (cd 5 e 6) registrato alla Massey Hall di Toronto (e chi dimentica quale capolavoro della musica del Novecento è stato inciso là dentro è complice!) non offre nulla di più rispetto a quanto udito nei quattro dischetti precedenti, mentre la serata londinese del 27 giugno 1981 (cd 7 e 8) è, semplicemente, una delle più belle testimonianze live della carriera di Dylan. TBS Vol. 13 sarebbe potuto uscire tranquillamente sotto forma di doppio cd con queste canzoni e basta per poter risultare il capolavoro che è. Mentre il concerto canadese è un riuscito predicozzo da cristiano rinato, a Londra Dylan porta in scena, con la band, sia il repertorio gospel (e, mamma mia, cosa non sono i pezzi di Shot of Love anche qui!) che i grandi classici: una Like a Rolling Stone che, coi suoi cori marcati, anticipa di un ventennio la cover degli Articolo 31 ma recupera, nel ritmo, la versione di Before the Flood (1974), Maggie's Farm al vetriolo, una incredibile I Believe You (direttamente da quello che, nel 1981, era un disco comodamente dimenticato, ossia Another Side of Bob Dylan), Girl from the North Country rivistata in perfetto stile Dire Straits (mancherebbe solo Knopfler a rinforzare la sezione "sei corde"), Ballad of a Thin Man macchiata del soul di Muscle Shoals, Mr. Tambourine Man suona finalmente come avrebbe dovuto fare qualche anno prima (mi riferisco all'improponibile versione finita in At Budokan), e se Just Like a Woman non è stratosferica come decine di altre volte, Forever Young ha una forza che- almeno dopo il 1981 -non le ho più sentito addosso. E se Blowin' in the Wind finisce spesso con essere la canzone di Dylan che i dylaniani odiano maggiormente, viene da dire <<Beh... non questa volta!>>: correte alla dodicesima traccia del cd 8 e capirete perchè. It's all Over Now commuove, Knockin' on Heaven's Door è un ibrido fra l'arrangiamento reggae del Budokan e l'incidere più solenne dei primi anni '80. Fino ai 3'20'' è anche noiosetta, ma poi entra in gioco l'armonica e tutto assume la giusta forma.
Uno pensa che sia finita qui, e invece no. Perchè prima c'è il DVD di Trouble No More, film diretto e interpretato da Michael Shannon (nei panni del predicatore) e presentato proprio qualche sera fa a Roma. Il sermone, in realtà, si alterna alle riprese di un concerto che, a sua volta, raggiunge vette così struggenti da sistemare l'anima per anni interi. La maestosità degli arrangiamenti, lo spaventoso fascino di un messaggio tanto reazionario quanto totalizzante, il gospel continuo e ininterrotto sono tutti gli ingredienti che fanno di questo tredicesimo volume l'ennesimo vertice della carriera di Dylan. Il più grande di tutti: fatevene una ragione.
