Controvoci.
In un angolo il fantasma di Rufus Thomas ascolta i suoni del tempo che passa.
Donne vestite di viola e smeraldo portano i simboli di religioni sconosciute e croci pesanti, abbandonate nel pensiere ma strette fra i seni.
Neri e bianchi uniti.
Fumo di sigaretta si fa spazio fra i bicchieri tintinnanti. Un tintinnio divenuto musica. Malinconia della musica.
Garcon, caffè!
Dall'ingresso, riprende e coglie tutto ciò Martin Scorsese. Il cinema vedrà il Blues.
La morte è lontana.
Sul palco, il Demone delle Grida accompagnato dal suo Gemello Tossico.
In piedi, di fronte a loro, altri due gemelli.
Il bacio del Demone è leggenda. Mano affusolata posta sul retro del collo, al centro. Bocca spalancata. Una bocca di sogno.
Il suo bacio, bacio di chi fa il blues, scivola dentro anima e corpo come il blues scivola dentro la musica.
Melodia più dolce non l'hai mai sentita.
Apollo gliene sarà grato.
Questo è quanto scrivevo sul diario, il 2 maggio 2006, pensando alla voce di Steven Tyler (e credo, più in generale, alla musica degli Aerosmith), mito, poeta e cantore di una stagione sregolata e romantica della mia vita. Ciò che all'epoca non sapevo (o fingevo di non sapere) era che Tyler stava già accantonando la band per dedicarsi a champagne, mignotte e musica mediocre. Peccato, perchè il 13 dicembre del 2005 era uscito un singolo di grande impatto chiamato Just Feel Better, estratto dall'album All That I Am in cui Carlos Santana duettava con altri valenti artisti. La canzone aveva girato un sacco in radio e tv, approdando (seppure senza Steven Tyler alla voce) perfino su RAI 1 nel contenitore RockPolitik condotto da Adriano Celentano. Ma soprattutto, all'epoca (come adesso) non potevo prevedere il futuro: ad esempio, non potevo sapere che l'opportunità di andare a vedere gli Aerosmith a Venezia nel luglio del 2007 sarebbe stata spazzata via da un uragano che ancora oggi maledico, non potevo sapere che di questo glorioso gruppo saremmo stati a lungo senza avere notizie (fino al 2012, anno di uscita dello scadente Music From Another Dimension) e infine non potevo sapere che Steven Tyler sarebbe riapparso sulle scene con un proprio progetto solista dai media definito "country" e con una canzone (Love Is Your Name) talmente brutta che non sfigurerebbe nella programmazione di Canale Italia. A parte che aggettivando il pezzo come "country" i giornalisti dimostrano davvero di non essere in possesso di un numero di vocaboli superiore a dodici e di saperli pure impiegare male, a parte che il video sembra destinato alle dozzinali hits di Avicii o al limite ad uno spot della Marlboro Classics, Love Is Your Name mi ha davvero deluso. Pare che un intero album solista di questo genere sia in arrivo nell'inverno e temo che non deluderà queste bassissime aspettative.
Un altro cantante pieno di sè che proprio non ce la può fare (come, del resto, non ce la fanno neanche i suoi Killers) è quel farfallone di Brendon Flowers, che si crede il novello Julian Casablancas e torna ad angosciarci con i sintetizzatori post-tutto di The Desidered Effect (Virgin Records, ★). Opera insulsa e vuota, riesce a suonare peggio perfino del precedente Flamingo (2010): un'impresa ardua, ma in questo caso riuscita. E poi come si può parlare bene di un disco sulla cui copertina campeggia quello che sembra essere un mezzo busto sfuocato del premier Renzi?
Di un altro pianeta è invece il lavoro di un esordiente che ha solo un anno meno di Flowers e vanta una gavetta ben più faticosa e onorevole, trascorsa lontano da Las Vegas e dai riflettori: mi riferisco all'Angeleno (Six Shooter Records, ★★★½) di Sam Outlaw, inventore di un affascinante SoCal country (SoCal sta per Southern California), poeta in erba, ultimo pupillo uscito dalla scuderia di Ry Cooder, che produce e suona sul disco. Da noi dovrebbe distribuirlo Universal in settembre, mentre negli USA è già considerato uno degli album alternative country migliori dell'anno. E' possibile ascoltarlo in streaming su Bandcamp o su YouTube, e credetemi: ne vale davvero la pena.
Dispiace ammetterlo, ma virando su sonorità decisamente più heavy sono usciti dischi davvero deludenti (con qualche eccezione): primo fra tutti, VII: Sturm Und Drang dei Lamb Of God (Nuclear Blast, ★★), una delle band cardine di tutto il groove metal americano. Dotati di una tecnica strabiliante e protagonisti di uno show fra i migliori che il mondo del metal abbia mai saputo offrire, hanno perso la bussola per la produzione in studio già da diversi anni. Indigeribile anche l'ennesimo manuale di masturbazione chitarristica firmato Joe Satriani: Shockwave Supernova (Sony Music, ★★) registrato negli Skywalker Sound di George Lucas, stucca dopo due tracce e mezza. Perciò che dire? L'unico disco del genere che mi sento di segnalare è il granitico Prometheus, Symphonia Ignis Divinus (Nuclear Blast, ★★★½) dei Rhapsody. Attenzione: non dei Rhapsody Of Fire (di recente comparsi al Festival dell'Unicorno di Vinci), ma dei Luca Turilli's Rhapsody (per chi scrive, quelli veri). Impegnativo oltremisura, tridimensionale come solo la band di Turilli sa suonare, carico di quella passione e di quell'impeto che da sempre rappresentano gli ingredienti cardine della più grande band symphonic metal del mondo: una band italianissima.
