lunedì 31 agosto 2015

Un saluto a Wes Craven (dal profondo della notte) [Ombre elettriche]

Wes Craven
(2/8/1939-30/8/2015)

Wes Craven è morto ieri notte per un tumore al cervello. Poteva continuare a fare il docente universitario e coltivare i propri hobby (ascoltare musica rock e passare le serate a guardare film nei cinema della sua Cleveland), ma quarantacinque anni fa pensò bene di licenziarsi dalla John Hopkins University e di farsi assumere come montatore e factotum presso una piccola casa di produzione del Midwest specializzata in filmetti pornografici.
Ha codificato generi e inventato sottogeneri. Ha creato uno degli assassini più spaventosi della storia del cinema. Ha girato, in egual misura, capolavori e tanta spazzatura. Ha anche riportato in vita l'horror, con un film (Scream) che nessuno ha preso sul serio ma che è forse stata la sua operazione più geniale (come, del resto, ha dimostrato il bellissimo quarto capitolo della saga, uscito pochi anni fa). Si è concesso qualche camminata in territori (molto americani) che gli si confacevano poco ma che comunque lo incuriosivano quali la commedia o il musical.
Recentemente, mi è capitato di vedere My Soul To Take (2010), una produzione difficile, che in Italia è arrivata, squallidamente, direct-to-video. Ho iniziato a guardarlo senza sapere di chi fosse la regia. <<Porca miseria, se questo sa girare!>>, mi sono detto dopo dieci minuti. Poi ho cliccato il tasto info sul telecomando e ho letto il suo nome. Mi ha fatto piacere. Da qualche parte, era rimasto un bel film di Wes Craven che non avevo ancora visto.

venerdì 28 agosto 2015

Motorhead, "Bad Magic" [Suggestioni uditive]

Motorhead, 
Bad Magic (Warner Music, 2015)

★★★½














Ormai è una faccenda privata, una sfida tra Lemmy Kilmister e il Demonio: se il primo, stella settantenne del rock più duro che ha da poco iniziato l'inevitabile parabola discendente della vita salutare, riuscirà a domare il secondo, o se sarà il Demonio a vincere e scaraventarlo definitivamente in qualche sanitario svizzero. Di questo e poco altro parlano i dischi dei Motorhead usciti da Inferno (2004) in poi e prodotti da Cameron Webb, e di questo parla pure il nuovo Bad Magic,  un canto bello di un hard rock un po' cafone ma molto umano che sopravvive negli anfratti dell'industria musicale e nel cuore di certi appassionati.
La storia di questo immenso bassista, frontman cocciuto e tutto di un pezzo, della sua andatura un po' faticosa (quasi da cowboy) e al contempo energica, della sua voce fioca nelle interviste ma ruggente dal vivo e sui dischi, è una leggenda che si ascolta sempre volentieri, specie se scandita nei tredici capitoletti della tracklist. Victory Or Die è l'ennesimo assalto frontale contro i propri nemici, Thunder & Lightning un discreto (non di più) singolo promozionale, Fire Storm Hotel descrive la rivalsa del pioniere dell'hard rock sconfitto dalla "civiltà" del music-business odierno. Electricity, secondo singolo estratto, è uno dei migliori momenti di tutto Bad Magic e racconta quel poco che è rimasto dell'autentico spirito hard rock: il rito delle corna, qualche pogo, gli stivali, i chiodi di pelle e personaggi che ormai fanno parte di un folklore preciso. La breve The Devil sfoggia uno sfolgorante assolo di Brian May, ospite alla chitarra, mentre Evil Eye o Teach Them How To Bleed scorrono via senza impressionare nessuno: nulla di nuovo per chi sa bene quanti riempitivi possano contenere i dischi dei Motorhead. L'ululato autobiografico torna su Till The End, che dimostra quanto ancora possa valere Lemmy in termini di songwriter. Anche dalle righe del malinconico testo di When The Sky Comes Looking For You emerge qualcosa di più puro e resistente delle divise patinate e dell'ansia di denaro dei pescecani musicali: sotto a tutto c'è il cuore del rock&roll genuino e ruspante che batte, c'è la solidarietà istintiva di una famiglia a giro da quarant'anni come i Motorhead stessi, c'è l'affetto degli inossidabili fans sempre pronti, quando attaccano quei famosi quattro accordi di basso distorto, a gettarsi nella mischia.
Quanto assomiglia (nello spirito) ai primi album dei Rolling Stones (omaggiati, alla fine, nella cover di Sympathy For The Devil) questo Bad Magic, realizzato, nonostante tutto, negli anni di un inevitabile tramonto. I Motorhead hanno già realizzato che la violenza del potere, del denaro e dello stesso animo umano hanno fatto piazza pulita dello spirito del rock&roll. Eppure credono ancora che possa esistere un collante, un'emozione, un sentimento che per un attimo riporti tutto alle proprie radici. E che un cowboy di Stoke-on-Trent, anziano e ostinato, possa prendersi la rivincita su un Demonio imbattibile. 

