martedì 24 maggio 2016

Bob Dylan, "Fallen Angels" [Suggestioni uditive]

Bob Dylan,
Fallen Angels
(Columbia Records, 2016)














All'inizio, aveva parlato di "disco gospel", lo zio Bob. Poi di un ulteriore selezione di omaggi a Sinatra. Infine, era tornato sui propri passi definendolo uno standard album come ne ha già fatti. In realtà, delle dodici canzoni presenti nella sua "opus in studio" n° 37, ben undici hanno già goduto di una reinterpretazione da parte di The Voice. Non si tratta di una raccolta di scarti di Shadows In The Night (2015), badate bene, ma di canzoni scelte, arrangiate e registrate ex novo con la band del Never Ending Tour. Nulla che il più originale e geniale autore della canzone moderna non abbia già fatto nel corso della sua carriera (chi ricorda i particolari Good As I Been To You e World Gone Wrong, usciti fra 1991 e 1993?), ma allora perchè, a distanza di poco più di un anno dal precedente album, tutti scrivono e si dividono su Fallen Angels?
I più "faciloni", quelli che ormai taglian corto perchè scrivere sulle nuove paturnie dei Radiohead ha la priorità assoluta, affermano che non gli sta bene che "il loro amato" Dylan pubblichi due dischi di fila contenenti soltanto covers. Costoro potranno sentire proprio e amare Dylan quanto vogliono, ma dimostrano di non aver ancora compreso un tratto fondamentale di questo artista che è però ben riassunto in un vecchio adagio: "Mick Jagger vuol essere adorato dal suo pubblico, Bruce Springsteen vuol essere amato dal suo pubblico, a Bob Dylan del suo pubblico non gliene frega un cazzo".
Poi ci sono i dylaniani, ovvero gli esatti opposti, gli antipatici antipodi (per citare un grande poeta della canzone di casa nostra), quelli che hanno comprato The Bootleg Vol.12 nell'edizione da 18 cd contenenti "every single note" che Dylan ha registrato fra il 1965 e il 1966 (colpi di tosse, errori e bestemmie compresi) e che per Fallen Angels, se ce ne fosse stato bisogno, avrebbero fatto anche la coda nella notte fra il 19 e il 20 maggio. Ma Fallen Angels non è un iPhone e Bob Dylan- per quanto Steve Jobs lo abbia amato, emulato e invidiato e abbia attinto dalla fonte del suo canzoniere -non è la Apple Computer.
Infine, ci sono i dylanisti, la schiera nella quale anche io sento di dovermi inserire. In realtà, fino ad alcuni anni fa, anche io mi definivo un dylaniano, ma poi, una sera, leggendo un bel libricino che si intitola Canzoni d'amore e misantropia (lo ha scritto Alessandro Carrera ed è edito da Feltrinelli), ho capito di essere molto più dylanista. E i dylanisti non sono i dylaniani (al massimo, sono dylaniati), non rincorrono le nuove uscite del loro beniamino ovunque si trovino e qualunque forma assumano, non ridono in faccia al destino comprando sempre e comunque i biglietti migliori per gli spettacoli o magnifici o deflagranti del Never Ending Tour, non dicono che un nuovo album di Bob Dylan è un capolavoro a prescindere, anche solo per il fatto che Dylan è ancora qua a tenere concerti, pubblicare dischi e far parlare di sè in vari frangenti. Il dylanista sottoscritto, ad esempio, non compra un nuovo album di Dylan originale da una decina di anni, ma sa benissimo che Together Trhough Life poteva meritare un recupero in economica e che Tempest è stato l'ennesimo capolavoro. Si limita all'acquisto dei Bootleg che ancora ritiene interessanti (ho saltato il 9, ma ho preso subito i volumi 10, 11 e 12) e pure fra quelli non ricerca, necessariamente, l'edizione più prestigiosa (nel caso del 12 ho optato per la pregevole cernita spalmata su due dischetti). Ovviamente, storce il naso di fronte a questi album contenenti standard, anche se, ascoltando Melancholy Mood, si meraviglia di come Dylan possa ancora stupire cambiando- a 75 anni! -modo di cantare. Capisce che, come già accaduto anni fa col disco di Natale, siamo di fronte a materiali che un europeo del Ventunesimo Secolo fatica enormemente a comprendere. Le canzoni di Fallen Angels- come quelle di Shadows In The Night -arrivano dall'infanzia e dalla giovinezza di Robert Zinneman, un ragazzetto di Duluth, Minnesota: sono le stesse che milioni di bambini americani senza la televisione ascoltavano giorno e sera su stazioni radio dagli acronimi complicatissimi. Canti gospel, 45 giri hillbilly, i primi singoli della Sun Records, i musicisti blues del Delta del Mississippi, Frank Sinatra e le grandi orchestre swing della East Coast, tutta musica che Bob Dylan ha amato da prima di conoscere i canti di protesta e il folk e di rincorrere, saltando da un treno all'altro, Woodie Guthrie, e dunque, in definitiva, da prima di essere Bob Dylan.
Resta il fatto che a me il risultato non piace, e non perchè non sia ossessionato da Dylan (lo sono eccome e me ne vanto!), ma perchè avverto un'incompatibilità di fondo con l'essenza di questi pezzi. Come i dylaniani più veri e sanguigni, so che il Dylan di oggi non è meno grande di quello di ieri. La sua musica, i suoi album, le sue canzoni e la sua voce hanno reso migliore la mia esistenza, e non sono il solo a cui può essere capitato tutto questo. In virtù di ciò, lo ringrazio per tutto, anche per questi dischi di covers che a me non convincono affatto ma al cui fascino non risulto comunque immune. Dischi anticommerciali, fuori dal tempo, lontani dai diktat imperanti del gusto e dalle mode più passeggere. Dischi che vanno oltre tutto, perfino oltre quella televisione dove ormai la caccia ai talenti è incessante e dove ci si illude di poter trovare i Bob Dylan di domani. La stessa televisione in cui, la sera del 12 maggio scorso, Raffaella Carrà ha sostenuto che Dylan fosse morto 35 anni fa. Anche lei sedeva sulla poltrona di un talent (la poltrona di giudice, per giunta) e dunque che dire? I talent passano, Bob Dylan resta.

