La mano di John Lee Hooker in uno scatto di Anton Corbjn |
Mi interrogo su cosa sia il blues da molto tempo ormai.
"E' il comunicare un'esperienza del cuore al cuore di un'altra esperienza", pensavo mentre sceglievo l'uva alla Coop giorni fa. Potrebbe essere- per quanto arzigogolata -una delle più valide risposte fra quelle andate accumulandosi in tutti questi anni. Ma allora, anche in questo caso, perchè ci sarà sempre un qualcuno che se ne uscirà fuori con <<Vabbè... carina, ma stasera poi ci facciamo 'na pasta o non ci sei?>>?
No, non ci sono: guai a spezzare il flusso comunicativo del blues. Il moto dei pianeti potrebbe rovesciarsi e il blues ha a che fare proprio con i pianeti, lo spazio, le galassie. Uno che ha reso bene l'idea è stato Wim Wenders, ne L'anima di un uomo, titolo/emblema e ulteriore, efficace risposta alla fatidica domanda: alla fine del film, la foto di Blind Willie Johnson sovraimpressa su milioni di stelle. Prima di vederlo in onda sui canali RAI quando ero ancora solo al mio primo anno di superiori, neanche sapevo chi fosse Blind Willie Johnson, nè ero a conoscenza del fatto che una sua canzone (Dark Was the Night, Cold Was the Ground) fosse uno dei ventisette brani musicali che, dal 1977, viaggiavano a bordo della sonda Voyager II, diretta verso i confini dell'universo. E visto che gli astronauti e tutti i cervelloni non fanno mai nulla per caso, fu interessante anche andare a scoprire il perchè di quella scelta. Molto semplicemente, per Carl Sagan e il team di ricercatori che all'epoca si occupò di immagazzinare informazioni e testimonianze del nostro pianeta, quel blues degli anni Venti rappresentava la solitudine umana.
Nulla (forse) a che vedere con un altro film, quello buffo che vedevo da più piccolo perchè lo passavano spesso sotto Natale (anche se non riuscivo mai a farmelo registrare): era la storia di questi due fratelli vestiti di nero e con gli occhiali scuri che dovevano salvare l'orfanotrofio in cui erano cresciuti da una brutta ipoteca, e così andavano a giro a cantare e suonare per racimolare i soldi. Le avventure di Jack ed Elwood Blues erano molto divertenti, i nazisti dell'Illinois erano dei pezzi di merda esattamente come tutti i nazisti di ieri, oggi e domani, ma la più cattiva di tutti era la principessa Leia di Guerre Stellari, che faceva saltare per aria tutto e non si capiva mai perchè. In mezzo a questa baraonda che troppo spesso veniva liquidata per un musical- in realtà è un capolavoro della commedia di ogni epoca e andrebbe fatto vedere nelle scuole -e che, almeno da bimbo, in un paio di punti mi annoiava pure, c'era un momento di precisa, ineffabile perfezione. Uno di quelli in cui la voce di chi canta ti spalanca il cuore e in cui finisci per forza di cose a concederti alla dea Musica. I fratelli Blues arrivano in un paesello dove, per strada, si sta tenendo un mercato e un anziano signore, accompagnato da un complesso di gente più giovane, tira fuori un'onda d'urto che ancora oggi mi butta giù dal divano: John Lee Hooker che suona Boom boom boom in The Blues Brothers di John Landis ti manda di fuori e, allo stesso tempo, ti fa entrare dentro. Cose che succedono a chi ascolta e conosce il blues e i suoi derivati migliori.
