Un paio di anni fa, mi persi in una discussione con una conoscente. Nulla di serio, per carità, ma mi impressionò la protervia con cui imponeva- non senza una certa sboccataggine espressiva e lessicale -un determinato messaggio: nella sua visione delle cose, infatti, la musichetta innocua di Tommaso Paradiso doveva per forza parlare a tutti noi poveri disgraziati nati fra le radiazioni di Chernobyl e le macerie del Muro di Berlino. Per gente della nostra età, diceva lei, non amare le canzoni dei Thegiornalisti, non rivedersi nei loro testi da scuola media e nella loro iconografia demenziale (e già di per sé assolutamente non bisognosa di parodie successive), era fisiologicamente impossibile. Non accettò le mie critiche personali (effettivamente severe) né le mie osservazioni (invero ben meno personali e il più oggettive possibile) riguardanti il lato lirico e musicale e chiuse qualsiasi opportunità di dialogo con un bel <<Fai come ti pare, tanto Tommaso Paradiso siamo tutti noi!>>. Tenete presente che in tempi non sospetti ho sentito pontificare la stessa persona su come una sedicente "generazione hipster", purtroppo, non fosse riuscita a cambiare il mondo pur avendone avuto l'occasione e sono stato pure costretto ad ascoltare come mai Bob Dylan dal vivo "non fosse poi 'sta gran cosa". Ecco, quando leggo dei Thegiornalisti al Circo Massimo non mi metto a fare paragoni con chi ha suonato lì prima di loro negli ultimi anni (fra gli altri, Genesis, Rolling Stones, Bruce Springsteen) né devo giustificare a chissà chi i miei gusti (dipendesse da me, questo gruppo non suonerebbe manco al bar sotto casa), ma ripenso a quella discussione e al fatto che, fra i miei progetti di vita, continua a essercene uno molto semplice: fare tutto il contrario di ciò che ha fatto la mia conoscente. E continuare a preferire la profondità alla superficie.
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