Con l'entusiasmo incosciente di un personaggio degno di un romanzo di JD Salinger, Ferruccio salta giù per le scale di una birreria del centro di Pisa. Un tipo pelle e ossa, i capelli
pochi e arruffati, l'abbigliamento da negozio dell'usato e gli occhi
assonnati prigionieri di una montatura in acetato. Si stringe un
pacchetto di sigarette fra le mani mentre cerca di sistemare un mucchio
di riviste musicali e alcuni taccuini raggruppati attorno a una
tracolla di pelle marrone. “Rinunciare al fumo è facile”,
sorride, “L'ho fatto un sacco di volte e mi è anche riuscito
smettere. Invece non ho mai smesso di scrivere. Poco o tanto, ma ho
sempre scritto”.
Lui è in visita ad alcuni amici, ha chiesto che l'intervista fosse una cosa tranquilla e informale, e così ci accomodiamo fuori dove viene ordinato un giro di Negroni per tutti. Gli domando cosa si prova ad essere alla propria seconda pubblicazione ad appena trenta anni. “Sinceramente? Si dà luogo a un trauma. Pubblicare un nuovo libro equivale sempre a espellere una parte preziosa di noi stessi. Ci si distacca da ciò che abbiamo elaborato e creato, non sappiamo come andrà, se verremo compresi e apprezzati, ma il bisogno di provarci è più forte di tutto il resto. L’importante è non ripetersi, ma è un rischio che io non sento di aver corso. Il nuovo libro è completamente diverso da quello prima, a partire dal formato. Questo è un tascabile che potrà accompagnarvi dappertutto, anche alle lezioni di zumba”. A muso duro sull'autostrada, il secondo libro di Ferruccio, è una raccolta di poesie riprese e aggiustate recentemente ma scritte oltre dieci anni fa, “in un periodo che definire tumultuoso sarebbe eufemistico”. Sospinta da elegie e inni come L'ultima pazzia, L'effetto del pino e Limbo buffo, dalle vivaci e satiriche Le dissonanze e Giambo del tirocinante, dalla propulsiva Troppo e dall'epico, silenzioso flusso della conclusiva L'ambra, la raccolta risulta un'esplorazione agrodolce di ciò che un 30enne sente ancora affine alla propria sensibilità umana e letteraria. “Non importa cosa mi passasse per la testa quando le scrissi”, dice, “Non buttai giù queste poesie per pubblicarle. Chi lo pensa commette un errore. Nessuna persona, neanche i miei più cari amici avrebbero mai dovuto leggerle allora. Erano lo sfogo di una fase terribile, incerta. Era come essere a tavola e vedersi servire il contorno a un oscuro pasto emotivo”. Faccio un passo indietro e gli domando se si sente a suo agio in un genere nuovo e contemporaneamente molto discusso come la poesia. “Guarda, per me, è la stessa narrazione che continua sotto forme diverse. Passare da un genere all'altro significa soltanto fare letteratura in un modo diverso, con un registro espressivo differente. Non mi sono mai sentito un poeta qualificato, e non me la sentirei proprio di definirmi un romanziere. Dopo aver scritto poesie tristi e liriche strazianti per affrontare alla meno peggio la mia vita personale, ho deciso di buttare via tutto e salvare solo ciò che davvero, dopo anni, sembrava risultare meritevole. Faccio un altro lavoro, per fortuna, anche perché, se avessi dovuto vivere coi guadagni derivanti dai miei libri, sarei morto da un pezzo”. Ci mettiamo tutti a ridere, mentre facciamo girare a turno i ghiaccioli dei nostri drink.
Chiedo qualche delucidazione in merito al titolo. “C’è un quadro che Rob Springett, un artista molto gettonato negli anni Settanta, dipinse per un disco di Van Morrison che è perfettamente in grado di descrivere le atmosfere oniriche e assurde delle mie poesie. Il titolo dell’album è Hard nose the highway, che significa appunto A muso duro sull’autostrada. Per problemi di copyright non sono riuscito a utilizzare lo stesso dipinto per la copertina del libro, ma mi dispiace relativamente. Salvo un paio di pezzi, quel disco è forse il primo scivolone della carriera interminabile di Morrison. E' prolisso e controverso, non conserva molto delle opere precedenti ed è acerbo rispetto a certe cose che verranno. Molti, invece, hanno creduto da subito che si trattasse di una citazione di quello straordinario pezzo di Pierangelo Bertoli in cui l’autore sprona ad affrontare la vita a muso duro”, e passa a canticchiarne un paio di strofe.