sabato 21 maggio 2016

La pazza gioia [Recensione]

Ho un rapporto ambiguo nei confronti dei film di Paolo Virzì: se infatti, da un lato, non apprezzo affatto il personaggio e l'artista, dall'altro trovo irresistibili certe sue prove di autore. E poi ha girato due dei migliori film italiani usciti da vent'anni a questa parte (Ferie d'agosto e Ovosodo), è riuscito a raccontare cose importanti che a pochi altri sembrano interessare (Tutta la vita davanti), ha abbandonato, col tempo e coraggiosamente, la deleteria visione di un cinema regionalistico (grandioso però, anche in questo senso, Baci e abbracci) a favore di un'analisi critica della società tutta, in grado di raccontare i sogni dei giovani neoproletari che non andranno mai in pensione (Tutti i santi giorni) e i crudi risvolti delle vite di coloro che il Capitale lo amano, lo osannano e, soprattutto, lo servono (Il capitale umano). E proprio sul set di quest'ultimo film Virzì nota Valeria Bruni Tedeschi- ancora agghindata da insofferente, asessuata e borghesissima moglie/complice del manager brianzolo Bernaschi (Gifuni) -in compagnia di sua moglie, Micaela Ramazzotti, e decide di fermare quell'istante e rimandarlo ad una storia che deve ancora scrivere. La storia arriva sottoforma di una gran bella sceneggiatura ("gran bella" vuol dire, soprattutto, "ben scritta", aspetto che nel nostro cinema non è da sottovalutare) firmata da Francesca Archibugi. Uno script rosa, profondo, non banale, per un film del genere che a Virzì riesce meglio sin dall'esordio (La bella vita) del 1994: la commedia amara. 
La pazza gioia è quella a cui decidono di darsi due donne, diverse e per questo perfettamente in grado di compensarsi a vicenda, ricoverate in una comunità di accoglienza all'avanguardia posta sulle colline pistoiesi. C'è Beatrice Morandini Valdirana (Bruni Tedeschi), un'affascinante ex-aristocratica che fra un'osservazione snob e una battuta sugli africani (o sui romeni, dipende) riesce ad occultare un banalissimo passato fatto di mariti ricchi e disonesti (di nuovo torna a stagliarsi, sull'attrice, il fantasma del Bernaschi ne Il capitale umano), amanti sottoproletari violenti e bugiardi, amicizie socialmente prestigiose ma umanamente vuote (nella rubrica del suo iPhone compare, fra gli altri, il numero di casa di Giorgio Armani). E poi c'è Donatella Morelli, con i suoi trascorsi di droga, polsi tagliati, figlio piccolo non riconosciuto dal padre e dato in adozione, mamma inetta (una Anna Galliena ricomparsa e quasi irriconoscibile), babbo mitizzato ma dolorosamente e oggettivamente fallito su tutto (un Messeri a cui bastano due battute e pochi secondi di presenza per risultare rivoltante). Le due donne si conoscono, si sopportano e fuggono alla ricerca del figlio di Donatella, rispondendo alle regole di un road-movie in cui l'Aurelia diviene una giungla su cui si susseguono figure reali e irreali dei nostri tempi post-democratici. Non è improbabile che dei nobili decaduti siano "costretti", ironicamente, ad affittare le loro proprietà al cinema italiano, così come non sono assolutamente frutto di fantasia le sgradevoli e purtroppo contemporanee figure di Maurizio, addetto alle pubbliche relazioni del Seven Apples e padre biologico del piccolo Elia, o quella del gazzilloro grezzo e fuori tempo massimo che  passa il tempo libero ai Gigli, parla di un matrimonio invisibile e si limita a rimpiangere la discoteca dove andava "prima di sposarsi" (il minimo che puoi fare a uno così è proprio rubargli la macchina). Come nelle highway di Ridley Scott, non c'è spazio per salvezza e redenzione lungo la strada percorsa da queste Thelma e Louise che al posto delle mignon di Wild Turkey razziano gli psicofarmaci con cui colmare le assenze chimiche delle rispettive terapie. Beatrice non smette di ammiccare ai suoi potenziali amanti (dal prete al contadinotto-toyboy), si ostina a trattare il prossimo con l'arroganza che compete alla sua classe sociale, ammorba gli altri con chiacchiere e modi di fare datati (così come tristemente datata risulta la sua "innocente", berlusconiana visione del mondo) e cerca la gioia per non morire di malinconia, dimenticata com'è dall'amante, dal suo ex-marito avvocato e dalla famiglia. Donatella, al contrario, è assai più consapevole dei propri limiti e della propria condizione: la depressione maggiore anoressizante che la consuma da quando è nata non viene mai tenuta nascosta, neanche quando durante delle ore di uscita in un vivaio si spacca la schiena per centoventi euro. Inoltre, La pazza gioia contiene anche una attenta contrapposizione delle strutture psichiatriche presenti nel nostro paese: la rassicurante bio-ca sadove si usano metodi di stampo progressista e lo squallore disgraziato dell'ospedale psichiatrico giudiziario, unica deviazione "forzata" di tutto il road-movie. "Siamo tutti pazzi" sta scritto su uno dei muri di Villa Biondi, e in effetti può risultare utile leggere con occhio psicoanalitico tutto La pazza gioia, come se ogni azione corrispondesse ad un momento preciso di una terapia: la malattia, la cura, una vacanza liberatoria e poi un ritorno all'analisi. Con le matte che amano, soffrono e lottano e i sani che mandano avanti l'ennesima replica dello spettacolo degradante ed essenzialmente infinito dell'ipocrisia umana.