Ora, non per nulla, ma John Lee Hooker avrebbe compiuto 100 anni lo scorso 22 agosto, non è più tra noi dall'alba del nuovo millennio perchè era malato e perchè, fondamentalmente, il suo era stato il secolo del demonio ed era giusto che finisse così. Non voglio dire che John Lee Hooker sia il blues, perchè il blues son stati tutti e nessuno, il blues siamo noi, il blues è dentro di noi (o almeno, dentro alcuni di noi, va'). Tuttavia, in vita, ha inciso una quantità di tesori inestimabile, mentre chi ne curava l'immagine e ne deteneva i diritti d'autore ha esagerato con una produzione postuma inorganica e senza freni. Su un piano discografico, è il bluesman del Delta migliore da affrontare, conoscere e perfino da recuperare. Ottimo se si vuole ballare, eccellente per lunghi, intrippanti ascolti in solitaria, adatto alle grigie giornate chiusi in auto e magari imbottigliati nel traffico, così come alle lande desolate- luoghi in cui vengono meno rotonde, semafori, rincoglioniti che ti superano da destra con le loro utilitarie 1x2 -, Hooker può essere comodamente portato a esempio di musicista universale: la sua è una musica che sta bene con tutto e ha conosciuto un'evoluzione unica, per certi versi perfino atipica. La scuola dei bluesmen che elettrificarono il genere alla fine degli anni Quaranta e che conobbe in Muddy Waters il proprio massimo esponente compì una rivoluzione imprescindibile, sia nello stile che nei contenuti. Ma il destino di Hook- undicesimo figlio di un pastore battista, nato in una piantagione e cresciuto a Clarksdale, Mississippi -era diverso: sebbene anche lui, nel 1943, si fosse trasferito a Detroit per lavorare in fabbrica, decise che la sua musica non avrebbe mai perso l'anima grezza, rurale e oscura del Delta. Se la portò dietro, come una croce o una maledizione, anche se lui, al contrario di me, a far la spesa alla Coop di via Diaz a Colle di Val d'Elsa, Siena, non ce lo vide mai nessuno.
Il giovane musicista analfabeta con chitarra a tracolla immortalato lungo Hastings Street nella copertina della compilation biblica (ovvero da intendersi come Bibbia essenziale per chiunque ami Hooker e il blues tutto) The Legendary Modern Recordings 1948-1954 (Ace Records, 1993, ★★★★★) è solo all'apparenza un artista ben inserito nel contesto urbano nordamericano del dopoguerra. I singoli che egli sta incidendo non sono quelli prodotti a Chicago da Leonard Chess, non sembrano riconducibili a nessuno stile precedente e le liriche- improvvisate e mandate a memoria, visto che il soggetto in questione non sa leggere e scrivere -sono di una modernità senza precedenti. Tutt'oggi, anno domini 2017, il giro di chitarra di quella primordiale, scarna, essenziale e ciò nonostante ineguagliata Boogie Chillen per chitarra e voce crea dipendenza immediata e l'uomo, si sa, è un animale dipendente per natura: il boogie di John Lee Hooker lo si potrebbe mandare in rotazione per giorni, anche per un mese, e si potrebbe continuare incessantemente a smarrircisi dentro.
E se è vero che al nostro ci vogliono quasi dieci anni prima di decidersi ad abbandonare il sottobosco dei 45 giri destinati alle radio "per negri" (un sottobosco da cui comunque trae lauti guadagni, pur vedendosi costretto a incidere materiale sotto diversi pseudonimi), è altrettanto palese che già alla fine degli anni Cinquanta il suo catalogo personale va arricchendosi di almeno un paio di grandi LP: il primo, vero e proprio manifesto di intenti dal titolo The Country Blues of John Lee Hooker, e il terzo, That's My Story (OBC, 2006, ★★★★), entrambi frutto della collaborazione con la leggendaria Riverside Records, casa di produzione passata alla storia per le sue leggendarie incisioni di jazz. Assai più radicali nelle tematiche e nel linguaggi- ma non per questo maggiormente riusciti -gli album e i singoli che all'epoca Hook pubblica, contemporaneamente, sull'etichetta black di Chicago Vee-Jay e che sono stati resi reperibili, nell'arco dei decenni, sia in ristampe singole che in cofanetti di varie dimensioni.
Sempre a Chicago, Hooker entra in contatto col funambolico Leonard Chess, che vuol provare a inserirlo nella sua personale "scuderia" di talenti, proponendogli un contratto per cinque album, una strumentazione nuova e una sfilza di eccellenti musicisti. Non solo risponde che la sua musica non avrebbe conosciuto alcun gruppo di accompagnamento (anche se un tentativo iniziale è ancora udibile nel pezzo Whiskey and Women), ma di quei cinque dischi Hook ne avrebbe incisi solo tre (fra il 1959 e il 1966) e il primo, House of the Blues (Chess Records, 1989 ★★★★★), rappresenta un ulteriore, importante tassello per la sua notorietà, arrivando ad essere distribuito anche in Inghilterra, Olanda e Svezia e ricevendo ovunque importanti ovazioni di critica e pubblico.
Per il resto, gli anni Sessanta di John Lee Hooker sono un lungo, snervante, labirinto produttivo, dove i nomi delle etichette cambiano e si susseguono, le canzoni si confondono e di davvero buono emerge, in proporzione, assai poco: The Folk Lore of John Lee Hooker (Charly Records, 2000, ★★★½), uscito per Vee-Jay nel 1961, può essere un live esaustivo, un LP dove il repertorio del cantante (sempre e rigorosamente da solo) viene sondato in profondità. Emergono brani strazianti, dolorosi, suonati e affrontati da uno storyteller che ha da poco superato i quarant'anni e che non ha certo bisogno di mezze misure per cercare di affogare la tristezza.