martedì 25 agosto 2015

Ant-Man [Recensione]

Da alcuni anni, l'attesa per l'uscita di un film non è più generata da quella che, quando ero bambino, veniva sponsorizzata con una striscia adesiva colorata recante la scritta "In contemporanea con l'uscita nazionale" e affissa sulle locandine di certi cinema, bensì dalle aspettative costruite a tavolino e grazie ai nuovi mezzi di informazione con un anticipo di settimane, mesi, talvolta di anni. Più di un film si parla di anticipo, maggiore sarà l'impatto che questo avrà sul pubblico e, di conseguenza, sul botteghino. Chi dispone- come il sottoscritto -di un account Facebook potrà notare che il social network per eccellenza è ormai divenuto il luogo di elezione di questa tendenza. Milioni di visualizzazioni di un trailer lungo trenta secondi possono fare grosse differenze (e talvolta compromettere l'uscita, se non la lavorazione stessa, di una pellicola). 
Ant-Man di Peyton Reed, film Marvel dell'estate 2015, si è concesso il lusso di venire meno a tutte queste regoline. Hanno iniziato a lavorarci, difficoltosamente, nel 2006, hanno tenuto un soggetto eccellente firmato da un geniaccio come Edgar Wright (purtroppo rimosso, nel 2012, dal ruolo di regista), hanno modificato il cast dozzine di volte e lo hanno distribuito fuori dagli USA con un mese di ritardo (un fatto che ha dell'incredibile, se si pensa alla fobia dello spoiler che da sempre affligge i cinefumettari più puri). La campagna promozionale e il trailer sono divenuti fenomeni virali del web in men che non si dica, ma al botteghino il film si è rivelato comunque il peggiore esordio Marvel dai tempi dell'Incredibile Hulk. La verità è che Ant-Man è una commedia abilmente miscelata col film supereroico, nonchè la migliore pellicola sfornata dalla Fabbrica delle Idee in questo 2015, meno piaciona dell'ultimo Avengers, meno "kolossale" (ma molto vicina, a livello di spirito) dei Guardiani della Galassia e più fresca e inaspettata della media dei cinecomics attuali.
Sceneggiatura di Edgar Wright da Oscar, effetti speciali più economici (per quanto economica possa sforzarsi di essere la Disney), casting coraggiosissimo e pieno di sorprese: da un immenso Michael Douglas al perfetto Paul Rudd, passando per Evangeline Lilly (già notata nel ruolo di Tauriel nei due ultimi Hobbit) e Michael Pena. Battute da antologia come piovesse, e stesso dicasi delle situazioni demenziali da manuale. Quando poi ho visto il Trenino Thomas assumere grandezza naturale, ho riso come non ridevo da tempo.
Infine, vale la pena sottolineare che l'inserimento nel Cinematic Universe di un super-eroe nuovo e molto diverso dai vari Thor, Iron Man, Captain America e compagnia cantante viene portato avanti con grande naturalezza. Tanto per ridimostrare che- comunque vada -il modo di fare serialità della Marvel si dimostra sempre vincente.

