mercoledì 31 ottobre 2018

Sunto di ottobre o solo un altro dimenticabile giorno di aulin® ? [Extra]

E' stato un ottobre insolito, pieno di storie e di cose e di luoghi in cui, per un po', ho temuto che non sarei mai tornato. Nei momenti di questo ottobre in cui sono stato bene, lo sono stato perché ho capito di non essere diventato noioso. Nei momenti peggiori, mi sono sentito inutile come uno di questi bauli polverosi e sfondati. 
Reduce da un'estate in cui mi sono dovuto fondamentalmente concentrare su di me e ho potuto agire solo presso panorami sicuri ed estremamente limitati, mi sono ritrovato ad avere a che fare con scogliere mediterranee, pinete, misteriose tombe etrusche sulle colline, vie rinascimentali da cui si aprono assurdi squarci di luce, librerie come non se ne aprono più e ancora roba simile. Si tratta di un immaginario (il mio) che continua a funzionare, ma confesso che a volte sento i 29 avvicinarsi e passo a desiderare tutt'altro. 
Torno a chiudermi, la fantasia vacilla e l'avventura sembra diventare di nuovo meno importante dei sentimenti. E' un pensiero estemporaneo e personale, ma non penso che sia necessariamente meno importante: credo solo che sia destinata a invecchiare peggio.






















martedì 23 ottobre 2018

Greta Van Fleet, "Anthem of the Peaceful Army" [Suggestioni uditive]

Greta Van Fleet,
Anthem of the Peaceful Army
(Republic Records, 2018)

















Ho trascorso l'ultimo ferragosto a rileggere La casa degli spiriti e ad ascoltare From the Fires, l'EP di tali Greta Van Fleet. Sentendo Highway Tune ovunque, li avevo liquidati, snobbati e presi per il culo sia nella vita reale che sui social. Poi ho promesso di dare loro una seconda possibilità e per pochi spiccioli mi sono accaparrato questo dischetto tanto dibattuto, un prodotto trasversale, con una copertina accattivante e un logo studiato a tavolino per destare gli interessi sia dei fans di Stranger Things che di vecchi rockers arrocchettati nel loro piccolo mondo antico.
Costruiti attorno alla coppia voce-chitarra dei fratelli Kiszka, i Greta Van Fleet si formano nel 2012 come cover band attenta a richiamare, nell'attitudine e nel gusto, gli anni '70. Nonostante una gavetta che li ha velocemente proiettati al di fuori dal natio Michigan e, in tasca, un contratto discografico con la Republic, attraversano i primi anni di attività stentando a costruire un proprio stile e un proprio repertorio. Le canzoni arrivano, non sono molte eppure, commercialmente, funzionano. Seppur con concerti che spesso non superano i sessanta minuti, i Greta Van Fleet si imbarcano in un paio di tour e contemporaneamente pensano a un vero e proprio album di esordio, qualcosa che vada oltre l'EP con cui si sono affacciati sul mercato nel 2017. Anthem of the Peaceful Army dovrebbe rappresentare la concretizzazione di questi loro sforzi. Non è un capolavoro, né tenta di spacciarsi per tale, perché oggi, a ogni modo, la priorità dell'industria discografica è rincorrere i talent e reperire il fenomeno mediatico prima dell'artista in senso stretto. Perciò, non c'è da meravigliarsi se questo album vuol limitarsi a somigliare a un fratello cresciuto di From the Fires, ma non riesce a superare lo status di un'opera prima monocromatica e, a più riprese, insoddisfacente.
Age of Man, tanto per cominciare, sembra una sigla di un brutto anime degli anni '90. The Cold Wind, al contrario, si segnala come un mancato singolo di forte impatto, rumoroso e condito da un buon assolo di chitarra. When the Curtain Falls ci tormenta da un paio di mesi sotto varie forme, e chi non si è accorto della scopiazzatura di In the Evening farà bene a cambiare spacciatore. Watching Over riuscirebbe anche a mettere in scena un efficace dialogo fra il cantato disturbante di Joshua e la strumentazione semi-acustica adottata dalla band, ma il serpeggiante effetto sitar ricreato al computer appare parodistico e finisce col mandare tutto in vacca. Molto meglio Lover, Leaver (Taker, Believer) a questo punto: Jacob spinge sul pedale del blues, la batteria funziona e tutto il pezzo assume una sua mistica, magari unidimensionale, ma molto godibile. You're the One e The New Day emanano una gran puzza di bruciato oltre a far riflettere. Più che altro, dimostrano che se nel 2018 hai una casa discografica relativamente solida alle spalle, un buon addetto marketing e una tua canzone scelta per quella pubblicità o finita in quella serie tv, avrai comunque la strada spianata e potrai pubblicare quante canzoni di merda vuoi. Tuttavia, Anthem of the Peaceful Army ha ancora un paio di momenti medi da regalare: intanto, Mountain of the Sun, che non sarà nulla di nuovo (anzi, anche questa regala déjà vu a palate e purtroppo CSNY non c'entrano niente) ma rotola via brioso e spontaneo. In Brave New World la voce di Joshua sembra voler coprire un'imbarazzante latenza di idee e il pezzo (di cinque minuti) riporta tutto l'album verso i terreni del disastroso. Anthem è il migliore dei quadretti para-hippie che i Greta Van Fleet hanno incluso qua dentro: speriamo solo che i millenials (non c'è recensione che non parli di questa musica come del "rock per i millenials", così mi adatto), qualora dovessero gradire queste atmosfere gnomiche, corrano a fare incetta di dischi della Incredible String Band, dei Pentangle o dei Fairport Convention. L'album si chiude così, con molte canzoni opache e qualcuna francamente orrenda. Succede, quando la musica dal vivo è troppo spesso riconducibile a tribute band buone solo a sfociare nello scimmiottamento di arcaiche divinità pagane e quando l'analfabetismo musicale amplificato dalla visione dei tv-.shows e il disinteresse appiattente delle "radio ruock!1!1!" generaliste regnano incontrastati senza lasciar intravedere a chi si affaccia sul panorama musicale valide alternative.