Intanto, il sound di Muddy Waters, Willie Dixon e Howlin' Wolf raggiunge apici di successo mai visti per qualsiasi bluesman di colore e anche Hook inizia ad accettare l'idea di avere altri musicisti dietro di lui, sia in studio che dal vivo: i primi, goffi tentativi sono editi dalla semisconosciuta Galaxy Records, i cui produttori arrivano ad accostare ai consueti marchi di fabbrica di Hooker anche una big-band di fiati (come è possibile udire nell'omonimo, mediocre John Lee Hooker), e proseguono sia sulla Crown (due dischi usciti fra 1962 e 1963) che sulla ben più autorevole Atlantic (Don't turn me from your Door, sofferto ma non ancora riuscito). In mezzo a tanto marasma, trovano spazio un tour di grande successo effettuato in Inghilterra e un esperimento dimenticato dai più: una sorta di flirt fra Hook e generi all'epoca (siamo nel 1963) popolarissimi quali il soul e l'R&B, ovvero l'anomalo The Big Soul (Soul Jam Records, 2016 ★★★).
Con il disco-copia carbone Burning Hell, nel 1964, si esauriscono gli impegni contrattuali con la Riverside. Nello stesso anno, si conclude il rapporto lavorativo con la Vee-Jay, che pubblica- per la gioia di numerosi hipster, studenti e intellettuali della beat generation -il concerto tenuto da Hooker al Newport Folk Festival del 1960. Nonostante le sue canzoni inizino ad essere oggetto di culto in Europa e la cover di Boom Boom pubblicata dagli Animals sempre nel '64 gli frutti più soldi di quanti ne abbia mai avuti, a ben poco gli servirà transitare presso la mitologica Verve (... And Seven Nights, registrato nel 1965 in mono con una band perlopiù anonima, come era in voga all'epoca) e neanche un soldo vedrà derivato dalle royalties di There's Good Rockin' Tonight, una bizzarra collaborazione fra lui e il collega texano Lightnin' Hopkins fatta uscire solo in Inghilterra. Un disco di questo non facile periodo che vale la pena avere e ascoltare per intero, da cima a fondo, è l'incredibile It Serve You Right to Suffer (MCA, 1999 ★★★★), opera unica anche per un motivo filologico: è uno dei pochissimi album non jazz pubblicati dalla Impulse!, l'etichetta che poteva vantare come proprio aprifila John Coltrane.
Completamente nata e sviluppatasi intorno alla scena di Chicago è la formazione che accompagna Hooker in un breve tour americano del 1967: un anno spartiacque, segnato dall'ennesimo cambio di casa di produzione. E' proprio l'anarchica Bluesway a pubblicare Live at Cafe Au-Go-go (MCA, 1996, ★★★★★), uno dei più bei dischi di live blues di sempre e apice delle testimonianze concertistiche di Hooker, ormai leggendario nei circuiti internazionali del rock e perennemente conteso da miriadi di etichette e subetichette, musicisti smaniosi di suonare al suo fianco anche per poche serate e varie personalità del management musicale, vogliose di far scalare le classifiche a un genere ostico quale il suo Delta blues. Dei nove dischi pubblicati fra 1968 e 1970 a nome John Lee Hooker nessuno è memorabile e tantomeno riesce a conquistare le grandi masse. Gode di un fugace successo radiofonico That's Where it's At, altro sfortunato prodotto fatto circolare nelle radio sudiste dalla casa madre, la mitica Stax.