Tra le numerose manifestazioni della stupidità umana degli ultimi tempi possiamo iscrivere senza ombra alcuna di dubbio il fenomeno "Metallari Vs. Chiara Ferragni". Vi chiederete come possa comparire su un blog come questo il nome della influencer più bionda e potente al mondo, ma se avete seguito sul web le offese gratuite lanciate da più di una pagina Facebook in odor di purismo "arroccketato" e "metallaro" (le stesse che mi hanno fatto recapitare a casa sigari avvelenati dopo la stroncatura dell'ultimo disco dei Foo Fighters) nei confronti della Blonde Salad, capirete senz'altro. Qui regna la ragionevolezza ed è bandita ogni forma di fondamentalismo, malattia che alla musica ha finito col nuocere quanto la crisi del supporto fisico. Al contempo, Chiara Ferragni non è propriamente la mia donna ideale, nè su un piano estetico, nè su un piano empatico. In più, occupa un ruolo di rilievo in un settore (la moda) che a tratti mi incuriosisce e a tratti trovo di un'idiozia inarrivabile. Andando per metafore, si potrebbe definire la moda come una gabbia- una delle tante, nonchè, sicuramente, una delle più piacevoli -in cui l'essere umano decide spontaneamente di abitare, e, di conseguenza, Chiara Ferragni sarebbe solo la degna domatrice di un circo aperto trecentosessantacinque giorni l'anno. Fatto sta, però, che a causa della coglioneria altrui non solo sono stato recentemente costretto a dire la mia in un dibattito fasullo, perverso e privo di rilevanza, ma mi sono pure scoperto uno strenuo difensore della biondina, rea- a dire dei talebani del metallo pesante -di aver postato una foto in cui si permetteva di profanare il sacro nome delle loro divinità indossando una t-shirt dei Metallica (era ... And Justice for All). Per fortuna, è sempre dallo stesso Facebook che arriva un pensiero degno di conoscere massima diffusione, anche perchè tornerà a prestarsi altrettanto bene anche in futuro (un futuro che, affacciandosi sui social, si preannuncia sempre meno roseo e sempre più irragionevole): Premessa numerica: con il loro centinaio di milione di copie vendute, i Metallica si collocano nella stessa lega di cui fanno parte i Justin Bieber, le Britney Spears, le Adele e molti altri, quindi i commenti rivolti alla fashion blogger in merito alla sua conoscenza o meno della band in questione suonano tanto ridicoli quanto lo sarebbero affermazioni del tipo "Togliti quella maglia di Justin Bieber che manco sai chi è...". Ma questa è solo la proverbiale punta dell'iceberg. Perché tutta la vicenda non sarebbe meno ridicola se al posto di quella dei Metallica ci fosse stata una t-shirt dei Carnage o dei Living Death o di chiunque altro. Piaccia o meno, si tratta di oggetti di merchandising in vendita per chiunque: non si tratta di oggetti esclusivi per esoterici fan club, e tantomeno è necessario affrontare particolari esami prima di procedere all'acquisto. Se davvero ci fosse in gioco una qualche forma di identità sociale, sarebbe il caso di contestare prima di tutto la scelta da parte di chi mette il merchandising sul mercato e lo vende a chiunque sia disposto a sborsare la cifra richiesta. Non è necessaria una particolare conoscenza delle leggi di mercato per comprendere che, se un oggetto è in vendita senza restrizioni, allora chiunque può acquistarlo. L'isteria di massa che segue la mera pubblicazione di una foto racconta molto di più sulla frustrazione di chi scrive e commenta in preda a rabbiose convulsioni, che non sul bersaglio di tali attacchi. Si tratta di dinamiche all'ordine del giorno tra i metal-fan, ma che in generale riguardano qualsiasi gruppo che costruisce la propria identità attraverso l'esclusione degli altri (indie, etc...). Sono quelle stesse dinamiche che fanno sì che interi blocchi di presunti fan girino le spalle a questa o quella band, colpevole di essersi venduta o altro. (Interessante, nella vicenda in questione, è come l'album raffigurato sulla maglia della fashion blogger sia anche quello che ai tempi della pubblicazione vide i fan storici accusare il gruppo di essersi venduto, reo di aver realizzato un videoclip per One). In generale, è lo stesso triste e patetico comportamento di chi sente il bisogno di (ri)affermare la propria identità denigrando questo o quello (cantante, gruppo, fan, etc...). In fin dei conti, non c'è propria nessuna differenza tra chi insulta una tizia con indosso una t-shirt dei Metallica senza essere una metal-fan e quanti offendono i fan dei Metallica perché questi avrebbero smesso di "essere metal" con la morte di Cliff Burton e così via, nel regressus in infinitum dell'orgoglio elitista.
(dalla pagina Colonia Lunare, postato il 30 ottobre 2017)
La serata del primo novembre è stata notevole. Hugo Race e Michelangelo Russo a Bottega Roots hanno ipnotizzato una sala stracolma con il repertorio di John Lee Hooker riletto come una sorta di lungo poema blues del Delta australiano. Ho ancora in bocca il sapore pungente della buona musica, quando, nella pausa pranzo del giorno seguente, mi imbatto in una storia di giornalismo di livelli infimi. Aneddoti simili, oltre a farmi bestemmiare in un paio di lingue, mi riconfermano che Gaber, anche in questo caso, aveva tutte le ragioni del mondo.