giovedì 19 maggio 2016

Captain America- Civil War [Recensione]

Forse sto invecchiando male e con più rapidità del previsto, ma sono andato al cinema di rado ultimamente. Ho visto La foresta dei sogni di Gus Van Sant e no, non mi ha entusiasmato. Trovo assai più preferibili altre foreste e altri sogni (quelli de Il Trono di Spade, per esempio), ma, finito lo splendido Vinyl, anche dalla tv traggo poco godimento. Gomorra 2 per adesso si lascia guardare, nonostante una lieve perdita di interesse di fondo.
E se ho visto pochi film, ne ho recensiti anche meno qui sul blog. Anzi, non ne ho recensiti altri dopo Batman V Superman, un film orribile che la Warner ha già tacciato di flop, visto che non ha raggiunto l'ambito traguardo del miliardo di dollari di incasso. Dopodichè, con quei diciotto giorni di ritardo buoni, sono andato a vedere il terzo Captain America (che sembra più il terzo Avengers, ma facciano pure...). Al contrario di altre volte, non mi sono lasciato trarre in inganno dal titolo: ho ormai imparato che il concetto di "trasposizione fedele" nei cinefumetti americani è del tutto assente e di conseguenza non ho detto agli amici <<Ciao, vado a vedere il film tratto da Civil War di Millar... dai, ve lo ricordate? Una decina di anni fa tutti a comprarlo... saga bellissima!>>. Chi agisce ancora pensando di trovarsi di fronte al "film di qualcosa" non ha imparato una delle regole ferree dei cinecomics (in quanti, nel 2006, sognavano il film di Batman: anno uno, nel 2008 quello de Il Cavaliere Oscuro, nel 2016 quello de Il Cavaliere Oscuro colpisce ancora, e così via?): il primo fruitore dei cinefumetti deve essere un individuo che non ha mai aperto un fumetto Marvel o DC; poi vengono tutti gli altri.
La cosa strana di questo Civil War, però, è che può risultare un film molto poco comprensibile se non si sono visti i precedenti. Ogni film Marvel, bello o brutto, riuscito o meno riuscito, primo capitolo o sequel, novità o reboot, mantiene una struttura di base che gli permetta sempre di aprirsi perfino al neofita assoluto e di risultare comunque interessante, divertente e godibile. Civil War non sembra curarsi di questo aspetto. Anzi, credo che ad uno spettatore che non ha mai visto un Iron Man, un Avengers o un Captain America precedente la trama possa apparire come poco più di un rissoso guazzabuglio in cui un branco di primedonne tira su una lita di condominio, la risolve a pugni in faccia e torna alla vita di sempre. Il tutto senza rinunciare alla variopinta regia disneyzzata e disneyana dei fratelli Russo, alle odiose sparate di Robert Downey Jr. (ridicolo e ormai insopportabile), ai muscoli e ai finali nascosti. Ci sono uno squinternato Spider-Man in età scolara (una boccata d'aria fresca rispetto ad Andrew Garfield) e la splendida Marisa Tomei nei panni della zia. Il Soldato di Inverno si difende bene, mentre Pantera Nera lascia numerosi dubbi, come del resto le intere due ore e mezza di Civil War. Il confronto tematico attorno a cui ruota l'intera sceneggiatura è gestito maldestramente. Cioè, a Holywood una storia che affronta lo scottante argomento del conflitto fra libero arbitrio, libertà e potere la affrontano con un film come questo? Almeno il fumetto di Millar- trovo doveroso citarlo in questo caso -si preoccupava di ideologizzare i due personaggi principali (Cap e Stark) in maniera adeguata, ma si parla di un Civil War diverso e molto lontano. Ai "giornalini" non spettano gli ingrati compiti che spettano a tutti i film ad essi lontanamente e comodamente ispirati. I giornalini, ad esempio, non sono tenuti a far vendere pupazzetti, magliette, patatine, gelati, mattoncini Lego, pigiamini, cereali, gomme da masticare, o almeno, chi li edita non vede in questi obbiettivi un dovere primario. I cinecomics, al contrario, sì.

mercoledì 18 maggio 2016

For An Old Friend (A Tribute To Guy Clark) [Extra]

Guy Clark
(Monahans, Texas, 6/11/1941- Nashville, Tennessee, 17/5/2016)
*
Oggi, leggendo le versioni online de la Repubblica, il Corriere della Sera e di tutti gli altri giornali di gossip quotidiano, non ho provato particolare pena di coloro che non avevano dedicato più di due righe alla scomparsa del settantaquattrenne Guy Clark di Monahans, Texas. In un momento pseudo-culturale in cui tutti sono fans di tutti e tutti piangono e rimpiangono tutti, preferisco che il cadavere ancora caldo di questo anziano poeta fuorilegge venga lasciato in pace e che loro continuino imperterriti a parlare di tutti questi amatissimi reality, di Lollo "Jovanotti" Cherubini, di Zucchero Fornaciari, di Lucianone Ligabue e dei suoi periodici bestseller einaudiani, di Renato Zero ospite di Carletto Conti, di Laura "Morticia" Pausini, delle anticipazioni su Sanremo 2017, di Master Chef, del fatto che, secondo la Raffaella Carrà, Bob Dylan sia morto da 35 anni (lo ha detto proprio in uno di quei talentuosi giochini che si chiamano un giorno The Voice, quello dopo X-Factor, quello dopo ancora Italia's Got Talent) e di tutto ciò che, generalmente, viene messo lì a tener basso il livello. In più, viste anche la pirgrizia giornalistica e le inesattezze srotolate in seguito a morti ben più glamour (Bowie, Prince, Keith Emerson), c'è davvero da rallegrarsi del fatto che Guy Clark riposi sereno, libero da paroloni e strombazzamenti.
Quando scompaiono poeti e musicisti di questo calibro si è portati a riascoltare i loro dischi e una volta in più si tende a valutare l’impatto che certe canzoni hanno avuto sulla nostra vita. I grandi album (i grandi album rock in maniera particolare) hanno la capacità di farci compiere dei viaggi che nemmeno ci aspettiamo, di farci vivere avventure così lontane e diverse dal nostro quotidiano, di aprire la mente e il cuore su orizzonti che non sono i nostri. E i dischi di Guy Clark (alcuni, non tutti, si intende) non fanno differenza.

