Se è vero che nell'estate del 2005 ascoltavo Train of Thought tutte le mattine appena sveglio, nel letto, prima di andare in spiaggia e lo cantavo, facendo air guitar, sulla bici, è anche vero che i Dream Theater non sono mai stati il mio gruppo preferito. Certo che, per vari motivi, un disco come Images and Words se ne sta accanto ai vari Dylan, Guns, Neil Young, Allman, Dead, Stones, Maiden, Lynyrd, Zep e compagnia bella, ma da Octavarium in poi i Dream hanno fatto sempre meno parte della mia vita, dei miei ascolti, delle mie passioni.
Un pezzo del mio cuore continua ad andare verso di loro, chiaramente, ma la sola presenza di James LaBrie (negli ultimi anni graziato da auto-Tune e in lizza per il ruolo dell'imperatore Ming in un remake disneyano di Flash Gordon) sarebbe bastata da tempo a giustificare l'abbandono di qualsiasi appassionato consapevole del fatto che, sì, c'è vita (e c'è progressive music) oltre i Dream Theater.
A questa personale idiosincrasia negli anni si sono aggiunti, in ordine sparso: un cospicuo numero di album mediocri o direttamente inascoltabili; l'atteggiamento di restrizione intellettuale della loro fanbase prog-metallara (si veda la recente, demenziale indignazione per l'ingaggio più che secondario al Firenze Rocks); il fatto che, all'interno di un sedicente panorama progressive contemporaneo, le band egemoni siano altre e che tutte propongano musica che spesso conquista il mio interesse e il mio apprezzamento più di quella dei Dream Theater.
Chi legge starà notando l'assenza di critiche a Mike Mangini, e va bene. Anche io vedo Mangini e rido, ma succede ogni qualvolta mi imbatto in un batterista coi guantini dotato di drum-kit a forma di castello di Grayskull o come quando vedo suonare la attuale formazione a tre batterie dei King Crimson (e si parla del più grande complesso progressive di tutti i tempi). Penso che sia normale per un fan di Art Blakey, Bernie Purdie, Levon Helm, Tony Allen o Gene Krupa, ma- andando oltre la risata -non ho mai visto alcuna nemesi o causa di rovine in Mangini. E se davvero pensate che Mike Portnoy sia stato per i Dream Theater ciò che Cliff Burton è stato per i Metallica, beh, cambiate spacciatore velocemente.
Il nuovo Distance Over Time è superiore sia alle mie aspettative che all'inudibile singolo di lancio Untethered Angel (già negli annali del metal per lo sbellicante caso di plagio della copertina, copiata e incollata da quella dei veronesi Twintera). L'identità dell'album, i suoni, il mix, l'impeccabile produzione di Petrucci (sarebbe corretto parlare della sua migliore fino a oggi) iniziano infatti a emergere da Paralyzed, una canzone di quattro minuti a cui non manca niente e dove professionismo e abilità non pesano sull'animo dell'ascoltatore. Le barocche atmosfere- che avevamo apprezzato in pochi -del precedente esperimento teatrale The Astonishing sono molto più che lontane: qua si torna al basso pulsante di Myung e a chitarre che sembrano arrivare da oscure estensioni del cosmo. Lo stesso spirito di immediatezza (il disco dura miracolosamente 56 minuti) permea anche la successiva mini-suite Fall into the Light, devastata nei primi tre minuti da ritornelli che si confarebbero maggiormente ai Modà.
Barstool Warrior stupisce subito per la perfetta architettura su cui viene edificata, poteva essere una canzone sofisticata, eclettica e in grado di alternare momenti di trasognata contemplazione a violente eruzioni strumentali: peccato che James LaBrie intervenga a 1'40'' e rifaccia capolino verso il quinto minuto a minare la credibilità delle geometrie tirate su da Rudess e Petrucci.
Con Room 137 si torna a un metal di sintesi, elettrico, tirato, deturpato da un orrido eco nella parte finale. S2N è il classico caso di canzone progressive troppo lunga ma non interminabile, complessa ma non difficile, un susseguirsi di idee poggiate su un insolito- per i Dream -riff di basso elettrico che aprono le porte a At Wit's End, brutta, bruttissima copia carbone di Paradigm Shift dei LTE che inizia ad assumere un aspetto più credibile dopo quattro minuti, per poi perdersi di nuovo, fra insulsaggini pianistiche e uno sfumato "a sorpresa" messo lì forse per non prendersi troppo sul serio (i Dream Theater, possibile?).
Out of Reach è la canzone con cui i Dream tornano, dopo diversi anni, a rincorrere un'idea di passaggio radiofonico: ballata senza pretese, stretta in un perimetro stilistico ed estetico che potrebbe suscitare gli interessi del pubblico extra-dreamers. Insomma, Another Day, The Silent Man o Hollow Years non sono mai sembrate così lontane, però ascoltare i vocalizzi di LaBrie nei dieci secondi finali senza mettersi a ridere potrebbe rivelarsi un buon esercizio di self-control.
Pale Blue Dot si riappropria di una durata maggiore (otto minuti e mezzo) e lo fa partendo da un impasto di synth spaziale e favoleggiante. Il drumming di Mangini è disinvolto come non mai, le fughe di Rudess- così come le parti di chitarra, sia in arpeggio che solistiche -risultano di grande suggestione. Perfino LaBrie canta con naturalezza. Un tutt'uno solido e compatto che non tiravano fuori da almeno un decennio (e mi riferisco ai buoni momenti contenuti in Black Clouds & Silver Linings).
Non bastano di certo Paralyzed, Barstool Warrior o Pale Blue Dot a fare di Distance Over Time un disco di inarrivabile bellezza, ma questa brevità, questo "alleggerimento"- insolito per un gruppo da tre lustri in piena curva discendente ma profondamente pieno di sé -potrebbero suggerire che la deficienza è solo parziale. Pur trattandosi di un lavoro in retroguardia rispetto ai vertici creativi del 2003-2004, troviamo dei Dream Theater più rilassati e molto legati all'idea di band (il disco è il primo in vent'anni che hanno composto e inciso tutti assieme in neanche venti giorni). L'ambizione strutturale e l'epica strumentale di The Astonishing (che, come scrissi a suo tempo recensendolo, resta tutt'altro che un brutto lavoro ed è la migliore opera post-Portnoy del gruppo) lasciano il passo a canzoni che magari non diverranno dei cult domani ma che oggi scorrono fluide.
Come se non bastasse, il debordante narcisismo di John Petrucci ha trovato la propria ragione di essere in una produzione che, vale la pena ribadirlo, è sopraffina. Magari loro per primi volevano scrollarsi di dosso la musica ipertrofica, tecnicistica e iperespressiva del quinqennio 2010-2015: sarebbe comprensibile, ma i metallari sono troppo spesso poco severi col proprio lavoro e al contempo pericolosamente orgogliosi e bigotti. E, proprio in virtù di questa scarsa capacità di auto-analisi, sperare che i Dream Theater si scrollino di dosso anche il cantante continua a essere utopistico.
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