Bob Dylan,
The Bootleg Series Vol.12: The Cutting Edge 1965-1966
(Columbia Records, 2015, 2 Cd)
★★★★
"Nella vita di un artista, anche del più dionisiaco e posseduto, sono rari i periodi di permeabilità attiva e totale con la propria ispirazione [...] Non capita mai o quasi mai, per usare un termine caro a Gurdjief, che uno sia così sveglio. Si rischia la vita più che a usare le droghe sbagliate, perchè a chi guarda nell'abisso, come avvertiva Nietzsche, succede che l'abisso guardi lui."
A. Carrera, La voce di Bob Dylan (Feltrinelli, 2011)
Il Bob Dylan del 1965 sentiva che c'era qualcosa nell'aria, un'ispirazione diversa, più intensa di quella che aveva respirato negli ultimi quattro, cinque anni della sua vita, più frizzante e selvaggia di quella che lo aveva condotto alla pubblicazione di The Freewheelin' o di The Times They're A Changin'. Le sue poesie necessitavano di un nuovo tappeto sonoro, più ricco e variegato, ma soprattutto dovevano andare oltre la loro dimensione politica e folk. Superfluo aggiungere che trovò nel rock l'ingrediente fondamentale di quella che tutti ricordano come la "svolta elettrica" (fischiata e contestata al Newport Festival 1965) e che avrebbe portato ad una superba trilogia di dischi: Bringing It All Back Home, Highway 61 Revisited e Blonde On Blonde. Con ogni probabilità, tre dei dieci album più importanti della storia.
Anche chi non si intende di musica, forse, conosce alcuni aneddoti riguardanti questi famosi seicento giorni. Dylan che rilascia conferenze stampa da manicomio, Dylan protagonista di videoclip e documentari, Dylan icona pop alla Factory di Andy Warhol, Dylan che registra un lungo sfogo chiamato Like A Rolling Stone, Dylan in tour prima con Mike Bloomfield negli USA e poi con gli Hawks in Inghilterra, Dylan che passa dalla produzione di Tom Wilson a quella di Bob Johnston, Dylan che si fa di acidi coi Beatles, Dylan che si allontana da Joan Baez, Dylan che scrive segretamente Tarantula, Dylan che sposa Sara, Dylan che va a Nashville ad incidere il primo doppio album della storia del rock, Dylan che, il 29 luglio 1966, si schianta in moto vicino alla sua casa di Woodstock, spezzando l'incantesimo e interrompendo un flusso di genialità e fantasia che sembrava semplicemente inarrestabile.
Non che dopo quel fatidico '66 il Menstrello di Duluth ci abbia privati di ulteriori capolavori (ne ha pubblicati almeno altri cinque), ma quei seicento giorni hanno rappresentato un unicum assoluto. E adesso ritornano, pazientemente documentati, nel dodicesimo volume della Bootleg Series. Come sempre, Columbia fa le cose in grande e stampa tre diverse versioni del disco: una Collector's Edition di cinquemila esemplari numerati comprendente diciotto compact (contengono "every note recording during the 1965-1966 sessions" e perfino ventuno pezzi registrati amatorialmente in camere di albergo inglesi e americane), nove 45 giri rigorosamente Mono e qualche cartolina, una Deluxe Edition di sei dischi (solo il terzo è occupato esclusivamente da ogni takes di Like A Rolling Stone) e infine un efficace (e umanamente accessibile) compendio dal titolo The Best Of The Cutting Edge, che poi è quello da me recensito.
E' risaputo: fra le tante fasi che hanno creato una certa mitologia attorno a Dylan, quella della "svolta elettrica" è una delle migliori, se non la migliore. Più di metà del primo cd è occupata dalle takes di Bringint It All Back Home: demo, versioni alternative molto belle di Subterrean Homesick Blues, Outlaw Blues e On The Road Again e perfino un paio di inedite (You Don't Have To Do That e la frammentata California). Uno "sprazzo" di Mr. Tambourine suonata con la Band ci conduce verso l'epòs delle registrazioni destinate a Highway 61 Revisited, quello che sin da allora sarebbe stato additato dal proprio autore come <<il disco migliore che abbia mai registrato>>. C'è il blues, ovviamente, che Dylan incontra scendendo lungo l'autostrada 61 dal Minnesota fino al Mississippi, ma c'è anche il rock, quello autentico e incontaminato. E non sono ingredienti casuali o dosati con incoscienza: basta ascoltare le due Like A Rolling Stone contenute qua dentro per rendersene conto. Un altro paio di inedite (già documentate in versioni "pirata" più vecchie del cucco e malandate e finalmente restituite alla bellezza selvaggia e visionaria delle origini) e il primo disco si conclude con la meravigliosa performance "sdoppiata" di Desolation Row: una demo dove il solo Dylan suona una versione asciutta ed essenziale al pianoforte per un paio di minuti e infine una superba alternate di undici minuti.