L'ESSENZIALE

Old n°1 (RCA, 1975) 

Genio della scrittura e dell'arte di raccontare storie, Guy Clark prese parte attiva alla rivoluzione outlaw-country a metà anni Settanta inizialmente in qualità di autore e scrittore. Lui che non era il rampollo ribelle nato in famiglie benestanti come quelle di Townes Van Zandt o Kris Kristofferson, lui che non aveva già inciso singoli di successo come Willie Nelson o Waylon Jennings, lui che arrivava davvero dal deserto non poteva far altro che tentare fortuna altrove. Il suo pellegrinaggio californiano sulle tracce dei Byrds, dei Flying Burrito Brothers e di tutta la scena cosmic american si rivelò un fallimento e Guy rientrò nel Lone Star State assieme alla moglie pittrice Susanna. Sconfitto ma non domato, scrisse alcuni pezzi che sarebbero stati interpretati da Johnny Cash e Butch Hancock e venne chiamato a Nashville, che non era ancora l'odioso baraccone di plastica di oggi. Firmò per la RCA e incise il suo primo disco, uno dei capolavori-manifesto dell'outlaw-country: Old n°1. Old n°1 si spiega da solo ed è uno dei classici album da isola deserta.

The South Coast Of Texas (Warner Music, 1981) ½

Disco transitorio e generalmente poco ricordato, The South Coast Of Texas è il ponte fra i temi outlaws dei primi tre album e un songwriting più maturo e borghese. Meno racconti di frontiera, sicuramente, pochi ammiccamenti alla cultura loser del Sud e una maggiore pulizia in fatto di arrangiamenti potrebbero però trarre in inganno: The South Coast Of Texas è il vero grande disco incompreso di Guy Clark. Da riscoprire nella versione cd pubblicata un paio di anni fa.

Old Friends (Sugar Hill Records, 1988) ½

Disco cupo come la notte (e come la sua copertina, di nuovo con un bel quadro di Susanne), nostalgico e breve (non arriva a mezz'ora), Old Friends è la summa raggiunta da Clark negli anni Ottanta. Un cantautore che- come farà di lì a poco il Dylan di Oh Mercy -sceglie di porsi fuori dal mondo e dal tempo, circondato  esclusivamente da pochi amici (Rosanne Cash, Rodney Crowell) e supportato da fidi collaboratori (Vince Gill, Emmylou Harris).

My Favorite Picture Of You (Dualtone Records, 2013) 

Sono passati quasi quarant'anni dai fasti di Old n°1. Susanne è morta nel 2012 e Guy Clark non ha smesso di comporre, cantare e costruirsi le chitarre nella sua rimessa. Il suo ultimo disco è un'opera da camera con tanto di archi, suonata e cantata in memoria della sua amatissima moglie. Impagabile il contributo di Shawn Camp, la violinista dell'Arkansas onnipresente fra i solchi di My Favorite Picture Of You.

martedì 17 maggio 2016

"Red Rocks 7/8/78" e gli altri (ovvero cinque mesi e qualcosa in compagnia dei Grateful Dead) [Suggestioni uditive]