Lui è in visita ad alcuni amici, ha chiesto che l'intervista fosse una cosa tranquilla e informale, e così ci accomodiamo fuori dove viene ordinato un giro di Negroni per tutti. Gli domando cosa si prova ad essere alla propria seconda pubblicazione ad appena trenta anni. “Sinceramente? Si dà luogo a un trauma. Pubblicare un nuovo libro equivale sempre a espellere una parte preziosa di noi stessi. Ci si distacca da ciò che abbiamo elaborato e creato, non sappiamo come andrà, se verremo compresi e apprezzati, ma il bisogno di provarci è più forte di tutto il resto. L’importante è non ripetersi, ma è un rischio che io non sento di aver corso. Il nuovo libro è completamente diverso da quello prima, a partire dal formato. Questo è un tascabile che potrà accompagnarvi dappertutto, anche alle lezioni di zumba”. A muso duro sull'autostrada, il secondo libro di Ferruccio, è una raccolta di poesie riprese e aggiustate recentemente ma scritte oltre dieci anni fa, “in un periodo che definire tumultuoso sarebbe eufemistico”. Sospinta da elegie e inni come L'ultima pazzia, L'effetto del pino e Limbo buffo, dalle vivaci e satiriche Le dissonanze e Giambo del tirocinante, dalla propulsiva Troppo e dall'epico, silenzioso flusso della conclusiva L'ambra, la raccolta risulta un'esplorazione agrodolce di ciò che un 30enne sente ancora affine alla propria sensibilità umana e letteraria. “Non importa cosa mi passasse per la testa quando le scrissi”, dice, “Non buttai giù queste poesie per pubblicarle. Chi lo pensa commette un errore. Nessuna persona, neanche i miei più cari amici avrebbero mai dovuto leggerle allora. Erano lo sfogo di una fase terribile, incerta. Era come essere a tavola e vedersi servire il contorno a un oscuro pasto emotivo”. Faccio un passo indietro e gli domando se si sente a suo agio in un genere nuovo e contemporaneamente molto discusso come la poesia. “Guarda, per me, è la stessa narrazione che continua sotto forme diverse. Passare da un genere all'altro significa soltanto fare letteratura in un modo diverso, con un registro espressivo differente. Non mi sono mai sentito un poeta qualificato, e non me la sentirei proprio di definirmi un romanziere. Dopo aver scritto poesie tristi e liriche strazianti per affrontare alla meno peggio la mia vita personale, ho deciso di buttare via tutto e salvare solo ciò che davvero, dopo anni, sembrava risultare meritevole. Faccio un altro lavoro, per fortuna, anche perché, se avessi dovuto vivere coi guadagni derivanti dai miei libri, sarei morto da un pezzo”. Ci mettiamo tutti a ridere, mentre facciamo girare a turno i ghiaccioli dei nostri drink.
Chiedo qualche delucidazione in merito al titolo. “C’è un quadro che Rob Springett, un artista molto gettonato negli anni Settanta, dipinse per un disco di Van Morrison che è perfettamente in grado di descrivere le atmosfere oniriche e assurde delle mie poesie. Il titolo dell’album è Hard nose the highway, che significa appunto A muso duro sull’autostrada. Per problemi di copyright non sono riuscito a utilizzare lo stesso dipinto per la copertina del libro, ma mi dispiace relativamente. Salvo un paio di pezzi, quel disco è forse il primo scivolone della carriera interminabile di Morrison. E' prolisso e controverso, non conserva molto delle opere precedenti ed è acerbo rispetto a certe cose che verranno. Molti, invece, hanno creduto da subito che si trattasse di una citazione di quello straordinario pezzo di Pierangelo Bertoli in cui l’autore sprona ad affrontare la vita a muso duro”, e passa a canticchiarne un paio di strofe.
Visto anche il tema del precedente libro (Gli anni selvaggi), mi diverto a restare sulla musica. Argomento su cui Ferruccio davvero viaggia a ruota libera: “La musica triste con cui queste poesie si erano sviluppate dieci, dodici anni fa non era necessariamente una lagna lenta e senza speranza. Nel riappropriamene ho scelto, però, un accompagnamento potente. Sai, questo è un bello slancio in avanti per me. Ho approfondito molto l'ascolto di linee semplici, come certe cose che il Boss ha fatto negli anni '80 e questo approccio mi ha aiutato nell'effettuare correzioni altrettanto semplici e lineari”. Ferru passa poi a descrivere quel posto della sua mente da cui è scaturito tutto: “Vivo in questo mondo bellissimo e tragico e faccio del mio meglio per descriverlo, perché mi ha accolto da quando ero un ragazzino e non ne sono più uscito. Deve dipendere dal modo in cui mi connetto ad esso. È un mondo favoloso, visionario, a tratti un po' decadente, tossico senza però l'addizione di una tossicità chimica. All'inizio e dunque da molto tempo, in questo mondo vivevano quaranta poesie. Ne sono sopravvissute ventiquattro, quelle per cui non avevo da
