Tool,
Fear Inocolum
(RCA Records, 2019)
Sin dal loro apparire sulle scene, i Tool rappresentarono una sorta di stella polare del progressive, anche se nel Belpaese, fino al 2006, il loro nome sembrava ricorrere solo fra i palati più raffinati. Dalle mie parti, in un sottobosco prog-metallaro dove i Dream Theater ci avevano metaforicamente abbandonati con la prima di una lunga serie di delusioni (Octavarium) e all'orizzonte si stagliava perlopiù una concorrenza mediocre, una cerchia di ierofanti iniziò a far circolare copie di roba chiamata Undertow, Ænima o Lateralus, cd pieni fino all'orlo degli ottanta minuti, musica che andava sentita in almeno sette od otto per poterla comprendere e i cui artwork geometrici, complessi ed esasperati, venivano fotocopiati a colori dal tabaccaio all'angolo. Quando Luna mi fece ascoltare nelle cuffiette Lateralus- era un'ora di attività alternativa -non capii, o meglio: percepii comunque qualcosa di perversamente fascinoso in questi pezzi, ma non potevo approfondirla camminando nel cortile di scuola con un tramezzino al tonno sullo stomaco.
In ogni caso, era il periodo di carnevale, che nel mio quartiere significava (e significa ancora oggi) strade chiuse, vecchi trattori New Holland a cui venivano attaccati carri bestiame ricolmi di bambini e casse monitor solitamente adibite al liscio che sparavano fuori ritmi latini. Uno spettacolo grottesco e deprimente che tuttavia The Grudge riuscì a spazzare via, coprendone ogni rumore superfluo, ambientale e artificiale, e mostrandomi per quasi un'ora e mezza un luogo che poteva essere solo un miraggio, completamente fuori dalla mia portata, un mondo dove era assente qualsiasi possibilità di esistere. Recuperai i precedenti Undertow e Ænima, ma Lateralus non smetteva di apparirmi come un disco perfetto nel suo genere (e non solo). Circa tre mesi dopo, uscì 10.000 Days, che acquistai in una confezione che, da sola, lasciava prendere piede al dibattito. Mi aspettavo e cercavo la continuità del discorso di una band che non era interessata a barricarsi dietro drum-kit a forma di castello delle fiabe o a mostrarsi smaniosa di raccontare melodrammi spalmati su cinque o sei concept-album e così fu: 10.000 Days era soltanto il frutto del lavoro di un gruppo di musicisti avidi di conoscenze, colti, esploratori di nuovi suoni e molto altro ancora. Eppure parte della critica, pur riconoscendogli determinati meriti, rimase fredda e si iniziò a parlarne come di un "ottimo disco di passaggio" tra due periodi della carriera dei Tool: il primo era quello che aveva preso il via col capolavoro del 2001, e fin lì tutto bene, ma il secondo? Banalmente, il secondo periodo della carriera dei Tool è ora, adesso, in questo balordo 2019, e chi non è in grado di cogliere l'importanza di tutto questo merita solo di ricevere in dono, alla prima occasione, un paio di orecchie nuove in grado di spalancare le ulteriori porte di cui i Tool e pochi altri custodiscono le chiavi.
Non dovrebbe essere difficile immaginare che dopo un silenzio di tredici anni una nuova uscita discografica rappresenti, per un gruppo, un evento importante e pure rischioso. In tal senso, lascio a chi legge il compito di immaginarsi cosa significhi, per una band già non molto propensa alla notorietà e del tutto disinteressata alle dinamiche dello star-system, tornare a proiettarsi sul panorama discografico senza minimamente preoccuparsi di ciò che è accaduto "là fuori" alla musica in quasi tre lustri. Di inutili e spesso stupide battute sulla pigrizia artistica ne ho già sentite a bizzeffe riferite a Chinese Democracy e ormai sono vaccinato. Mi limito a far notare che quando un gruppo di artisti si costruisce un mito solido nella storia della musica con le idee con cui se lo sono costruiti i Tool, cinque dischi in trent'anni sono più che sufficienti. Inoltre, i Tool non sono mai scomparsi dai radar: magari senza annunci né clamori, al cambiare del decennio hanno continuato la loro carriera concertistica con brillanti risultati mettendo a congelare qualsiasi iniziativa di natura discografica, video, cinematografica e uscendo di rado con comunicazioni pubbliche (dall'annuncio ai Grammy del 2008 in cui dissero che erano da poco rientrati in studio a un breve comunicato del 2012 dove veniva riportato che un fantomatico quinto disco fosse più o meno a metà della lavorazione, si è dovuto attendere il 2015 per poter udire- solo in concerto e in una versione perennemente metamorfica -Descending) ma restando sempre disponibili a dialogare col loro fedele pubblico.
Fear Inoculum è l'album più atteso e- superfluo aggiungerlo -ambizioso del panorama musicale contemporaneo. Contiene sette canzoni, tanto lunghe quanto belle: canzoni aliene, fantascientifiche, diverse, oblique, nelle melodie e negli arrangiamenti. Dopo una campagna di pre-order da 38,90€, la confezione "fisica" del disco viene provocatoriamente venduta alla bellezza di 80€ in un boxset che di Fear Inoculum rappresenterà lo stampo fumante, industriale, metallurgico, evolutivo.
