Deve essere scattato qualcosa, in un determinato momento, nel cervello del regista spagnolo Jaume Collet-Serra. Dopo anni di lavoro spesi per filmacci di cassetta (Unknown), stupidate premestruali (Goal II), horror destinati al pubblico di MTV (La maschera di cera e mediocri thriller scritti per Liam Neeson (da Non-stop al recente Run all night), il regista di Orphan (per inciso, la sua unica pellicola degna di una menzione un po' più onorevole) deve essere stato colto dalla smania di mandare tutti a quel paese. E così, eccolo tornare in sala con un beast-movie incredibile, inaspettato e, per molti versi, unico. Paradise Beach è un film di vendetta, ma anche di sfogo. Collet-Serra prende infatti la meravigliosa Blake Lively e la trasporta- con tutto quel futile mondo fatto di chat, smiles e perbenismo a buon mercato -su una spiaggia messicana, una spiaggia senza nome dove non vengono troppi gringos. Una spiaggia che è, in primo luogo, la rappresentazione della vita della protagonista Nancy, oltre al punto geografico in cui sua madre- da poco scomparsa -realizzò di essere incinta di lei. Nancy ha venticinque anni, è texana, ama il surf e ha già attraversato e speso il primo quarto di secolo della propria esistenza. Ha da poco abbandonato gli studi di medicina, è un'anima depressa, senza stimoli, senza fidanzato, senza futuro. Tutte informazioni sciorinate nei primi venti minuti del film, gli stessi dove, sul piano formale, si gioca con gigantesche videochat griffate Sony Ericsson che ingombrano lo schermo e dove il montaggio scimmiotta tutta l'iconografia del surfismo 2.0: del resto, perchè omaggiare Un mercoledì da leoni e i Beach Boys quando si può buttare- con maggiore compiacimento -una biondina fra le fauci di uno squalo al ritmo di odiose canzonette post-skrillexiane? La fase Gossip Girl finisce dopo mezz'ora, quando la bestia (realizzata in una CGI superba e assolutamente realistica) attacca e Paradise Beach decolla, trasformando completamente quella che per i primi venti minuti era parsa una sitcom oceanica in molto di più. Tutto funziona: il thrilling è superbo, la Lively perfetta, la drammaticità incessante, lo scavo psicologico riuscito, l'azione filmata magnificamente e musicata perfino meglio dall'instancabile Marco Beltrami. Gossip Girl Vs. Shark Attacks si sarebbe chiamato se fosse stato un film Asylum, ma a Paradise Beach non interessa passare per mockbuster (regia e fotografia sono eccellenti), nè prendersi troppo sul serio. La finezza osata da Collet-Serra risiede proprio in questo: l'unica componente trash di questo film non è l'esagerazione dello scontro, le dimensioni della bestia, l'esasperazione dei danni inflitti agli altri (anzi, è preoccupantemente tutto molto autentico), bensì la presa di giro- volontaria -delle pellicole di genere che mirano a inglobare al proprio interno componenti sentimentali, familiari e drammatiche del tutto estranee al canovaccio iniziale. E Paradise Beach non è un pregevole beast-movie solo perchè inizia con i toni (e i colori) di una pubblicità della Hollister e diviene presto un incubo (realizzando, parallelamente, il sogno di chiunque sparerebbe a vista al famoso gabbiano ricamato su felpe e magliette degli over 20), ma perchè è oggettivamente uno dei migliori film del genere usciti negli ultimi anni. Provateci voi a buttare una bionda nell'acqua e a metterla contro uno squalo bianco riuscendo a far apparire il tutto genuino, originale e riuscito. Poi ne riparliamo.
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