Due amici si incontrano tutti i pomeriggi verso la metà degli anni Duemila. Principalmente, ascoltano musica, parlano di musica, respirano musica. C'è tempo anche di fare bisboccia, sognare donne, inventarsi un futuro incerto, vivere avventure, ma la musica viene prima di tutto. Lo scambio di informazioni, riviste dischi, files e link diviene incessante. Gli artisti che si trasformano in passioni e ossessioni aumentano giorno dopo giorno.
Poi, una sera, Canale 5 passa The Dreamers. Tagliato e mutilato, mancante di tutte le sue preziose parti genitali maschili e femminili, ma pur sempre di The Dreamers si tratta. Uno dei due lo ha già visto al cinema, di nascosto, un mese prima di compiere quattordici anni; per l'altro si tratta di una novità assoluta. Lo registrano su una VHS anonima e finiscono con l'impararne a memoria ogni fotogramma e ogni battuta. Grazie a questo prezioso esercizio di studio, scoprono che di frasi da riproporre nella vita di tutti i giorni (e anche di cose da fare nella vita di tutti i giorni) The Dreamers è pieno. Così come è ricolmo di grande musica, musica prevalentemente nuova per le loro orecchie. Buttano giù da eMule una incompleta compilation chiamata The Dreamers- Original Motion Picture Soundtrack e ascoltano, per la prima volta, Dark Star dei Grateful Dead. Tutta l'ammirazione più sconfinata va, immancabilmente, alla chitarra di Jerry Garcia, ma il risultato di insieme è comunque strabiliante e i due provano a mettersi sulle tracce- a livello discografico -di questa band attorno a cui si è andata costruendo una sorta di mitologia, se non una religione vera e propria con tanto di stuolo di fedeli disseminati in tutto il mondo (i Deadheads).
L'impresa si rivela ardua. Trattandosi del gruppo che ha inventato il concetto di jam e che per primo si è occupato di trasformare il set di un concerto rock in una vera e propria macchina in grado di spostarsi da una città all'altra, da uno stato all'altro, da un continente all'altro, la quantità di dischi live è talmente sterminata da risultare sconfortante e, paradossalmente, i risultati in studio sembrano inferiori alle aspettative. Certo, AoxomoxoaWorkingman's Dead, American Beauty e Blues For Allah contengono bei pezzi, ma è tutta roba che potrebbe comodamente essere spalmata in un paio di cd (cosa che, molti anni dopo, la Rhino Records ha pensato bene di fare con The Best Of The Grateful Dead). 
Facciano pure quello che vogliono, questi Grateful Dead, basta che non smettano di pubblicare i loro concerti impegnativi, acustici, semiacustici, elettrici, psichedelici, country, innamorati, cinici, rivoluzionari, tradizionalisti, spensierati, apocalittici: ce ne è per tutti. La dannazione di uno che suona la chitarra come la suonava Jerry Garcia è di essere condannato a non smettere mai: deve seguire il flusso, sera dopo sera, concerto dopo concerto, decade dopo decade, fino a quando quella Morte onnipresente in quasi tutte le copertine dei dischi non giunge a reclamare l'anima del suo eterno cantore. La chitarra, la melodia e il senso di "musica di insieme" sono le uniche cose che contano nella musica dei Grateful Dead. Non per togliere nulla alle parole, che, specie quando sono scritte da Robert Hunter, contano molto e non si limitano ad essere curiosità marginali da postumi di acido lisergico. 