Antefatto: il prestigioso editore newyorchese Simon&Schuster decide di pubblicare il discorso del Nobel di Bob Dylan sottoforma di pamphlet edito in cento copie e di metterlo in vedita alla assai poco modica cifra di 2.500 dollari. Dylan, felicemente in tour e con il tredicesimo volume della sua Bootleg Series in uscita mondiale l'indomani, dà l'assenso senza neanche dare alcun risalto- come suo solito -alla suddetta pubblicazione sui suoi canali ufficiali.
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A margine: il premio Nobel per la letteratura del 2017 è andato a un romanziere giapponese di cui non importa una beatissima sega ad anima viva e sapete perchè? La risposta nella sezione Il fatto.
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Il fatto: perchè tutti sono troppo impegnati a scrivere del discorso del Nobel di Dylan, messo in vendita a una cifra tanto folle quanto- a dire di alcuni -disonesta.
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Le conseguenze. Si prenda un giornale di merda italiano a caso (la scelta non manca): il Corriere della Sera. Nel cuore della notte, a Milano, viene fatto risvegliare dallo stato di ibernazione in cui è costretto dalla fine del secolo scorso, l'ex-vicedirettore del quotidiano più venduto d'Italia, ossia Pierluigi Battista. Nessuno osa impartirgli alcun ordine, ma un fattorino si limita a esporgli velocemente la notizia, non mancando di aggiungere che: a) siamo nel 2017; b) parlar male del Nobel di Dylan è passato di moda. Purtroppo, Battista, a causa del ghiaccio che ha lievemente intaccato le funzionalità del suo apparecchio Amplifon, recepisce solo la prima delle due preziose informazioni e, con ancora l'accappatoio addosso e una tazza di tè fumante fra le mani, si mette a battere a macchina l'articolo per il suo giornale. Racconta così un'assurda storia secondo la quale un avido ebreo ("di merda", annota mentalmente senza scriverlo, lui che è memore degli insegnamenti di babbo Vittorio, impavido repubblichino e dirigente del Movimento Sociale Italiano) del Minnesota ha convinto- non è dato sapere con quali mezzi -il proprio editore affinchè questi pubblichi un volumetto di poche decine di pagine ad un prezzo criminale.
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Considerazioni: leggere frasi che si riferiscono al più grande musicista di tutti i tempi adottando formule quali "il menestrello armato soltanto di una chitarra e di
un'armonica, il cantautore dell'altra America che ha aperto un'era di
libertà e di critica alle meschinità segnate dal culto del denaro e del
potere" mi fa vergognare non in quanto appassionato di una certa materia di competenza (la musica, per l'appunto) e di un determinato artista (lo stesso Dylan, che amavo e avrei continuato ad amare anche se non avesse vinto un premio ipocrita e pretestuoso come il Nobel), ma in quanto (relativamente) libero cittadino italiano. E dato che gli esempi con cui scongiurare le teorie del sangue, della razza e di tutte queste cazzate non sono mai troppi, ne approfitto per dire che io non voglio avere in comune manco mezza emoglobina con chi, su un quotidiano nazionale, scrive "Bob Dylan si sta dimostrando, attraverso il Nobel
per la letteratura che gli è stato conferito l'anno scorso, un
attentissimo amministratore dei suoi beni materiali, beato lui". E' ovvio- almeno per chi ha letto fino a qua -che la critica a un simile articolo è del tutto inutile poichè l'enunciazione della notizia stessa è una bugia mascherata da mezza verità e perfino condita con sottili ammiccamenti antisemiti, ma per onore di cronaca (una cronaca alternativa, come cerca di essere alternativo questo blog) me la sento di ricondividere a mia volta un punto di vista che sta già trovando ospitalità su altri quotidiani, altri siti, altri blog (tutti, inevitabilmente, migliori del Corriere) al fine di screditare l'articolo di Battista. E di questo parlo nella sezione Conclusioni.