Ancora prove, ancora versioni alternative di brani celeberrimi di Highway 61 affollano l'inizio del secondo cd. C'è una Tombstone Blues da oltre sette minuti che galoppa inesorabile come non mai, e una notevole Queen Jane Approximately. Poi, a partire dall'ottava traccia, l'aria cambia, e con lei i musicisti, l'atmosfera, i suoni. La produzione si sposta da New York a Nashville: Dylan è ormai pienamente consapevole delle proprie capacità, sa cosa vuole e come ottenerlo e inizia con selezionare personalmente i musicisti che lo accompagneranno in una nuova avventura. La spuntano Al Kooper (l'organista più improvvisato e fortunato del mondo) e Robbie Robertson. In tasca ha soltanto molte idee, dispersive e frammentarie, appuntate a casaccio e bisognose di un ordine che solo il duro lavoro in studio sa impartire. E' così che va costituendosi Blonde On Blonde, il doppio capolavoro passato alla storia come un vero e proprio spartiacque musicale. Qua è possibile udire le prove, alcuni celebri outtakes e tante, tantissime takes alternative, già in partenza libere dai rimasugli folkloristici di Bringing It All Back Home. Se mancava la prova definitiva che Blonde On Blonde resta il massimo punto di arrivo della carriera di Dylan (o almeno di quella parte compresa fra il 1963 e il 1969), queste inedite versioni di pezzi che hanno già ampiamente fatto epoca cadono a fagiolo. Certo, I Want You (Take 4, Alternate Take) non sarà mai bella quanto quella definitiva, ma già suona morbida e al contempo vigorosa, dolce e sfacciata, orecchiabile e meravigliosamente rivoluzionaria.
Pur risultando meno coraggioso di Another Self Portrait (2013) e meno mastodontico di The Basement Tapes Complete (2014), questo The Cutting Edge è un bel bootleg, importante e- se preso nelle versioni espanse -esageratamente costoso come tutti i bootleg di Dylan (e non solo) sanno essere. Documenta un periodo irripetibile della storia del rock e conduce anche l'ascoltatore più esperto fin dentro all'essenza di queste grandiose canzoni. Quelle del '65-'66 sono poesie lunghe, appassionate, esaltanti, dense di romanticismo e rabbia e caos. Lo stesso caos che Dylan accettava senza essere sicuro che questi lo riaccettasse a sua volta, come ammise nella famosa intervista a Playboy. L'urgenza della protesta dei dischi precedenti cede il posto al sogno e al melodramma, l'apporto di musicisti esterni e di una produzione adeguata diviene una priorità assoluta. La Columbia aveva già portato sugli impianti stereo degli appassionati i frutti live di questa incredibile stagione (nel Vol. 6 e in parte del Vol.7), Scorsese concludeva il suo No Direction Home proprio con il tour inglese di Highway 61 Revisited: perciò, si può dire che The Cutting Edge chiuda definitivamente un cerchio che ruota da una cinquantina d'anni attorno a questa sfilza di capolavori e fa riflettere- forse con una punta di amarezza -che si trattava di momenti irripetibili ed eccelsi. Solo dieci anni dopo, grazie a Blood On The Tracks, Desire e la Rolling Thunder Revue, Dylan sarebbe tornato vicino a quelli standard di perfezione artistica e comunicativa.
Ma questa è un'altra storia.