Nel corso degli anni successivi, i due amici assumono posizioni divergenti sui Dead: uno decide di non approfondire più tale materia, mentre l'altro- seppur con distacco e senza l'obbligo di convertire anima e corpo alla causa psychedelic rock -se ne interessa sporadicamente.
Io, ovviamente, sono il "secondo amico" e non ammiro tutto quello che i Grateful Dead hanno fatto, nè compro tutti i loro cofanetti (non basterebbero due stipendi), nè ancora miro a rivendere la collezione completa delle loro opere per acquistare un'automobile nuova (negli USA questo giochetto è già riuscito diverse volte). Ci sono interi periodi del gruppo che non conosco e molti altri che proprio non mi piacciono. Non sono andato fino a Firenze per vedere il concerto di addio dello scorso luglio proiettato nell'unico cinema della Toscana che si era preso la briga di trasmetterlo in diretta, nè partecipo ai raduni dei loro fans, ai dibattiti sui forum ufficiali o non ufficiali. Non nego che possa esistere quell'attimo da cui chi ascolta determinati momenti (non canzoni, badate bene) della musica dei Grateful Dead non potrà più abbandonarla, ma io non sono mai davvero riuscito a relegare ad essa più dello spazio, del tempo e della passione che le dedico di normale.
Ovviamente, per le case discografiche e l'industria del music business, la messa in circolazione di quell'ingente quantità di materiale fissata fra il 1966 e il 1995 rappresenta ormai un'importantissima fonte di sussistenza. Il pubblico americano dei Dead (in particolare quello stesso pubblico di dreamers che, durante la guerra in Vietnam, aveva provato a scrollarsi di dosso i tratti della middle class) continua ad essere pienamente consapevole di quale rivoluzione artistica avessero concepito Jerry Garcia e soci alla fine degli anni Sessanta e in virtù di tale consapevolezza non accenna a smettere di acquistare di vinili, cofanetti, box-set, edizioni limitate e illimitate. Per qualsiasi ascoltatore, americano, europeo od orientale, esplorare l'universo dei Grateful Dead significa farsi spazio fra un migliaio di concerti, centinaia di canzoni, un numero incalcolabile di ore di musica registrata legalmente o clandestinamente, molti saggi e perfino qualche biografia romanzata, siti internet più o meno autorevoli e articoli di merchandise che rasentano l'assurdo. Inoltre, a partire perlopiù dal 2000, sono emerse notevoli diramazioni: i costosi cofanetti di Jerry Garcia nei suoi concerti (solisti o con l'omonima Band), i poco riusciti revival dei The Dead e quelli splendidi dei The Other Ones, una ulteriore collana di musica liquida rinominata The Download Series (15 volumi usciti fra 2005 e 2006, di cui 9 resi disponibili anche in formato fisico), una Road Trips Series (17 volumi comparsi fra 2007 e 2011 e praticamente mai approdati in Europa) e la pregevole selezione Dave's Picks curata dall'archivista ufficiale del gruppo, David Lemieux, avviata nel 2012 e ancora in corso.