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Conclusioni: va bene. Mettiamo, per assurdo, che Battista abbia scritto la verità e non una marea di stronzate invidiose. Diamo poi per buono che Simon&Schuster sia un editore magnanimo e decida di devolvere la totalità degli incassi della vendita del costoso libretto al suo autore, ovvero allo Stesso Dylan. Il 100% del ricavato del discorso del Nobel andrà al cantante. Ammettiamo poi che tutte e cento queste copie riescano a fare breccia nei cuori degli appassionati e dei collezionisti e finiscano così per andare vendute velocemente: l'editore, a questo punto, dovrebbe a Dylan la bella cifra di 250.000 dollari. Non mi sono sbilanciato e ho scritto "bella cifra", perchè per me, per molti miei coetanei e per milioni di italiani 250.000 euro sono quelli che andranno pagati- spesso con un mutuo ventennale e tramite una massiccia dose di fatiche e frustrazioni bibliche -per avere un tetto sopra la testa. Ma una rockstar queste cifre le fattura velocemente, le raggiunge in qualche giorno di incasso di diritti d'autore o con le vendite online di tutto il materiale discografico e promozionale messo a disposizione da chi ne cura l'opera e l'immagine. Nello specifico, 250.000 equivalgono al cachet che Bob Dylan riscuote in due serate con uno spettacolo di durata variabile e compresa fra i novanta e i centoventi minuti. Va bene che anche Dylan sui soldi non ci sputa, ma buttare la faccenda in una caciara macchiata solo dal verde dei dollari è davvero eccessivo e poco professionale.
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Il punto della situazione: ma quale professionismo possiamo mai pretendere da chi, nel 2017, scrive ancora "Patty Smith"?
Sopra, Pierluigi "La banalità del male" Battista.
Il week-end si prospetta pieno di uscite interessanti. Con lieve anticipo sul tempo, passo a ritirare il mio regalo di compleanno (The Bootleg Series Vol. 13- Trouble No More 1979-1981) e raggiungo il punteggio utile per un cd omaggio. Mi scervello un attimo, perchè posso portarmi a casa un'altra novità. Alla fine, la scelta cade sul nuovo Bidin' my Time di Chris Hillman. Me ne hanno parlato molto bene; a detta di alcuni è addirittura uno dei dischi migliori usciti in questo 2017 ed effettivamente un paio di bei pezzi sul Tubo, in maniera magari un po' frettolosa (come sul Tubo faccio sempre), ho avuto modo di ascoltarli. Del resto, siamo di fronte a Chris Hillman, uno che la strada la conosce bene e la solca senza timore dal lontano 1963. In quanti possono vantarsi di aver militato nei Byrds, nei Flying Burrito Brothers e nei Manassas? E poi è l'ultima opera in cui Tom Petty (qui produttore e chitarrista) ha avuto modo di partecipare prima di andare a suonare la sua V-Factor ai bordi delle autostrade siderali. L'unica riserva che ho nei confronti del lavoro di Hillman è che a me il country puro e crudo tende a stancarmi: ho sempre e comunque bisogno di una massiccia di dose di rock attraverso tutte quelle chitarre acustiche, quei violini e quei banjos. Non a caso considero la fase outlaw uno dei momenti più alti che il country abbia mai raggiunto, e non mi riferisco soltanto alle splendide liriche fiorite grazie ai cantastorie di quel periodo, ma proprio al modo in cui i brani venivano suonati e registrati. Hillman è stato uno dei quattro inventori del country-rock, questo è innegabile, ma la sua carriera solista è generalmente votata ad un tradizionalismo piuttosto noioso e lontano dalle atmosfere di Sweetheart of the Rodeo e, in generale, dal genio della musica cosmica americana. Bastano tre canzoni per fugare ogni dubbio: Bidin' my Time è davvero un bel disco, meno interlocutorio dei lavori più smaccatamente country che Hillman ha inciso per buona parte degli anni Novanta e pieno di tutto ciò che di buono possono offrire, nel 2017, artisti quali Roger McGuinn, David Crosby, Benmont Tench, Steve Ferrone e Mike Campbell. Songs che riprendono lo stile più tardivo dei Byrds, covers di dichiarata matrice folk (l'album si apre con Bells of Rhymney di Pete Seeger), ballate intense, chitarre marchiate Heartbreakers debitamente in vista ma mai sopra la meravigliosa voce di Hillman, che si limita a strimpellare il mandolino e, in Here She Comes Again, ad abbracciare lo strumento che lo vide fiorire come rocker, ovvero il caro, vecchio basso elettrico. Da avere.