sabato 22 agosto 2015

Buddy Guy, "Born To Play Guitar" [Suggestioni uditive]

Buddy Guy,
Born To Play Guitar (RCA, 2015)

★★★½

















In ordine sparso, i miei dieci chitarristi blues (neri) preferiti: Muddy Waters, John Lee Hooker, Freddie King, Howlin'Wolf, Lightnin'Hopkins, Albert King, Willie Dixon, B.B. King, Albert Collins, Otis Rush. Dov'è Buddy Guy? Semplice: Buddy Guy non c'è, non è mai stato uno dei miei bluesmen preferiti e l'ho sempre trovato meno geniale di Hooker o Waters, meno frizzante di B.B. King e meno incisivo di Howlin'Wolf. Ma soprattutto, il grande album di Buddy Guy è sempre mancato nella mia collezione, anche se negli ultimi anni, sotto l'egida del produttore Tom Hambridge e con diverse etichette, ha sfornato cose notevoli: prima Skin Deep (2008), poi il doppio, simpatico Rhythm & Blues (2013), adesso questo Born To Play Guitar pieno di groove e di un blues bellino fresco, estivo, di agile fruizione come è giusto che sia lo stile di Chicago.
Born To Play Guitar parte come un motore diesel, con una title-track davvero degna di nota, e prosegue con la devastante Wear You Out, dove alla voce e alla chitarra Buddy viene affiancato da Billy Gibbons. In tutte le prime sei tracce l'album non conosce mezzo secondo di cedimento: i duetti con Kim Wilson sono ottimi e Whiskey, Beer & Wine è già uno degli apici del repertorio del Buddy Guy 2.0. Imperdonabili, in quanto a bruttezza, il duetto (Baby) You Got What It Takes con Joss Stone, la lisergica Crazy World, con quello wah-wah che straborda da tutti gli angoli e non porta da nessuna parte. Notevole la triade di chiusura: il bel ritorno alle proprie origini agricole di Thick Like Mississippi Mud, la brillante Flesh & Bone (dedicata a B.B. King e cantata con un Van Morrison che qui vale da solo tutti i suoi Duets) e poi la malinconica Come Back Muddy.
In mano a Buddy Guy, ogni standard si trasforma in un blues colorato e ricco di attitudini diverse, ma, al di là della matematica maestria dell'autore nella costruzione di questi brani, quello che colpisce in Born To Play Guitar è come questo 79enne della Louisiana riesca a delineare certe sfumature di un genere talmente antico e cristallizzato e a renderle comunque attualissime.  

martedì 11 agosto 2015

"True Detective", 2x08 [Recensione]

Brevemente.
Un finale di stagione da novanta minuti è già un evento.
Omega Station- laddove omega sottende un'idea di finalità, di conclusione, di risoluzione -chiude la seconda stagione del miglior serial thriller uscito sul piccolo schermo negli ultimi anni. Di True Detective 2 hanno forse finito per contare di più le immagini delle parole, e in questa ottava puntata di sequenze che ti affettano il cuore e scandagliano l'anima ce ne sono dal primo all'ultimo minuto. 
Ani e Ray che, sul confessionale pagano che è un letto matrimoniale, si raccontano i rispettivi segreti incoffessabili.
Velcoro che scende di macchina col cappello da cowboy.
L'assalto alla capanna di Osip.
La ripresa aerea (analoga a quella della prima stagione) sui luoghi cardine di tutta la storia.
Le visioni di Frank nel deserto, quasi fosse un moderno profeta Ezechiele. 
Il piccolo Chad che si volta a guardare suo padre.
Ray che manda gli occhi al cielo nel bosco.
E poi questa canzone:


Grazie, Nic Pizzolatto. Ti è riuscito di nuovo ed è stato uno spettacolo emozionante. Diversamente bello dal precedente e forse meno perfetto. Ma del resto, come diceva Pessoa, "l'amore ama solo le cose imperfette". 

lunedì 10 agosto 2015

Ascolti per una calda estate (Seconda parte) [Suggestioni uditive]