Tocca attendere il 1971 per veder finalmente il nome di John Lee Hooker comparire in una classifica Billboard, al numero 78 per l'esattezza. In realtà non si tratta solo di farina del suo sacco: come suggerisce il titolo, Hooker'n'Heat (BGO Records, 2005, 2 cd ★★★★), il nuovo album è un doppio, infernale disco di boogie inciso in una sola notte assieme ai Canned Heat, una delle più gloriose rock band di ogni epica che non avevano mai mancato di mitizzare, sin dai loro esordi, il cantante di Clarksdale. Viene dato il via ad una florida serie di serate e Hook si ritrova a suonare per un pubblico sempre più grande e in spazi via, via più giganteschi. Più che cinquantenne, finisce con l'interessarsi alle strumentazioni moderne, senza mai rinunciare alla propria personalità. Tracce di questa sua curiosità per metodi di incisione avanzati e migliorie tecniche si ritrovano nel primo dei notevoli dischi incisi negli anni Settanta sotto l'egida della ABC: Endless Boogie, pure doppio e pure sfornato nel 1971, non sarà il più riuscito della serie, ma è senza dubbio un album molto diverso rispetto a quelli incisi prima dell'incontro con gli Heat. Timbriche molto vicine al rock duro in voga all'epoca, uso intenso del piano elettrico, sezione ritmica incessante come un martello pneumatico, liriche ridotte al minimo e netta predilezione per brani lunghi (la media di durata è di sei minuti, fino ad arrivare agli undici e passa di Pot's On, Gas on High, che del disco è il pezzo più rappresentativo).
Ma la vera rivoluzione nell'arte e nello stile di John Lee Hooker ad avere luogo a inizio anni Settanta risiede, soprattutto, nella scelta di suonare con alle spalle delle formazioni rock vere e proprie, senza troppo badare al colore della pelle, ma affidandosi esclusivamente alle capacità di musicisti che quasi sempre si rivelano molto giovani e fieri di lavorare con la leggenda. Never Get Out of this Blues Alive (MCA, 1991, ★★★★★), in questo senso, riassume perfettamente il momento d'oro vissuto da Hook all'epoca. Standard del suo repertorio stravolti e riportati a nuova vita da una squadra di musicisti e produttori mai più vista: come gruppo di accompagnamento sceglie la Steve Miller Band (unico assente, manco a dire, si rivela lo stesso Steve Miller), anche se al basso trafficherà pure il virtuoso John Kahn; all'armonica Charlie Musselwhite, ovvero il più grande armonicista bianco mai vissuto; al pianoforte Mark Naftalin, noto agli appassionati di Mike Bloomfield; alla chitarra slide Elvin Bishop, allora di stanza alla Capricorn ma non per questo chiuso nei confronti di collaborazioni esterne. E poi, nella title-track, il più grande allievo ed estimatore che Hook abbia mai avuto: Van Morrison. Si può volere di più da un singolo disco?
La ABC vede i frutti del lavoro di Hooker e gli allunga il contratto. Un disco dal vivo (Live at Soledad Prison) compare nei negozi americani già a fine 1972, mentre per dei nuovi pezzi bisogna attendere l'anno seguente. Born in Mississippi, Raised up in Tennessee (caso limite di album mai ripubblicato in alcun formato, compreso il digitale) tenta di tornare alla formule più hard di Hooker'n'Heat ed Endless Boogie senza riuscirci. Nel frattempo, il nostro, non smette di contaminarsi e incontrare nuovi musicisti: si appassiona alle radio nere che tanto avevano contribuito a farlo conoscere alla fine degli anni Quaranta, assiste a primordiali dj-set e subisce il fascino prorompente della musica funk. Arriva perfino a incidere un disco che strizza l'occhio a queste medesime sonorità: Free Beer and Chicken, ricordato più per la copertina che non per i suoi reali valori artistici (anche se contiene la più bella versione di One Bourbon, One Scotch, One Beer mai registrata), sarà anche l'album con cui si concluderà questa feconda fase di consacrazione rock blues. Segue un inaspettato periodo di pausa lungo quattro anni, durante i quali ben poco è dato sapere su Hook. Poi un ritorno in grande stile: contrattino con l'indipendente Tomato Records, tour e doppio live, The Cream (Rhino Records, 2009, ★★★½).
Gli anni Ottanta iniziano e si evolvono all'insegna di una sopravvivenza artistica vergognosa ma per molti versi anche inevitabile. Hook continua a sfruttare il suo repertorio, sia da solo che in gruppo, suona dal vivo ma l'attività concertistica subisce un crollo; l'ondata di gloria dei '70 sembra superata, la sua musica- con buona pace della comparsa in The Blues Brothers -non ha una presa sul pubblico di MTV (e come potrebbe, in fondo?). La Rhino pubblica un doppio, fallimentare album del periodo in cui il bluesman si aggirava per gli Stati Uniti in compagnia dei Canned Heat, mentre fioccano le prime compilation su cd, un formato nuovo a cui Hooker non si dimostra interessato, così come rifiuta le più moderne tecniche digitali, almeno fino al 1986, quando dà alle stampe dei nuovi pezzi, confluiti nel solido, ottimo Jealous (Virgin Records, 1996 ★★★½), le cui note di copertina portano la firma di Carlos Santana, da sempre, assieme a Van Morrison, fan "di lusso" del musicista. Sentito oggi Jealous suona forse un po' datato, contraddistinto com'è da un drum-sound non originale, da un abuso dell'eco (specie quando l'orecchio si concentra sulla chitarra) tipico dell'epoca e da una pulizia esagerata, eccessiva.