A quest'ultima appartengono i volumi 17 e 18, usciti rispettivamente il 1° febbraio e il 1°maggio di questo 2016. Si tratta di due concerti abbastanza vicini nel tempo (uno è del 1974, l'altro del 1976) ed entrambi di ambientazione californiana. Il primo, registrato a Fresno, vanta nel terzo cd una perla che risponde al nome di The Weather Report Suite; il secondo, invece, testimonia un bellissimo show all'Orpheum Theatre di San Francisco organizzato nientemeno che da Bill Graham. Un concerto in linea con quelli dell'epoca, senza sorprese nella scaletta o colpi di scena, ma pienamente riuscito.
Nel frattempo, complice il Record Store Day del 16 aprile, ecco spuntare in un numero irrisorio (7.700 esemplari in tutto il mondo) il quadruplo LP Capitol Theatre, Passaic, NJ, 4/25/77. Com'è o come non è, non lo so. E' sparito talmente alla svelta e senza lasciare tracce che ascoltare anche solo la cover di Mama Tried di Merle Haggard si è rivelata un'impresa. Copertina piratesca stupenda.
Ed ecco giungerci al 13 maggio, data di uscita del cofanetto Red Rocks 7/8/78 (Rhino Records, 2016, 3 cd) che mi sono prontamente e legalmente procurato. Il 1978 è per molti appassionati un anno contraddittorio e fonte di infinite discordie: chi ama arbitrariamente i Grateful Dead degli anni Sessanta ha ormai gettato la spugna, mentre per coloro che si sono addentrati volentieri nelle atmosfere progressive di Terrapin Station (il disco del 1977 che ho sentito talmente tante volte che ho finito col farmelo piacere) c'è ancora tutto un mondo da esplorare. In più, il 1978 è l'anno di Shakedown Street, l'album "facilone" del gruppo di Jerry Garcia, il più sfacciatamente metropolitano, quello pieno di pezzi da ballare nelle discoteche di New York e che di psychedelic non conserva nulla, nemmeno l'artwork.
Ma il concerto di Red Rocks risale ad alcuni mesi prima che Shakedown Street uscisse e non sembra conoscere punti di contatto con quell'opera. Anzi, se ne discosta pure volentieri. Il primo set (tracce 1-9 del cd 1) riprende i grandi classici, gli standard del gruppo e non riserva sorprese a chi qualche concerto dei Dead lo ha già sentito. In questo, Red Rocks 7/8/78 non è Sunshine Daydream (Rhino Records, 2013, 3 cd+ 1 DVD), non raggiunge gli stessi, incredibili livelli (livelli che ci fanno domandare come e perchè quel concerto registrato nel 1972 in Oregon sia rimasto fermo negli archivi per oltre quarant'anni), non  lascia presagire neanche un po' della leggerezza sperimentale, lunare delle tre date egiziane di quello stesso settembre (da ascoltare e perfino da vedere, a tal proposito, Rocking The Cradle: Egypt 1978, Rhino Records, 2008, 3 cd+ 1 DVD), nè offre un bancone di prova delle molteplici trasformazioni che la band avrebbe conosciuto in quei controversi anni Ottanta, segnati dalla mediocrità dei dischi in studio (gli unici, però del loro catalogo ad aver sbancato le classifiche internazionali), dagli sventurati tour con Dylan e da un unico, stupefacente documento live chiamato Go To Nassau (Arista Records, 2002, 2 cd). Tuttavia, siamo nella più bella arena da concerto al mondo . Una cornice poetica perfetta per il gigantesco show del gruppo. Prima che Bob Weir attacchi con Samson And Delilah, è un concerto come altri, ma da quel momento si capisce che pure la notte di Morrison, Colorado, sarà lunga e magica (anche senza LSD). Perfette per viaggiare negli spazi siderali delle vibrazioni positive sono anche Ship Of Fools e tutte le altre canzoni del secondo set (tracce 1-8 del cd 2) dove la band si lancia in un'unica, solida, ininterrotta esibizione in cui si ricorrono Estimated Prophet, The Other One, Eyes Of The World, Wharf Rat, Franklin's Tower e Sugar Magnolia, ovvero il meglio del meglio del repertorio uscito dai dischi degli anni Settanta. Fra di queste, si incastrano momenti di pura improvvisazione (Space) e il segmento Rhythm Devils curato dai batteristi Hart e Kreutzmann (lo stesso titolo avrebbe fornito il nome alla formazione di musica world con cui avrebbero inciso la colonna sonora di Apocalypse Now e con cui si sarebbero esibiti a partire dal 2006). Degni di lode i bis contenuti nel terzo cd: una Terrapin Station curiosamente più breve della suite originale (ma non dobbiamo stupirci, visto che tutto Red Rocks 7/8/78 è avido di canzoni dal minutaggio superiore ai 12 minuti, ), la gradevole One More Saturday Night e la più bella cover di Werewolves Of London di tutti i tempi.
Perciò, non si può che salutare positivamente l'ennesima uscita di un retrospective live album dei Grateful Dead, come sempre molto ben curato sul versante digipak (la Rhino sa quel che fa e il disegno desertico di Paul Pope è di grande impatto) e introdotto dalla nota filologica di Lemieux. Il missaggio dei nastri originali e l'impeccabile mastering sono curati da Jeffrey Norman. Il prezzo lievemente più basso della media di questi cofanetti (una ventina di euro contro i consueti ventinove, trenta) è giustificato dall'assenza (ahimè) di un DVD con un video del concerto. Unica, desolante assenza, assieme a quella di un libretto un po' più ricco di note e fotografie.

