In una società dove le cose funzionano, un fenomeno come quello degli youtubers nemmeno esisterebbe. Ma viviamo in un mondo sbagliato e gli youtubers, purtroppo, esistono.
Vivono fra noi, respirano, fanno ciò che facciamo tutti, ma differiscono in una sola cosa: sproloquiano di fronte a telecamere, cellulari e webcam e caricano tutto in rete. Molti di loro vengono condannati all'oblio, una minima parte può anche meritare di essere seguita (con il giusto distacco, ovviamente), ma altri ancora formano una élite precisa, ovvero quella di un gruppetto che grazie all'alto numero di visualizzazioni ottiene gli sponsor, gli sponsor portano i soldi e così, a fine mese, questi odiosi e viziati giovanotti d'età compresa fra i 14 e i 30 si ritrovano più soldi in tasca di un medico. Inutile aggiungere che proprio in quanto vox populi vengono spesso invitati ad eventi, fiere, presentazioni e cene già pagate. Insomma, per fare peggio dovrebbero solo affibbiare a questi personaggi il ruolo di protagonisti di un film.
Cosa che hanno già fatto. Un branco di produttori capitanati da un certo Cohen (dubito sia parente di Joel ed Etan) contatta Favij, Leonardo Decarli, Federico Clapis e Zoda (i quattro più amati recensori di videogames) e li coinvolge in un grottesco progetto dal nome di Game Therapy. Il risultato è allarmante.
Il soggetto, la sceneggiatura, la recitazione, la regia (di tale Ryan Travis), gli effetti speciali, le musiche, i costumi, le scenografie, la fotografia, tutto, in Game Therapy, risulta una solenne cacata. Un film di autentica serie Z, la cui visione induce una cocente nostalgia delle purghe staliniane e non solo fa riflettere amaramente su chi e cosa riesce ad ottenere un forte successo mediatico (si parla di numeri, nel caso dei video su YouTube, che doppiano molti cinepanettoni), ma mette di pessimo umore.
L'interazione fra cinema e videogioco può anche funzionare, si sa, ma questa sarebbe risultata datata già nel 1989. Questi pseudo-attori si muovono nelle peggiori condizioni, sparano battute che sono rimasugli dei rimasugli di qualche vecchia sceneggiatura di Federico Moccia non accettata e, soprattutto, agiscono per una storia che manca- preoccupantemente -di concedere allo spettatore qualsiasi partecipazione emotiva. Dietro e davanti a loro si muove un regista americano il cui talento rimetterebbe in discussione gli esiti artistici della The Lady di Lory Del Santo o del Jerry Calà più "maturo".
Non ci piove: il film più brutto dell'anno.
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