E' l'era del rock-revival, quella in cui i produttori iniziano a fare la voce grossa e il loro nome conta quanto quello degli artisti che accorrono ai loro servizi. I Rolling Stones stanno per tornare dopo dissidi e scioglimenti con Steel Wheels (un disco che farà scuola, commercialmente parlando), Bob Dylan si affida a Daniel Lanois per Oh Mercy. I grandi bluesmen, fratelli e coneateni di Hooker, sono quasi tutti morti durante gli anni Ottanta oppure vivono dentro i casinò di Las Vegas, dove subiscono lo stesso destino che era stato riservato anche a "re" Elvis (si pensi a B.B. King). Ed è proprio Santana a spingere Hook nelle fila della etichetta per vecchie glorie Silvertone, un'operazione targata Virgin Records che avrebbe dato rifugio a tantissimi artisti "riscoperti". In maniera analoga a quanto accaduto a fine anni Settanta al Muddy Waters impiegato presso la Blue Sky di Johnny Winter o a quanto sarebbe venuto fuori, di lì a poco, dal sodalizio fra Johnny Cash e Rick Rubin, dal contratto di Hooker con la Virgin saltano fuori i capolavori della sua vecchiaia. Un disco come The Healer (Virgin Records, 1989, ★★★★★) è un'opera di assoluta bellezza, nata dallo sforzo collettivo e dalla volontà di un numero imprecisato di artisti di collaborare (anche solo in minima parte) con una leggenda della musica. Il pazzesco singolo che dà il titolo all'album approda su MTV, I'm in the Mood- che qui, sotto forma di duetto con Bonnie Raitt, assume una versione divina, definitiva -finisce col vincere un Grammy Award, ciò che resta dei Canned Heat ritorna in una furiosa Cuttin'Out, e lo stesso fa Charlie Musselwhite in That's Alright. Molti brani storici di Hook conoscono delle rispolverate e dei miglioramenti mai visti: Sally Mae suonata da George Thorogood, Think Twice Before You Go magistralmente arrangiata dai Los Lobos. The Healer non è solo il più bel disco degli anni Ottanta firmato John Lee Hooker, ma anche, per più motivi, uno dei lavori più importanti di tutta la sua vita. Produce Roy Rogers.
Passano due anni (nel mezzo, la colonna sonora accreditata in comune con Miles Davis di The Hot Spot, un esperimento che può valere un ascolto) e sempre con Rogers in cabina di regia- affiancato, stavolta, da un fuoriclasse come Ry Cooder -John Lee Hooker irrompe nuovamente sul mercato discografico con un altro splendido album: Mr. Lucky (Virgin, 1992, ★★★★) è il lato B di The Healer, di nuovo convincente sul livello dei duetti di prestigio (stavolta, oltre agli aficionados Santana, Van Morrison e Robert Cray, si scorgono i nomi di Johnnie Johnson, Albert Collins, Johnny Winter, Keith Richards, John Hammond e perfino dello stesso Cooder), magari più ruvido e "duro": insomma, un grande ritorno agli anni Settanta e alle affolatissime produzioni del periodo ABC Records. E, manco a dirlo, un altro must have.
Il giovane musicista analfabeta con chitarra a tracolla immortalato lungo Hastings Street nella copertina della compilation biblica (ovvero da intendersi come Bibbia essenziale per chiunque ami Hooker e il blues tutto) The Legendary Modern Recordings 1948-1954 (Ace Records, 1993, ★★★★★) è solo all'apparenza un artista ben inserito nel contesto urbano nordamericano del dopoguerra. I singoli che egli sta incidendo non sono quelli prodotti a Chicago da Leonard Chess, non sembrano riconducibili a nessuno stile precedente e le liriche- improvvisate e mandate a memoria, visto che il soggetto in questione non sa leggere e scrivere -sono di una modernità senza precedenti. Tutt'oggi, anno domini 2017, il giro di chitarra di quella primordiale, scarna, essenziale e ciò nonostante ineguagliata Boogie Chillen per chitarra e voce crea dipendenza immediata e l'uomo, si sa, è un animale dipendente per natura: il boogie di John Lee Hooker lo si potrebbe mandare in rotazione per giorni, anche per un mese, e si potrebbe continuare incessantemente a smarrircisi dentro.