Luci al neon proiettate su una bottiglia di whiskey. 
Controvoci. 
In un angolo il fantasma di Rufus Thomas ascolta i suoni del tempo che passa.
Donne vestite di viola e smeraldo portano i simboli di religioni sconosciute e croci pesanti, abbandonate nel pensiere ma strette fra i seni. 
Neri e bianchi uniti. 
Fumo di sigaretta si fa spazio fra i bicchieri tintinnanti. Un tintinnio divenuto musica. Malinconia della musica.
Garcon, caffè!
Dall'ingresso, riprende e coglie tutto ciò Martin Scorsese. Il cinema vedrà il Blues.
La morte è lontana. 
Sul palco, il Demone delle Grida accompagnato dal suo Gemello Tossico. 
In piedi, di fronte a loro, altri due gemelli. 
Il bacio del Demone è leggenda. Mano affusolata posta sul retro del collo, al centro. Bocca spalancata. Una bocca di sogno.
Il suo bacio, bacio di chi fa il blues, scivola dentro anima e corpo come il blues scivola dentro la musica. 
Melodia più dolce non l'hai mai sentita. 
Apollo gliene sarà grato.

Questo è quanto scrivevo sul diario, il 2 maggio 2006, pensando alla voce di Steven Tyler (e credo, più in generale, alla musica degli Aerosmith), mito, poeta e cantore di una stagione sregolata e romantica della mia vita. Ciò che all'epoca non sapevo (o fingevo di non sapere) era che Tyler stava già accantonando la band per dedicarsi a champagne, mignotte e musica mediocre. Peccato, perchè il 13 dicembre del 2005 era uscito un singolo di grande impatto chiamato Just Feel Better, estratto dall'album All That I Am in cui Carlos Santana duettava con altri valenti artisti. La canzone aveva girato un sacco in radio e tv, approdando (seppure senza Steven Tyler alla voce) perfino su RAI 1 nel contenitore RockPolitik condotto da Adriano Celentano. Ma soprattutto, all'epoca (come adesso) non potevo prevedere il futuro: ad esempio, non potevo sapere che l'opportunità di andare a vedere gli Aerosmith a Venezia nel luglio del 2007 sarebbe stata spazzata via da un uragano che ancora oggi maledico, non potevo sapere che di questo glorioso gruppo saremmo stati a lungo senza avere notizie (fino al 2012, anno di uscita dello scadente Music From Another Dimension) e infine non potevo sapere che Steven Tyler sarebbe riapparso sulle scene con un proprio progetto solista dai media definito "country" e con una canzone (Love Is Your Name) talmente brutta che non sfigurerebbe nella programmazione di Canale Italia. A parte che aggettivando il pezzo come "country" i giornalisti dimostrano davvero di non essere in possesso di un numero di vocaboli superiore a dodici e di saperli pure impiegare male, a parte che il video sembra destinato alle dozzinali hits di Avicii o al limite ad uno spot della Marlboro Classics, Love Is Your Name mi ha davvero deluso. Pare che un intero album solista di questo genere sia in arrivo nell'inverno e temo che non deluderà queste bassissime aspettative. 
Un altro cantante pieno di sè che proprio non ce la può fare (come, del resto, non ce la fanno neanche i suoi Killers) è quel farfallone di Brendon Flowers, che si crede il novello Julian Casablancas e torna ad angosciarci con i sintetizzatori post-tutto di The Desidered Effect (Virgin Records, ). Opera insulsa e vuota, riesce a suonare peggio perfino del precedente Flamingo (2010): un'impresa ardua, ma in questo caso riuscita. E poi come si può parlare bene di un disco sulla cui copertina campeggia quello che sembra essere un mezzo busto sfuocato del premier Renzi?
Di un altro pianeta è invece il lavoro di un esordiente che ha solo un anno meno di Flowers e vanta una gavetta ben più faticosa e onorevole, trascorsa lontano da Las Vegas e dai riflettori: mi riferisco all'Angeleno (Six Shooter Records, ★★★½) di Sam Outlaw, inventore di un affascinante SoCal country (SoCal sta per Southern California), poeta in erba, ultimo pupillo uscito dalla scuderia di Ry Cooder, che produce e suona sul disco. Da noi dovrebbe distribuirlo Universal in settembre, mentre negli USA è  già considerato uno degli album alternative country migliori dell'anno. E' possibile ascoltarlo in streaming su Bandcamp o su YouTube, e credetemi: ne vale davvero la pena.