La storia che invece passo a raccontare adesso riguarda un gruppo italiano; anzi, per molti è il gruppo italiano per eccellenza, la nostra Band, i nostri Grateful Dead. L'unica differenza è che questi ultimi non sono più insieme da molto tempo, mentre i Nomadi- sì, di loro si parla -suonano ancora, a volte bene, altre male. Incidono dischi, fanno turnè, partecipano a Festival musicali e televisivi, vantano un seguito che copre senza fisime tre generazioni e officiano i loro rituali senza troppo accusare il peso degli anni. Io non sono un fan della storica band emiliana, ma neanche uno di quelli che, "da quando non c'è più Augusto...", hanno gettato la spugna ritenendo offensiva la scelta da parte degli altri componenti di proseguire un'avventura avviata nel lontano 1964. Al contrario, ho un ottimo ricordo di un concerto che il gruppo tenne a Chiusdino una decina di anni fa: la formazione a due voci (Danilo Sacco e Massimo Vecchi) funzionava alla grande e il disco Con me o contro di me, a discapito dell'orripilante nome (ma i dischi dei Nomadi post-1993 vantano, tristemente, alcuni dei più brutti titoli della storia della musica), non era dei loro peggiori. Dopo quella volta, sono stato più volte invitato a rivedere il gruppo, che nel frattempo perseverava nell'effettuare ulteriori rimpasti di formazione: ma la deriva centrista (quando non direttamente parrocchiale) delle liriche di Sacco prima e il successivo arrivo di Cristiano Turato mi hanno sempre dissuaso sia dal semplice ascolto che dal seguirli in concerto. Non credo di essermi perso alcunché, ma recentemente ho sentito in radio un nuovo singolo, Decadanza, con una voce che non ero in grado di riconoscere ma che ero certo non fosse quella di Turato. Grazie a Google, scopro che quest'ultimo non è più un membro del gruppo da un anno e mezzo e che al suo posto è subentrato il giovane Yuri Cilloni, la cui voce ricorda quella di Augusto senza però incappare nella trappola del tribute-artist. Il resto della band sembra muoversi su fascinose coordinate rockiste che non venivano percorse- a memoria del sottoscritto -dai tempi de La settima onda. Contatto il Brune, sicuro che lui o il fratello avranno sicuramente acquistato il disco e lo prego di farmene una copia prima possibile. Mi dispenso da ogni commento sul titolo (Nomadi dentro) e sulla copertina dalla lontana ispirazione u2iana, ma non siamo di fronte a uno di quei casi in cui l'abito non fa il monaco (per fortuna). Tutto il disco è, per così dire, di buona fattura. Alcuni pezzi risentono di qualche ridondanza, troppo simili fra di loro, ma se si vuol trovare un difetto ai Nomadi è quello di aver sempre dato in pasto all'industria discografica troppi dischi e a velocità eccessiva. Ma forse val la pena ricordare che abitiamo in un paese in cui X-Factor viene percepito come un qualcosa di vero. Ne consegue che un album come Nomadi Dentro sia una delle cose più belle e rigeneranti di ciò che il rock italiano è stato in grado di regalarci negli ultimi tempi.