E se è vero che al nostro ci vogliono quasi dieci anni prima di decidersi ad abbandonare il sottobosco dei 45 giri destinati alle radio "per negri" (un sottobosco da cui comunque trae lauti guadagni, pur vedendosi costretto a incidere materiale sotto diversi pseudonimi), è altrettanto palese che già alla fine degli anni Cinquanta il suo catalogo personale va arricchendosi di almeno un paio di grandi LP: il primo, vero e proprio manifesto di intenti dal titolo The Country Blues of John Lee Hooker, e il terzo, That's My Story (OBC, 2006, ★★★★), entrambi frutto della collaborazione con la leggendaria Riverside Records, casa di produzione passata alla storia per le sue leggendarie incisioni di jazz. Assai più radicali nelle tematiche e nel linguaggi- ma non per questo maggiormente riusciti -gli album e i singoli che all'epoca Hook pubblica, contemporaneamente, sull'etichetta black di Chicago Vee-Jay e che sono stati resi reperibili, nell'arco dei decenni, sia in ristampe singole che in cofanetti di varie dimensioni.
Intanto, il sound di Muddy Waters, Willie Dixon e Howlin' Wolf raggiunge apici di successo mai visti per qualsiasi bluesman di colore e anche Hook inizia ad accettare l'idea di avere altri musicisti dietro di lui, sia in studio che dal vivo: i primi, goffi tentativi sono editi dalla semisconosciuta Galaxy Records, i cui produttori arrivano ad accostare ai consueti marchi di fabbrica di Hooker anche una big-band di fiati (come è possibile udire nell'omonimo, mediocre John Lee Hooker), e proseguono sia sulla Crown (due dischi usciti fra 1962 e 1963) che sulla ben più autorevole Atlantic (Don't turn me from your Door, sofferto ma non ancora riuscito). In mezzo a tanto marasma, trovano spazio un tour di grande successo effettuato in Inghilterra e un esperimento dimenticato dai più: una sorta di flirt fra Hook e generi all'epoca (siamo nel 1963) popolarissimi quali il soul e l'R&B, ovvero l'anomalo The Big Soul (Soul Jam Records, 2016 ★★★).
Completamente nata e sviluppatasi intorno alla scena di Chicago è la formazione che accompagna Hooker in un breve tour americano del 1967: un anno spartiacque, segnato dall'ennesimo cambio di casa di produzione. E' proprio l'anarchica Bluesway a pubblicare Live at Cafe Au-Go-go (MCA, 1996, ★★★★★), uno dei più bei dischi di live blues di sempre e apice delle testimonianze concertistiche di Hooker, ormai leggendario nei circuiti internazionali del rock e perennemente conteso da miriadi di etichette e subetichette, musicisti smaniosi di suonare al suo fianco anche per poche serate e varie personalità del management musicale, vogliose di far scalare le classifiche a un genere ostico quale il suo Delta blues. Dei nove dischi pubblicati fra 1968 e 1970 a nome John Lee Hooker nessuno è memorabile e tantomeno riesce a conquistare le grandi masse. Gode di un fugace successo radiofonico That's Where it's At, altro sfortunato prodotto fatto circolare nelle radio sudiste dalla casa madre, la mitica Stax.
Tocca attendere il 1971 per veder finalmente il nome di John Lee Hooker comparire in una classifica Billboard, al numero 78 per l'esattezza. In realtà non si tratta solo di farina del suo sacco: come suggerisce il titolo, Hooker'n'Heat (BGO Records, 2005, 2 cd ★★★★), il nuovo album è un doppio, infernale disco di boogie inciso in una sola notte assieme ai Canned Heat, una delle più gloriose rock band di ogni epica che non avevano mai mancato di mitizzare, sin dai loro esordi, il cantante di Clarksdale. Viene dato il via ad una florida serie di serate e Hook si ritrova a suonare per un pubblico sempre più grande e in spazi via, via più giganteschi. Più che cinquantenne, finisce con l'interessarsi alle strumentazioni moderne, senza mai rinunciare alla propria personalità. Tracce di questa sua curiosità per metodi di incisione avanzati e migliorie tecniche si ritrovano nel primo dei notevoli dischi incisi negli anni Settanta sotto l'egida della ABC: Endless Boogie, pure doppio e pure sfornato nel 1971, non sarà il più riuscito della serie, ma è senza dubbio un album molto diverso rispetto a quelli incisi prima dell'incontro con gli Heat. Timbriche molto vicine al rock duro in voga all'epoca, uso intenso del piano elettrico, sezione ritmica incessante come un martello pneumatico, liriche ridotte al minimo e netta predilezione per brani lunghi (la media di durata è di sei minuti, fino ad arrivare agli undici e passa di Pot's On, Gas on High, che del disco è il pezzo più rappresentativo).