lamentarmi e che non avrei mai potuto disconoscere. Mi sono ritrovato con fogli, agende e taccuini fra le mani che necessitavano solo di quello che i produttori discografici definirebbero editing, ma- te lo giuro -non ho modificato nessun contenuto. Anzi, in alcuni casi non ho cambiato una virgola! Mi sono lasciato libero, nella mia mente, di tagliare e migliorare solo ciò che davvero mi sembrava necessario”. Mi arrischio e domando quale possa essere il tema portante della raccolta. “Mi tocca deluderti. Qua non esiste un tema portante. Al limite, potremmo parlare di un sotto-testo che attraversa, serpeggiando, queste poesie. Spero che
emerga quanto l’autore fosse e sia ancora innamorato della vita. Sono
consapevole della profondità e della disperazione che sentivo quando ho scritto
alcune di queste pagine, ma anche di quanto fosse sciocco per me, al tempo,
pensare che certe cose sarebbero state permanenti. Non lo erano. E questa raccolta non è nata con la volontà di intristire, non vuole far piangere nessuno. È un libro veloce ed euforico, in certi punti perfino un po' lapidario. Lo ha messo insieme uno che potrebbe addormentarsi alle due di notte guardando la sigla di Fuori orario per poi svegliarsi alle 5:00 con delle parole in testa. E cosa fa questo scribacchino principiante? Si alza dal divano e si mette a battere sui tasti del ThinkPad. Scrive un po', fuma una canna, torna a letto, si addormenta e solo allora, dopo aver buttato tutto fuori, è libero di volare via con la sua musa. E la soddisfazione più grande sai da cosa gli deriva? Dalla sensazione di possedere tutto il tempo del mondo per sé”. Mi faccio vedere un po' spaesato da queste ultime elucubrazioni, ma lui non si spazientisce. Anzi, mi dà una pacca sulla spalla sorridendomi. “Riconosco che
sia un discorso complesso e un po’ lungo, forse contorto, perciò- visto che voi
giornalisti avete le lettere numerate e prediligete la sintesi -ti farò
comunque dono di un riassunto della raccolta: A muso duro sull’autostrada è nato per essere letto in una stanza
buia ma guardando la luce che proviene dalla finestra”.
Ci perdiamo un po' nel divagare su poesia e poeti, dopodiché la conversazione verte inevitabilmente sulle sue letture e sulle sue influenze. “Ho avuto modo di leggere molte poesie nella mia vita, ma a conti fatti mi pare che, qualche secolo prima di Cristo, i lirici greci avessero già scritto praticamente tutto quello che valeva la pena leggere. Forse esagero, ma se anche ci fossimo fermati al Cantico dei cantici, saremmo stati a posto. Recentemente ho riletto l'Odissea da cima a fondo, e cosa può raccontare chi è venuto dopo a un libro così? Non gli manca niente ed è poesia che si dipana per tonnellate di pagine. Nel Ventesimo secolo si è scritto buona poesia, per carità. Montale, Eliot, Sylvia Plath, Ezra Pound, Dino Campana, Pasolini, ci mancherebbe. Ah, e Blood on the tracks, ovviamente! Non conosco i poeti contemporanei, né sono in grado di dire dove va la poesia oggi perché non credo di avere le conoscenze e la competenza necessaria a fornire risposte simili. I nuovi poeti italiani, o come si chiamano, per me sono dei completi sconosciuti. Ma se mi domandi delle mie dirette influenze, si potrebbe partire da Alcmane e fermarsi a Robert Hunter”. Una cameriera porta altro Negroni. La conversazione si sposta su concetti più astratti e le domande si vestono di filosofico. Una cosa del tipo: perché poetare? Ferruccio si chiude per un attimo in un difficoltoso silenzio prima di rispondermi. “Ora esagero, ma per me si scrivono poesie quando si ha modo
di scorgere la luce del sole che entra da una finestra di casa e si
sente l'attacco di Jungleland uscirci
dal cervello e rimbombare nella stanza. Si sceglie di fare poesia per
descrivere determinati elementi ed è bello sentirsi fragili e un po'
sopraffatti dagli eventi, in quel momento”. Scende definitivamente il sole e ci incamminiamo verso la macchina. Due chiacchiere veloci sul futuro: “Prima di salutarci, dimmi un po' quali sono le sue intenzioni per i prossimi anni”.
“In questo lungo
viaggio di sconvolgimenti personali e letterari, sono felicissimo
dell’atmosfera rilassata in cui ho appena pubblicato questa raccolta, ma sin da
principio ho messo un punto fermo che mi ricordasse ogni giorno che A muso duro sull’autostrada resterà un
libro di passaggio. Lo scorso giugno- quindi un paio di mesi dopo la
pubblicazione de Gli anni selvaggi
-mi sono rimesso a scrivere senza ben capire dove stessi andando. Avevo in
testa solo la realizzazione di un romanzo, di un’opera di finzione. Ho sovrapposto
una ventina di pagine sconclusionate e quello che ho letto ha finito col
piacermi molto. Da lì sono partito con una mappa concettuale molto precisa e
dei ritmi severi ma difficili da rispettare. Sarà un libro cubista. Ha un
titolo e una trama e per ora somiglia soltanto alla visione di qualcun altro
della mia scrittura. Spero possa rivelarsi un modo di uscire da determinati
elementi e provare nuove cose senza però rinunciare al mio stile e alla mia
personalità. Anche perché sono troppo vecchio per fingere di fregarmene di fare
qualcosa che non è quello che sono”.
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