Dispiace ammetterlo, ma virando su sonorità decisamente più heavy sono usciti dischi davvero deludenti (con qualche eccezione): primo fra tutti, VII: Sturm Und Drang dei Lamb Of God (Nuclear Blast, ★★), una delle band cardine di tutto il groove metal americano. Dotati di una tecnica strabiliante e protagonisti di uno show fra i migliori che il mondo del metal abbia mai saputo offrire, hanno perso la bussola per la produzione in studio già da diversi anni. Indigeribile anche l'ennesimo manuale di masturbazione chitarristica firmato Joe Satriani: Shockwave Supernova (Sony Music, ★★) registrato negli Skywalker Sound di George Lucas, stucca dopo due tracce e mezza. Perciò che dire? L'unico disco del genere che mi sento di segnalare è il granitico Prometheus, Symphonia Ignis Divinus (Nuclear Blast, ★★★½) dei Rhapsody. Attenzione: non dei Rhapsody Of Fire (di recente comparsi al Festival dell'Unicorno di Vinci), ma dei Luca Turilli's Rhapsody (per chi scrive, quelli veri). Impegnativo oltremisura, tridimensionale come solo la band di Turilli sa suonare, carico di quella passione e di quell'impeto che da sempre rappresentano gli ingredienti cardine della più grande band symphonic metal del mondo: una band italianissima.
Così come tutta italiana è la Gnola Blues Band, che cavalca l'onda da venticinque anni con sfilze di concerti, tour e partecipazioni a festival e che è tornata in studio per far uscire Down The Line (Appaloosa Records, ★★★½), fra i cui solchi si segnalano tanti pezzi degni di nota. Collaborano l'inossidabile Edward Abbiati e, nella cover di Ventilator Blues, alle tastiere, un vero mito: Chuck Leavell (Allman Brothers Band, Sea Level, Rolling Stones). Già ascoltato a maggio, si è rivelato essere un ottimo disco estivo, nonchè uno dei migliori usciti dalla fucina del rock italiano.
Restando sugli Stones: va bene che la leggenda non finisce mai, va bene che non vanno mai in ferie e che il loro Zip Code Tour americanp ha raccolto, fra maggio e luglio, l'invidiabile cifra di centodieci milioni di dollari, ma era proprio necessario far uscire  Sticky Fingers Live (Rolling Stones Records, ★★)? L'album viene riproposto integralmente dal vivo il 20 maggio 2015 al Fonda Theater di Los Angeles, di fronte a soli 1200 appassionati. Uno show becero, urlato e pompato, un set dove va disperdendosi ogni arcana energia che continua a contraddistinguere le canzoni originali (o le vecchie riproposizioni dal vivo). Da trascurare. Con fierezza.
Da reperire, al contrario, lo splendido Live At Ebbets Field (Klondike Records, ★★★★) di Muddy Waters. La scaletta è delle migliori, la band del '73 magari non è paragonabile a quella del '77, ma la partecipazione di B.B. King rende tutto più magico. Un remastering riuscitissimo e un buon prezzo fanno il resto.
Chioso con due parole su un gruppo che ho sempre amato, più per l'innata simpatia dei suoi componenti che non per gli esiti artistici in sè: i Darkness. I Darkness, capitanati dai fratelli Hawkins, irruppero nel panorama hard rock di inizio nuovo millennio con Permission To Land (2003), un disco diversissimo da tutta l'imperante offerta nu-metal in voga in quel periodo. Le loro canzoni miravano a recuperare l'humus vitale di complessi come AC/DC, Deep Purple e Van Halen. Justin Hawkins era un frontman nato troppo tardi (o troppo presto?). Erano inglesi, e gli inglesi sanno meglio di tutti cosa ci vuole per fare di una band una grande band. Coi soldi guadagnati grazie al fortunato esordio  comprarono una montagna di cocaina e produssero un album funambolico e ambizioso: One Way Ticket To Hell... And Back (2006). Di nuovo bellissimo. Poi la crisi, lo scioglimento, i mediocri progetti solisti (gli Hot Legs di Justin, gli Stone Colds di Dan) e la rinascita, nel 2011. Hot Cakes uscì l'anno dopo e deluse molti, me compreso. Di recente, però, ho guardato un video dal vivo della band e davvero non sono riuscito a trovare un difetto alla performance: forse una durata irrisoria (ma oggi i concerti durano tutti inesorabilmente poco) e magari canzoncine non sempre all'altezza. Ma Justin ha una bella voce, sa trattenere il pubblico splendidamente e tutti insieme tengono banco alla grande. Anche il nuovo album, Last Of Our Kind (Kobalt Label Services, ★★★), è divertente, cattivello, zeppo di grandi riff e di umori medievaleggianti. Serve altro?