Ma la vera rivoluzione nell'arte e nello stile di John Lee Hooker ad avere luogo a inizio anni Settanta risiede, soprattutto, nella scelta di suonare con alle spalle delle formazioni rock vere e proprie, senza troppo badare al colore della pelle, ma affidandosi esclusivamente alle capacità di musicisti che quasi sempre si rivelano molto giovani e fieri di lavorare con la leggenda. Never Get Out of this Blues Alive (MCA, 1991, ★★★★★), in questo senso, riassume perfettamente il momento d'oro vissuto da Hook all'epoca. Standard del suo repertorio stravolti e riportati a nuova vita da una squadra di musicisti e produttori mai più vista: come gruppo di accompagnamento sceglie la Steve Miller Band (unico assente, manco a dire, si rivela lo stesso Steve Miller), anche se al basso trafficherà pure il virtuoso John Kahn; all'armonica Charlie Musselwhite, ovvero il più grande armonicista bianco mai vissuto; al pianoforte Mark Naftalin, noto agli appassionati di Mike Bloomfield; alla chitarra slide Elvin Bishop, allora di stanza alla Capricorn ma non per questo chiuso nei confronti di collaborazioni esterne. E poi, nella title-track, il più grande allievo ed estimatore che Hook abbia mai avuto: Van Morrison. Si può volere di più da un singolo disco?
La ABC vede i frutti del lavoro di Hooker e gli allunga il contratto. Un disco dal vivo (Live at Soledad Prison) compare nei negozi americani già a fine 1972, mentre per dei nuovi pezzi bisogna attendere l'anno seguente. Born in Mississippi, Raised up in Tennessee (caso limite di album mai ripubblicato in alcun formato, compreso il digitale) tenta di tornare alla formule più hard di Hooker'n'Heat ed Endless Boogie senza riuscirci. Nel frattempo, il nostro, non smette di contaminarsi e incontrare nuovi musicisti: si appassiona alle radio nere che tanto avevano contribuito a farlo conoscere alla fine degli anni Quaranta, assiste a primordiali dj-set e subisce il fascino prorompente della musica funk. Arriva perfino a incidere un disco che strizza l'occhio a queste medesime sonorità: Free Beer and Chicken, ricordato più per la copertina che non per i suoi reali valori artistici (anche se contiene la più bella versione di One Bourbon, One Scotch, One Beer mai registrata), sarà anche l'album con cui si concluderà questa feconda fase di consacrazione rock blues. Segue un inaspettato periodo di pausa lungo quattro anni, durante i quali ben poco è dato sapere su Hook. Poi un ritorno in grande stile: contrattino con l'indipendente Tomato Records, tour e doppio live, The Cream (Rhino Records, 2009, ★★★½).
Gli anni Ottanta iniziano e si evolvono all'insegna di una sopravvivenza artistica vergognosa ma per molti versi anche inevitabile. Hook continua a sfruttare il suo repertorio, sia da solo che in gruppo, suona dal vivo ma l'attività concertistica subisce un crollo; l'ondata di gloria dei '70 sembra superata, la sua musica- con buona pace della comparsa in The Blues Brothers -non ha una presa sul pubblico di MTV (e come potrebbe, in fondo?). La Rhino pubblica un doppio, fallimentare album del periodo in cui il bluesman si aggirava per gli Stati Uniti in compagnia dei Canned Heat, mentre fioccano le prime compilation su cd, un formato nuovo a cui Hooker non si dimostra interessato, così come rifiuta le più moderne tecniche digitali, almeno fino al 1986, quando dà alle stampe dei nuovi pezzi, confluiti nel solido, ottimo Jealous (Virgin Records, 1996 ★★★½), le cui note di copertina portano la firma di Carlos Santana, da sempre, assieme a Van Morrison, fan "di lusso" del musicista. Sentito oggi Jealous suona forse un po' datato, contraddistinto com'è da un drum-sound non originale, da un abuso dell'eco (specie quando l'orecchio si concentra sulla chitarra) tipico dell'epoca e da una pulizia esagerata, eccessiva.