martedì 10 maggio 2016

Radiohead, "A Moon Shaped Pool" [Suggestioni uditive]

Radiohead,
A Moon Shaped Pool
(XL Recordings, 2016)

















Si fa fatica a trovare musica buona uscita in questa prima fase della primavera. Santana IV è forse uno dei pochi dischi validi che mi vengono in mente. Per chi piace, c'è il nuovo di Capossela, Le canzoni della Cupa, con dentro i Calexico, Flaco Jimenez e i Los Lobos: a me, nella fattispecie, Capossela dice poco, ma almeno sembra avere (ha) qualcosa da dire. Barry Adamson dei Bad Seeds ha fatto un bel disco solista (Know Where To Run) passato inosservato e pure Peter Wolf si è dato da fare col nuovo Cure For The Loneliness, e poi basta.
Meno male che ci pensa Axl Rose dal palco degli AC/DC a dare qualche lezione di civiltà, altrimenti saremmo davvero fottuti! Fottuti da quel borioso di Zucchero Fornaciari che gioca a fare Dr. John sulla copertina del suo ultimo troiaietto, fottuti dal ministro della cultura Franceschini che chiede più musica gratis (cazzo, più gratis di così? ormai la gente si sente raggirata se deve spendere 5€ per un disco), fottuti dall'Eurofestival del quale ho pure guardato sei minuti stasera su un canale RAI, fottuti da chi asserisce che "ormai il futuro della musica va cercato nei talent show". 
E poi fottuti dai Radiohead e dal loro nuovo auto-pippone clamoroso, A Moon Shaped Pool, che arriva "a sorpresa" e già solo per questo viene definito un'opera coraggiosa, a prescindere dai rumorini contenuti al suo interno. Nel 2007, In Rainbows si beccava minimo quattro stellette solo perchè Thom Yorke aveva pensato di renderlo scaricabile online con un sistema di offerta libera per ogni brano: perciò, anche a livello di marketing, fra dischi "a offerta" e dischi "a sorpresa", i Radiohead rompono i coglioni in partenza. Ah, e In Rainbows non valeva mezzo euro.
Questa manica di depressi- di cui ho ascoltato tutto fino allo sfinimento e della cui carriera ultraventennale potremmo salvare due dischi (Ok Computer e Kid A) e una trentina di canzoni -sembra esser rimasta cinque anni (tanti ne sono passati da The King Of Limbs, che è meno peggio di quanto poteva essere) a tirarsela in studio e a scervellarsi più sul quesito <<A quale famoso regista affidiamo il prossimo videoclip?>> che non sulle canzoni. Canzoni che si rivelano da subito uno sfrantumamento di palle clamoroso. 
Comunque, mi hanno molto divertito due recensioni comparse sulla stampa. La prima (Il Fatto Quotidiano) che, oltre all'ormai sputtanato epiteto di "capolavoro", lo definiva "un ritorno alle melodie per un disco lunare, da ascoltare ad occhi chiusi". E in effetti gli occhi dell'ascoltatore si chiudono molto facilmente già dopo pochi minuti. La seconda, invece, voleva essere più contenuta e si limitava ad asserire che il disco "cresce dopo ripetuti ascolti". Mi ha fatto ridere, perchè mi sono chiesto: <<Ma chi ha voglia di ascoltarlo ripetutamente un disco di merda così?>>.