martedì 9 ottobre 2018

Muri, ponti e altre ombre [Extra]

Mai amato John Lennon, eppure nel 2009 feci il disegno qui sopra.
Mai amato John Lennon, eppure, quando ripenso alla prima volta in cui mi fu mostrata la foto scattata a lui e Yoko da Annie Leibovitz come esempio di un amore esageratamente simbiotico (e, di fondo, impossibile), tendo a emozionarmi.
Mai amato John Lennon, tant'è che reputo Imagine una delle dieci canzoni più sopravvalutate della storia, nonché una delle più brutte (quella orribile nenia sul Natale che alle elementari fummo costretti a cantare la segue a ruota).
Mai amato John Lennon, anche perché tutte le teorie sui "gombloddi!1!" che lo hanno visto protagonista negli ultimi venti anni mi hanno ulteriormente allontanato dalla sua figura di uomo e pensatore, oltre che da quella di musicista.
Mai amato John Lennon: e come avrei potuto, del resto, io che a Paul&John ho sempre preferito Mick&Keith, Steve&Joe, Robert&Jimmy, Axl&Slash, ecc.?
Mai amato John Lennon, nonostante Walls and Bridges sia uno dei tre dischi di un beatle solista a cui non si dovrebbe mai rinunciare (gli altri due sono All Things Must Pass e Ram).
Mai amato John Lennon, e dopo averlo visto incontrare- grazie solo al "miracolo" della CGI -Forrest Gump l'ho amato ancora meno.
Mai amato John Lennon, perché alla fine non siamo obbligati ad apprezzare per forza tutte le icone pop che il mercato ci impone e il Think different o lo Stay hungry, stay foolish lasciamoli a chi ogni autunno farà una nuova fila all'Apple Store dei Gigli senza neanche domandarsi il motivo.
Mai amato John Lennon, dicevamo, eppure nel 2009 feci quel disegno. Poco più di uno schizzo buttato giù con un turbocolor nero sul foglio di un quaderno di appunti. Avevo la copertina di Abbey Road in mente, ma il mio John attraversava una Abbey Road diversa, infinita e selvatica, e si capiva bene che la avrebbe percorsa da solo, con la sua lunga ombra come unica compagna. L'ombra di Lennon doveva somigliare alla sua eredità, un'eredità che immaginavo pesante e oscura. E quanta tristezza dietro i proverbiali occhiali tondi. 
Visto che oggi, in ogni dove, risuonano le solite due, tre canzonette, usate quel cazzo di Spotify in maniera nobile. Se lo volete ricordare senza per forza arrivare al Dakota Building ad accendere una stupida candelina, ascoltate Hold On, Instant Karma!, Well Well Well, Watching the Wheels, #9 Dream e Standy by Me
Farete un favore a voi stessi e anche a lui (che, dal canto suo, non mi pare si stia perdendo granché). 