E' risaputo: fra le tante fasi che hanno creato una certa mitologia attorno a Dylan, quella della "svolta elettrica" è una delle migliori, se non la migliore. Più di metà del primo cd è occupata dalle takes di Bringint It All Back Home: demo, versioni alternative molto belle di Subterrean Homesick Blues, Outlaw Blues e On The Road Again e perfino un paio di inedite (You Don't Have To Do That e la frammentata California). Uno "sprazzo" di Mr. Tambourine suonata con la Band ci conduce verso l'epòs delle registrazioni destinate a Highway 61 Revisited, quello che sin da allora sarebbe stato additato dal proprio autore come <<il disco migliore che abbia mai registrato>>. C'è il blues, ovviamente, che Dylan incontra scendendo lungo l'autostrada 61 dal Minnesota fino al Mississippi, ma c'è anche il rock, quello autentico e incontaminato. E non sono ingredienti casuali o dosati con incoscienza: basta ascoltare le due Like A Rolling Stone contenute qua dentro per rendersene conto. Un altro paio di inedite (già documentate in versioni "pirata" più vecchie del cucco e malandate e finalmente restituite alla bellezza selvaggia e visionaria delle origini) e il primo disco si conclude con la meravigliosa performance "sdoppiata" di Desolation Row: una demo dove il solo Dylan suona una versione asciutta ed essenziale al pianoforte per un paio di minuti e infine una superba alternate di undici minuti.
Ancora prove, ancora versioni alternative di brani celeberrimi di Highway 61 affollano l'inizio del secondo cd. C'è una Tombstone Blues da oltre sette minuti che galoppa inesorabile come non mai, e una notevole Queen Jane Approximately. Poi, a partire dall'ottava traccia, l'aria cambia, e con lei i musicisti, l'atmosfera, i suoni. La produzione si sposta da New York a Nashville: Dylan è ormai pienamente consapevole delle proprie capacità, sa cosa vuole e come ottenerlo e inizia con selezionare personalmente i musicisti che lo accompagneranno in una nuova avventura. La spuntano Al Kooper (l'organista più improvvisato e fortunato del mondo) e Robbie Robertson. In tasca ha soltanto molte idee, dispersive e frammentarie, appuntate a casaccio e bisognose di un ordine che solo il duro lavoro in studio sa impartire. E' così che va costituendosi Blonde On Blonde, il doppio capolavoro passato alla storia come un vero e proprio spartiacque musicale. Qua è possibile udire le prove, alcuni celebri outtakes e tante, tantissime takes alternative, già in partenza libere dai rimasugli folkloristici di Bringing It All Back Home. Se mancava la prova definitiva che Blonde On Blonde resta il massimo punto di arrivo della carriera di Dylan (o almeno di quella parte compresa fra il 1963 e il 1969), queste inedite versioni di pezzi che hanno già ampiamente fatto epoca cadono a fagiolo. Certo, I Want You (Take 4, Alternate Take) non sarà mai bella quanto quella definitiva, ma già suona morbida e al contempo vigorosa, dolce e sfacciata, orecchiabile e meravigliosamente rivoluzionaria.
Pur risultando meno coraggioso di Another Self Portrait (2013) e meno mastodontico di The Basement Tapes Complete (2014), questo The Cutting Edge è un bel bootleg, importante e- se preso nelle versioni espanse -esageratamente costoso come tutti i bootleg di Dylan (e non solo) sanno essere. Documenta un periodo irripetibile della storia del rock e conduce anche l'ascoltatore più esperto fin dentro all'essenza di queste grandiose canzoni. Quelle del '65-'66 sono poesie lunghe, appassionate, esaltanti, dense di romanticismo e rabbia e caos. Lo stesso caos che Dylan accettava senza essere sicuro che questi lo riaccettasse a sua volta, come ammise nella famosa intervista a Playboy. L'urgenza della protesta dei dischi precedenti cede il posto al sogno e al melodramma, l'apporto di musicisti esterni e di una produzione adeguata diviene una priorità assoluta. La Columbia aveva già portato sugli impianti stereo degli appassionati i frutti live di questa incredibile stagione (nel Vol. 6 e in parte del Vol.7), Scorsese concludeva il suo No Direction Home proprio con il tour inglese di Highway 61 Revisited: perciò, si può dire che The Cutting Edge chiuda definitivamente un cerchio che ruota da una cinquantina d'anni attorno a questa sfilza di capolavori e fa riflettere- forse con una punta di amarezza -che si trattava di momenti irripetibili ed eccelsi. Solo dieci anni dopo, grazie a Blood On The Tracks, Desire e la Rolling Thunder Revue, Dylan sarebbe tornato vicino a quelli standard di perfezione artistica e comunicativa.
Ma questa è un'altra storia.
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