Lo scorso 7 agosto, la title-track ha scalato le classifiche digitali di tutto il mondo e ha stuzzicato tutti, soprattutto quella frangia di pubblico che non ce l'aveva fatta ad accaparrarsi i biglietti per il concerto di Firenze (prima data dei Tool nel nostro paese dal 2 settembre 2007). Dura dieci minuti, un record per un singolo nell'era di Spotify, ed non è certo avido di momenti di fascino. Una melodia sospesa e sfuggente, che si modifica ed evolve senza improvvisazioni o inutili orpelli; elementi che evocano il passato della band, ma al tempo appaiono inequivocabilmente nuovi. Echi che vanno e vengono dai confini nebbiosi dell'arrangiamento, rafforzati da tutta la fiumana di video caricati dai fans ansiogeni, dalle versioni mixate, ripulite e immesse su YouTube di Invincible e Descending e dal puro e crudo valore dell'attesa.
Fear Inoculum spalanca le porte a una restante ora e dieci che coglierebbe impreparato chiunque, oltre ad annichilire un morto, a spiazzare il più cinico degli ascoltatori, ad affascinare un veterano collezionista e probabilmente, allo stesso tempo, un poppante che non ha mai ascoltato un pezzo con chitarra, basso e batteria.
Da subito ci si rende conto che l'ascolto di Culling Voices, Pneuma e 7empest evoca l'altro. Spiegare, raccontare quelle che con fatica sono definibili "canzoni" dovrebbe essere il compito di ogni buon critico, ma qui si può soltanto prestare orecchie e anima ad ascoltare. Non occorre fare altro.
Concludo riappropriandomi velocemente di alcune parole che ho espresso su Facebook per condensare Fear Inoculum cercando di prescindere dalla sua natura di clamoroso caso discografico: assolve al compito ultimo delle opere d'arte, riuscendo a far vacillare- nel 2019 della tuttologia globale -le preordinate convinzioni di chiunque. In particolare di chi fomenta giudizi agili su cose che non si conoscono.
Non dovrebbe essere difficile immaginare che dopo un silenzio di tredici anni una nuova uscita discografica rappresenti, per un gruppo, un evento importante e pure rischioso. In tal senso, lascio a chi legge il compito di immaginarsi cosa significhi, per una band già non molto propensa alla notorietà e del tutto disinteressata alle dinamiche dello star-system, tornare a proiettarsi sul panorama discografico senza minimamente preoccuparsi di ciò che è accaduto "là fuori" alla musica in quasi tre lustri. Di inutili e spesso stupide battute sulla pigrizia artistica ne ho già sentite a bizzeffe riferite a Chinese Democracy e ormai sono vaccinato. Mi limito a far notare che quando un gruppo di artisti si costruisce un mito solido nella storia della musica con le idee con cui se lo sono costruiti i Tool, cinque dischi in trent'anni sono più che sufficienti. Inoltre, i Tool non sono mai scomparsi dai radar: magari senza annunci né clamori, al cambiare del decennio hanno continuato la loro carriera concertistica con brillanti risultati mettendo a congelare qualsiasi iniziativa di natura discografica, video, cinematografica e uscendo di rado con comunicazioni pubbliche (dall'annuncio ai Grammy del 2008 in cui dissero che erano da poco rientrati in studio a un breve comunicato del 2012 dove veniva riportato che un fantomatico quinto disco fosse più o meno a metà della lavorazione, si è dovuto attendere il 2015 per poter udire- solo in concerto e in una versione perennemente metamorfica -Descending) ma restando sempre disponibili a dialogare col loro fedele pubblico.
Fear Inoculum è l'album più atteso e- superfluo aggiungerlo -ambizioso del panorama musicale contemporaneo. Contiene sette canzoni, tanto lunghe quanto belle: canzoni aliene, fantascientifiche, diverse, oblique, nelle melodie e negli arrangiamenti. Dopo una campagna di pre-order da 38,90€, la confezione "fisica" del disco viene provocatoriamente venduta alla bellezza di 80€ in un boxset che di Fear Inoculum rappresenterà lo stampo fumante, industriale, metallurgico, evolutivo.
Lo scorso 7 agosto, la title-track ha scalato le classifiche digitali di tutto il mondo e ha stuzzicato tutti, soprattutto quella frangia di pubblico che non ce l'aveva fatta ad accaparrarsi i biglietti per il concerto di Firenze (prima data dei Tool nel nostro paese dal 2 settembre 2007). Dura dieci minuti, un record per un singolo nell'era di Spotify, ed non è certo avido di momenti di fascino. Una melodia sospesa e sfuggente, che si modifica ed evolve senza improvvisazioni o inutili orpelli; elementi che evocano il passato della band, ma al tempo appaiono inequivocabilmente nuovi. Echi che vanno e vengono dai confini nebbiosi dell'arrangiamento, rafforzati da tutta la fiumana di video caricati dai fans ansiogeni, dalle versioni mixate, ripulite e immesse su YouTube di Invincible e Descending e dal puro e crudo valore dell'attesa.
Fear Inoculum spalanca le porte a una restante ora e dieci che coglierebbe impreparato chiunque, oltre ad annichilire un morto, a spiazzare il più cinico degli ascoltatori, ad affascinare un veterano collezionista e probabilmente, allo stesso tempo, un poppante che non ha mai ascoltato un pezzo con chitarra, basso e batteria.
Da subito ci si rende conto che l'ascolto di Culling Voices, Pneuma e 7empest evoca l'altro. Spiegare, raccontare quelle che con fatica sono definibili "canzoni" dovrebbe essere il compito di ogni buon critico, ma qui si può soltanto prestare orecchie e anima ad ascoltare. Non occorre fare altro.
Concludo riappropriandomi velocemente di alcune parole che ho espresso su Facebook per condensare Fear Inoculum cercando di prescindere dalla sua natura di clamoroso caso discografico: assolve al compito ultimo delle opere d'arte, riuscendo a far vacillare- nel 2019 della tuttologia globale -le preordinate convinzioni di chiunque. In particolare di chi fomenta giudizi agili su cose che non si conoscono.
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