lunedì 1 ottobre 2018

"I tempi che abbiamo conosciuto", ossia una breve omelia dylaniana per Charles Aznavour (1924-2018) [Extra]

In uno dei peggiori periodi della sua vita artistica e privata, Bob Dylan fu intervistato da Kurt Loder per Rolling Stone. Era l'autunno del 1987 e l'incontro offrì l'occasione al giornalista di domandare a Dylan chi fossero a suo avviso i migliori artisti in circolazione e lui subito additò in Charles Aznavour il più grande live performer che avesse mai visto. 
Inutile sforzarsi di condensare in poche righe cosa sarebbe successo a Dylan nei mesi successivi a quell'intervista, ma basti pensare che, nell'universo dylaniano, Charles Aznavour sarebbe rimasto solo un nome incastonato fra le pagine di quel Rolling Stone fino al primo novembre 1998. Fu allora, al Madison Square Garden, nel pieno decennale del NET e coi tre Grammy di Time Out of Mind ancora belli caldi, che Dylan e i ragazzi si prodigarono nella cover di Les bons moments di Aznavour, presentandola nella versione anglofona (e liricamente superiore) recante il titolo The Times We've Known
Bob Dylan e Charles Aznavour si sarebbero conosciuti, almeno ufficialmente, undici anni dopo a Parigi. In quell'occasione fu anche scattata una foto in cui Dylan sfigurava un po', sembrando vecchio  quasi quanto lo chansonnier, che dal canto suo già veleggiava allegramente per i novant'anni. 
La stessa sera- era l'8 aprile 2009 -il pubblico stipato nel Palais de Congres della capitale francese poté assistere ad una riproposizione di The Times We've Known notevolmente più cupa e "massacrata" rispetto a quella portata in scena a New York nel 1998. Fu un momento emozionante, specie se si pensa che Aznavour sedeva, assieme ad altre vecchie glorie, nella platea vip del Palais, ma il paragone con la precedente versione mi è sempre apparso impietoso.
Charles Aznavour è morto oggi, a novantaquattro anni.

I TEMPI CHE ABBIAMO CONOSCIUTO
(traduzione del sottoscritto di The Times We've Known di Charles Aznavour)

I tempi che abbiamo conosciuto rotolano via
come tracce di vapore nel cielo.
Il meglio e il peggio
sono passati.

Gli anni dei debiti, gli anni del dubbio,
gli anni del "Che cos'è?",
del tener botta, del resistere
del persistere.

Quando la vita era dura e le possibilità poche,
io mi sentivo ricco anche solo avendo te.

E anche se gli altri dicevano che non saremmo durati,
siamo andati avanti per la nostra strada e adesso siamo qui,

ancora insieme attraverso tutto,
ancora insieme memori
dei tempi che abbiamo conosciuto.

Talvolta, gli anni sono stati ricchi e floridi,
altre volte ci siamo basati su una sola speranza.
Abbiamo rubacchiato un po' di noi
nei tempi che abbiamo conosciuto.

Periodi fortunati, qualche brutto momento,
cose divertenti e un po' di errori,
e poi quei sogni che ogni sognatore prende
e fa propri.

Un tempo per ridere, un tempo per piangere,
un tempo per lasciare che il mondo andasse avanti.
E se ci saranno lacrime con cui fare i conti,
nessuno potrà comunque cancellare quegli anni.

I nostri giorni son volati via su ali fragili
ma conserviamo ancora alcune cose che possiamo dire nostre:
i tempi che abbiamo conosciuto.