Così come tutta italiana è la Gnola Blues Band, che cavalca l'onda da venticinque anni con sfilze di concerti, tour e partecipazioni a festival e che è tornata in studio per far uscire Down The Line (Appaloosa Records, ★★★½), fra i cui solchi si segnalano tanti pezzi degni di nota. Collaborano l'inossidabile Edward Abbiati e, nella cover di Ventilator Blues, alle tastiere, un vero mito: Chuck Leavell (Allman Brothers Band, Sea Level, Rolling Stones). Già ascoltato a maggio, si è rivelato essere un ottimo disco estivo, nonchè uno dei migliori usciti dalla fucina del rock italiano.
Restando sugli Stones: va bene che la leggenda non finisce mai, va bene che non vanno mai in ferie e che il loro Zip Code Tour americanp ha raccolto, fra maggio e luglio, l'invidiabile cifra di centodieci milioni di dollari, ma era proprio necessario far uscire Sticky Fingers Live (Rolling Stones Records, ★★)? L'album viene riproposto integralmente dal vivo il 20 maggio 2015 al Fonda Theater di Los Angeles, di fronte a soli 1200 appassionati. Uno show becero, urlato e pompato, un set dove va disperdendosi ogni arcana energia che continua a contraddistinguere le canzoni originali (o le vecchie riproposizioni dal vivo). Da trascurare. Con fierezza.
Da reperire, al contrario, lo splendido Live At Ebbets Field (Klondike Records, ★★★★) di Muddy Waters. La scaletta è delle migliori, la band del '73 magari non è paragonabile a quella del '77, ma la partecipazione di B.B. King rende tutto più magico. Un remastering riuscitissimo e un buon prezzo fanno il resto.
Chioso con due parole su un gruppo che ho sempre amato, più per l'innata simpatia dei suoi componenti che non per gli esiti artistici in sè: i Darkness. I Darkness, capitanati dai fratelli Hawkins, irruppero nel panorama hard rock di inizio nuovo millennio con Permission To Land (2003), un disco diversissimo da tutta l'imperante offerta nu-metal in voga in quel periodo. Le loro canzoni miravano a recuperare l'humus vitale di complessi come AC/DC, Deep Purple e Van Halen. Justin Hawkins era un frontman nato troppo tardi (o troppo presto?). Erano inglesi, e gli inglesi sanno meglio di tutti cosa ci vuole per fare di una band una grande band. Coi soldi guadagnati grazie al fortunato esordio comprarono una montagna di cocaina e produssero un album funambolico e ambizioso: One Way Ticket To Hell... And Back (2006). Di nuovo bellissimo. Poi la crisi, lo scioglimento, i mediocri progetti solisti (gli Hot Legs di Justin, gli Stone Colds di Dan) e la rinascita, nel 2011. Hot Cakes uscì l'anno dopo e deluse molti, me compreso. Di recente, però, ho guardato un video dal vivo della band e davvero non sono riuscito a trovare un difetto alla performance: forse una durata irrisoria (ma oggi i concerti durano tutti inesorabilmente poco) e magari canzoncine non sempre all'altezza. Ma Justin ha una bella voce, sa trattenere il pubblico splendidamente e tutti insieme tengono banco alla grande. Anche il nuovo album, Last Of Our Kind (Kobalt Label Services, ★★★), è divertente, cattivello, zeppo di grandi riff e di umori medievaleggianti. Serve altro?
Un altro cantante pieno di sè che proprio non ce la può fare (come, del resto, non ce la fanno neanche i suoi Killers) è quel farfallone di Brendon Flowers, che si crede il novello Julian Casablancas e torna ad angosciarci con i sintetizzatori post-tutto di The Desidered Effect (Virgin Records, ★). Opera insulsa e vuota, riesce a suonare peggio perfino del precedente Flamingo (2010): un'impresa ardua, ma in questo caso riuscita. E poi come si può parlare bene di un disco sulla cui copertina campeggia quello che sembra essere un mezzo busto sfuocato del premier Renzi?
Di un altro pianeta è invece il lavoro di un esordiente che ha solo un anno meno di Flowers e vanta una gavetta ben più faticosa e onorevole, trascorsa lontano da Las Vegas e dai riflettori: mi riferisco all'Angeleno (Six Shooter Records, ★★★½) di Sam Outlaw, inventore di un affascinante SoCal country (SoCal sta per Southern California), poeta in erba, ultimo pupillo uscito dalla scuderia di Ry Cooder, che produce e suona sul disco. Da noi dovrebbe distribuirlo Universal in settembre, mentre negli USA è già considerato uno degli album alternative country migliori dell'anno. E' possibile ascoltarlo in streaming su Bandcamp o su YouTube, e credetemi: ne vale davvero la pena.