E' l'era del rock-revival, quella in cui i produttori iniziano a fare la voce grossa e il loro nome conta quanto quello degli artisti che accorrono ai loro servizi. I Rolling Stones stanno per tornare dopo dissidi e scioglimenti con Steel Wheels (un disco che farà scuola, commercialmente parlando), Bob Dylan si affida a Daniel Lanois per Oh Mercy. I grandi bluesmen, fratelli e coneateni di Hooker, sono quasi tutti morti durante gli anni Ottanta oppure vivono dentro i casinò di Las Vegas, dove subiscono lo stesso destino che era stato riservato anche a "re" Elvis (si pensi a B.B. King). Ed è proprio Santana a spingere Hook nelle fila della etichetta per vecchie glorie Silvertone, un'operazione targata Virgin Records che avrebbe dato rifugio a tantissimi artisti "riscoperti". In maniera analoga a quanto accaduto a fine anni Settanta al Muddy Waters impiegato presso la Blue Sky di Johnny Winter o a quanto sarebbe venuto fuori, di lì a poco, dal sodalizio fra Johnny Cash e Rick Rubin, dal contratto di Hooker con la Virgin saltano fuori i capolavori della sua vecchiaia. Un disco come The Healer (Virgin Records, 1989, ★★★★★) è un'opera di assoluta bellezza, nata dallo sforzo collettivo e dalla volontà di un numero imprecisato di artisti di collaborare (anche solo in minima parte) con una leggenda della musica. Il pazzesco singolo che dà il titolo all'album approda su MTV, I'm in the Mood- che qui, sotto forma di duetto con Bonnie Raitt, assume una versione divina, definitiva -finisce col vincere un Grammy Award, ciò che resta dei Canned Heat ritorna in una furiosa Cuttin'Out, e lo stesso fa Charlie Musselwhite in That's Alright. Molti brani storici di Hook conoscono delle rispolverate e dei miglioramenti mai visti: Sally Mae suonata da George Thorogood, Think Twice Before You Go magistralmente arrangiata dai Los Lobos. The Healer non è solo il più bel disco degli anni Ottanta firmato John Lee Hooker, ma anche, per più motivi, uno dei lavori più importanti di tutta la sua vita. Produce Roy Rogers.
Passano due anni (nel mezzo, la colonna sonora accreditata in comune con Miles Davis di The Hot Spot, un esperimento che può valere un ascolto) e sempre con Rogers in cabina di regia- affiancato, stavolta, da un fuoriclasse come Ry Cooder -John Lee Hooker irrompe nuovamente sul mercato discografico con un altro splendido album: Mr. Lucky (Virgin, 1992, ★★★★) è il lato B di The Healer, di nuovo convincente sul livello dei duetti di prestigio (stavolta, oltre agli aficionados Santana, Van Morrison e Robert Cray, si scorgono i nomi di Johnnie Johnson, Albert Collins, Johnny Winter, Keith Richards, John Hammond e perfino dello stesso Cooder), magari più ruvido e "duro": insomma, un grande ritorno agli anni Settanta e alle affolatissime produzioni del periodo ABC Records. E, manco a dirlo, un altro must have.
Un buon successo lo riscuotono, sempre nella prima fase degli anni Novanta, anche dischi di minor richiamo: il missing album dal titolo More Real Folk Blues contiene le ultime sessions incise a Chicago con Leonard Chess e non ha alcun valore al di fuori di quello collezionistico; Boom Boom sembra invece una compilation distorta con Pro-Tools e messa in cantiere dalla Virgin/Pointblank per far circolare nei grandi magazzini le versioni cromate di vecchi blues del Delta. Di altro livello e tenore è Chill Out (Virgin, 1995, ★★★★★), un disco che non si può definire "di commiato" (lo sarà, pur essendo peggiore e sacrificato dalla morbosa produzione di Van Morrison, il successivo Don't Look Back del 1997), ma che ha tutte le caratteristiche del capolavoro. Chill Out- ringraziando anche qui Bernardo Bertolucci e il suo Io ballo da sola -è il primo disco di Hook che ho avuto modo di acquistare. Un diciassettene che ascolta la voce di un settantottenne (tale era Hooker quando lo registrò) che spiega, forte e chiaro, che il blues è guarigione, che la religione è roba per quelli che hanno paura di andare all'inferno, mentre il blues è per quelli che ci sono già stati. Ecco, ancora oggi, in alcuni momenti, mettere su in tutta calma un disco come Chill Out e ascoltarlo scrutando l'orizzonte può finire davvero col risultare essenziale.
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