mercoledì 17 giugno 2020

Neil Young, "Homegrown" [Suggestioni uditive]

Neil Young,
Homegrown
(Reprise Records)




















Fra il 1974 e il 1975, Neil Young continua, imperterrito, a realizzare le sue avventure musicali sospese fra acustica ed elettricità. Al Broken Arrow, materializza grazie alla magia dell'home-recording i suoi sogni più immediati e capricciosi, gioca con turnisti e compagni di viaggio e si inventa una sfilza di progetti che rendono implausibile qualsiasi collocazione immediata nel circuito discografico ufficiale. Questo accade, in particolare, con due album divenuti leggendari per la scelta del loro creatore di rimandarne puntualmente la pubblicazione: Homegrown e Chrome Dreams. Due viaggi sonori impossibili da percorrere per vie ufficiali, almeno fino ad oggi, quando Homegrown, intanto, ha visto la luce.
Homegrown sembra godere, sin dal primo ascolto, di un concept di fondo: ha come protagonista un artista tormentato che però rifiuta di realizzare un'opera squisitamente sentimentale e così finisce col rifugiarsi nella dimensione agricola del proprio privato. Ne consegue, nel bene e nel male, una galleria di quadretti provinciali e idilliaci dove il country rivisitato di Separate Ways e Try si intreccia con stornelli da coltivatore amatoriale di canapa (Homegrown, qui presente in una alternate version piacevole ma inferiore rispetto a quella apparsa in American Stars N'Bars) e porta Young a varcare la soglia del blues da sala biliardi (We Don't Smoke It No More, che dei blues del Loner non passerà di certo alla storia come il migliore), a intrecciare i sentieri del reading (Florida), ad alzare il volume delle chitarre in quella che è Vacancy (secondo singolo anticipatore e probabilmente miglior brano del disco).
Il messaggio di fondo è ancora affidato al pensiero già esposto nei solchi- quelli sì, geniali -di Time Fades Away: solo la musica può vincere il dolore. E quindi la splendida Mexico, l'arcinota Love is a rose (svelata al mondo, in questa stessa versione, già ai tempi di Decade), Kansas e l'originaria White Line si attestano, da subito, come vertici della produzione più intimista del canadese. Da sottolineare che Little Wing e Star of Bethlehem sono identiche a quelle che compaiono rispettivamente in Hawks & Doves e American Strars N'Bars e vanno ad abbellire questa parabola bucolica. Una novella narrata alla luce della luna del raccolto, una favola in cui il protagonista- seppur con una sua tenerezza -non perdona quelle rockstar che sviliscono la propria dignità artistica e la propria intelligenza (un tema che riaffiorerà, predominante, a fine anni '70 in Rust never sleeps). Un disco che rischia di deludere chi già ne conosceva, per vie traverse, i segreti e l'aspetto, ma pure che si impone su molti altri fronti come un recupero prezioso, un ulteriore tassello imperdibile assemblato nel garage del canadese.

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