Dispiace ammetterlo, ma virando su sonorità decisamente più heavy sono usciti dischi davvero deludenti (con qualche eccezione): primo fra tutti, VII: Sturm Und Drang dei Lamb Of God (Nuclear Blast, ★★), una delle band cardine di tutto il groove metal americano. Dotati di una tecnica strabiliante e protagonisti di uno show fra i migliori che il mondo del metal abbia mai saputo offrire, hanno perso la bussola per la produzione in studio già da diversi anni. Indigeribile anche l'ennesimo manuale di masturbazione chitarristica firmato Joe Satriani: Shockwave Supernova (Sony Music, ★★) registrato negli Skywalker Sound di George Lucas, stucca dopo due tracce e mezza. Perciò che dire? L'unico disco del genere che mi sento di segnalare è il granitico Prometheus, Symphonia Ignis Divinus (Nuclear Blast, ★★★½) dei Rhapsody. Attenzione: non dei Rhapsody Of Fire (di recente comparsi al Festival dell'Unicorno di Vinci), ma dei Luca Turilli's Rhapsody (per chi scrive, quelli veri). Impegnativo oltremisura, tridimensionale come solo la band di Turilli sa suonare, carico di quella passione e di quell'impeto che da sempre rappresentano gli ingredienti cardine della più grande band symphonic metal del mondo: una band italianissima.
Così come tutta italiana è la Gnola Blues Band, che cavalca l'onda da venticinque anni con sfilze di concerti, tour e partecipazioni a festival e che è tornata in studio per far uscire Down The Line (Appaloosa Records, ★★★½), fra i cui solchi si segnalano tanti pezzi degni di nota. Collaborano l'inossidabile Edward Abbiati e, nella cover di Ventilator Blues, alle tastiere, un vero mito: Chuck Leavell (Allman Brothers Band, Sea Level, Rolling Stones). Già ascoltato a maggio, si è rivelato essere un ottimo disco estivo, nonchè uno dei migliori usciti dalla fucina del rock italiano.
Restando sugli Stones: va bene che la leggenda non finisce mai, va bene che non vanno mai in ferie e che il loro Zip Code Tour americanp ha raccolto, fra maggio e luglio, l'invidiabile cifra di centodieci milioni di dollari, ma era proprio necessario far uscire Sticky Fingers Live (Rolling Stones Records, ★★)? L'album viene riproposto integralmente dal vivo il 20 maggio 2015 al Fonda Theater di Los Angeles, di fronte a soli 1200 appassionati. Uno show becero, urlato e pompato, un set dove va disperdendosi ogni arcana energia che continua a contraddistinguere le canzoni originali (o le vecchie riproposizioni dal vivo). Da trascurare. Con fierezza.
Da reperire, al contrario, lo splendido Live At Ebbets Field (Klondike Records, ★★★★) di Muddy Waters. La scaletta è delle migliori, la band del '73 magari non è paragonabile a quella del '77, ma la partecipazione di B.B. King rende tutto più magico. Un remastering riuscitissimo e un buon prezzo fanno il resto.
Chioso con due parole su un gruppo che ho sempre amato, più per l'innata simpatia dei suoi componenti che non per gli esiti artistici in sè: i Darkness. I Darkness, capitanati dai fratelli Hawkins, irruppero nel panorama hard rock di inizio nuovo millennio con Permission To Land (2003), un disco diversissimo da tutta l'imperante offerta nu-metal in voga in quel periodo. Le loro canzoni miravano a recuperare l'humus vitale di complessi come AC/DC, Deep Purple e Van Halen. Justin Hawkins era un frontman nato troppo tardi (o troppo presto?). Erano inglesi, e gli inglesi sanno meglio di tutti cosa ci vuole per fare di una band una grande band. Coi soldi guadagnati grazie al fortunato esordio comprarono una montagna di cocaina e produssero un album funambolico e ambizioso: One Way Ticket To Hell... And Back (2006). Di nuovo bellissimo. Poi la crisi, lo scioglimento, i mediocri progetti solisti (gli Hot Legs di Justin, gli Stone Colds di Dan) e la rinascita, nel 2011. Hot Cakes uscì l'anno dopo e deluse molti, me compreso. Di recente, però, ho guardato un video dal vivo della band e davvero non sono riuscito a trovare un difetto alla performance: forse una durata irrisoria (ma oggi i concerti durano tutti inesorabilmente poco) e magari canzoncine non sempre all'altezza. Ma Justin ha una bella voce, sa trattenere il pubblico splendidamente e tutti insieme tengono banco alla grande. Anche il nuovo album, Last Of Our Kind (Kobalt Label Services, ★★★), è divertente, cattivello, zeppo di grandi riff e di umori medievaleggianti. Serve altro?
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