domenica 9 agosto 2015

Gregg Allman, "Live Back To Macon, GA" [Suggestioni uditive]

Gregg Allman,
Live Back To Macon, GA
(Rounder Records, 2015, 2 Cd+1 DVD)
★★★★














La parabola umana e artistica di Gregg Allman (nato l'8 dicembre 1947 a Nashville e voce di una delle più grandi rock-band di tutti i tempi) non è aliena ai fallimenti e agli insuccessi, ma negli ultimi anni questo gigante della musica non accenna a sbagliare un colpo. Ne sono dimostrazione non solo i recenti concerti della Allman Brothers Band, ma anche le sue produzioni soliste, dal gradevole live celebrativo All My Friends (2014) fino a quel Low Country Blues (2011) prodotto da T-Bone Burnett che si assestò da subito come il suo migliore disco dai tempi dell'esordio Laid Back (1973).
Con questo Live Back To Macon, GA (registrato nella patria degli Allman il 14 gennaio 2014), invece, la più grande voce del rock sudista firma il proprio album live definitivo e impeccabile, anni luce avanti al pomposo The Gregg Allman Tour (1974), fino ad oggi unica testimonianza del Gregg solista in concerto. La scaletta è perfettamente pensata e passa in rassegna l'intera opera dell'artista, mettendo quasi del tutto da parte il classico repertorio della Allman Brothers Band (fanno eccezione l'immancabile Statesboro Blues, Ain't Wastin' Time No More, Whipping Post, una Hot'Lanta resa incredibilmente jazzy dalla straordinaria sessione fiati presente sul palco e una One Way Out chilometrica, diversa e meravigliosa, come non si sentiva dai tempi  di Eat A Peach). Per il resto, non mancano i grandi classici (Melissa, Queen Of Hearts, These Days e Midnight Rider) e tante sono le sorprese ripescate da album meno riusciti o commercialmente disastrosi. Va da sè che I'm No Angel suona assai migliore di quella sul disco omonimo, così come Brightest Smile In Town, riesumato dal dimenticabile Playin'Up A Storm (1977). Discreta anche la cover di I've Found A Love di Wilson Pickett.
Uniche pecche di Live Back To Macon, GA sono: la totale mancanza di canzoni estratte da Searching For Simplicity (1997), le troppo poche tratte dall'ultimo  Low Country Blues (solo I Can't Be Satisfied) e un prezzo non eccessivamente generoso, specie nella versione deluxe da me subito acquistata (un trentello). Tuttavia, quando anche il secondo cd ha finito di girare nel lettore e si passa al DVD si capisce dove sono finiti quei soldi. E poi la libidine di sentire ancora la voce di questo leone del vecchio Sud sorretta da un gruppo fenomenale (di tutte le formazioni che lo hanno accompagnato dal 1973 in poi, questa è in assoluto la più riuscita) e dal suo inseparabile Hammond B3 non ha prezzo. Un signor live.