domenica 27 settembre 2015

Sinfonie di autunno [Suggestioni uditive]

Davvero un'iziativa lodevole quella di 4 Nights Of 40 Years Live (Provogue, 2Cd+DVD, ) della Robert Cray Band di questo box che presenta tredici pezzi registrati da Robert Cray e la sua band in quattro diverse serate californiane lo scorso dicembre. Lodevole e utile per chi, come il sottoscritto, conosce e possiede assai poco di questo grande bluesman georgiano che, nei duri anni ottanta, si distinse con un'offerta musicale davvero insolita: un blues morbido e ardentemente vicino alla soul music in stile Stax. Sulle prime, fu scambiato per un Eric Clapton di colore, solo più giovane, ma furono l'inserimento dei Memphis Horns e alcune modifiche all'assetto della sua celebre Band a dimostrare ad un pubblico attento ed esigente (e, a detta di alcuni rompicoglioni, "troppo borghese") che Robert Cray metteva voce e chitarra sullo stesso piano e che era in grado di pubblicare album di fattura notevolmente superiori a quelli che gli stessi anni uscivano dallo studio di "Manolenta" Clapton. Bad Influence (1984), Shodown! (1985) e Strong Persuader (1986) rimangono un inimitabile (e inimitato) trittico di maturazione artistica, un qualcosa con cui è stato difficile fare i conti perfino per lo stesso Cray, soggetto, negli anni novanta, ad un lieve appannamento di immagine.
Sempre di un chitarrista di colore è The Story Of Sonny Boy Slim (Warner Music, ★), quarto album in studio (secondo con una major) a portare la firma di Gary Clark Jr., trentunenne texano allevato da Jimmie Vaughan, già conteso dai big di mezzo mondo (fra gli altri, Rolling Stones ed Eric Clapton) e autore di quel Live uscito un anno fa che è una delle più belle testimonianze di concerti di blues contemporaneo uscite di recente. Ora, vale la pena dire che siamo già alcune spanne sopra il leccatissimo Blak And Blu (2010), ma che questo ragazzo davvero stenta a ricreare in studio quell'atmosfera infuocata e lisergica che anima i suoi live. Dovrebbe capire che il mondo non ha bisogno di un nuovo Lenny Kravitz (artista a cui Gary ha aperto i concerti dell'ultimo tour europeo) e smetterla di fare questi gran mescoloni da cui esce poca roba e da cui tantomeno traspare la sua capacità di suonare il blues. Questo nuovo pseudo-concept album è sicuramente prodotto meglio e più organico del precedente, i suoni sono più equilibrati e, in certi punti, oserei dire "caserecci", ma proviamo a immaginarci queste canzoni (dall'enorme potenziale) suonate in acustico o al limite con una formazione a scartamento ridotto. Ecco, Gary Clark Jr. dovrebbe fare quel tipo di cose. 
Curioso che i fratelli Dave e Phil Alvin (al secolo, i Blasters) abbiano scelto per il loro ultimo album un titolo tanto significativo come Lost Time (Yep Roc Records, ★), cioè "tempo perso". Possibile che si rendessero già conto di quanto poco valga la loro ultima fatica? Il tempo perso a cui allude il titolo è quello dell'ascoltatore, ed è un vero peccato che due fuoriserie del loro calibro chiudano la carriera in questi modo. 
Una perdita di tempo ancora più deleteria può comportarla l'ascolto di Paper Gods (Warner Music, ★), quattordicesimo, straziante album dei Duran Duran. Band di culto negli anni Ottanta (quando, in piena new-wave, riuscirono anche a sfornare due dischi bellocci), ha conosciuto una bella spolverata in piena era revival ed è ormai una decina di anni che presenta lavori imbarazzanti e organizza pomposi live per ex-yuppies falliti. Questo nuovo album è per loro, e cioè per un pubblico col quale sono fiero di non avere niente in comune.
Noioso e deludente è anche Anthems For Doomed Youth (Virgin Records, ★), opera di ritorno dei Libertines. Pete Doherty non ha nemmeno quarant'anni, ha indovinato diverse belle cose nel corso della carriera, ma è veramente cotto, e non mi riferisco ai suoi problemi di dipendenza dall'eroina. E' arrivato al capolinea dell'ispirazione: può continuare a leggere Rimbaud e Verlaine quanto vuole, può continuare a raccontare a se stesso e al pubblico le fiabe neoromantiche che preferisce, ma niente può salvarlo. La conclusione di carriera dei Babyshambles è stata penosa, e il rilancio dei Libertines non si è rivelato poi tanto migliore. 
Due interessanti novità tardo-settembrine in ambito elettronico giungono sempre dalla terra di Albione: sto parlando dei nuovi album dei Nero e dei Disclosure. I primi fanno dubstep di quella bella, barocca e sfavillante. Per me, almeno nel genere, non hanno rivali e già ai tempi di Welcome Reality mandavano a casa Skrillex a pedate nel culo. Il nuovo Between II Worlds (MTA, ★) è una grande opera che sancisce definitivamente il loro ruolo di grandi maestri della dubstep: esce dopo una gestazione di due anni e non può e non deve essere apprezzata da chi passa la vita- con la mascella indurita -ad aspettare che aprano nuovi capannoni industriali nelle periferie di qualche città depressa. I Nero sono artisti seri e la loro musica sarebbe degna di aprire la prossima stagione della Scala. Ora più che mai.


Un paio di passetti indietro, invece, li hanno fatti i Disclosure. Questi fratellini sono stati impeccabili nel piazzare dei bei singoli di anticipazione e nel far salire l'hype alle stelle. Ma il nuovo Caracal (Island Records, ★), strano disco di garage house con escursioni canore che odorano addirittura di R&B, mostra un carattere derivativo di matrice pop che tende a insospettire. Il risultato- inferiore all'esordio ma non per questo scadente -è quello di un Settle prodotto con più soldi e meno idee. Il lato synth permane, ma è solo una faccia dei fratelli Lawrence, che in studio spaziano oltre i confini del genere assai più di quanto non facciano dal vivo (e dal vivo questi ragazzi sono delle forze della natura). Il problema non sono gli illustri ospiti chiamati a collaborare, nè l'eclettismo sonoro che permea gli undici brani di Caracal. Il problema è che la matrice garage del loro inconfondibile stile tende a perdersi qua e là. Ad ogni modo, vale la pena almeno ascoltarlo, se non comprarlo. Del resto, promette di rimanere in classifica per un paio di anni. 

sabato 19 settembre 2015

Keith Richards, "Crosseyed Heart" [Suggestioni uditive]

Keith Richards,
Crosseyed Heart
(Universal Music, 2015)
★★★½














Quando i Rolling Stones si sciolsero a metà anni Ottanta, Keith Richards dette la colpa ai suoni "sintetici" di Dirty Work e al fatto che Mick Jagger andasse "troppe volte in discoteca". Dal canto suo, Jagger affermò che gli Stones erano ormai "una palla al piede" e rischiavano di ostacolare la sua fulgida carriera solista (i cui frutti, chissà come, erano in tutto e per tutto identici ai dischi sfornati dalla band dal 1979 in poi). Il principe e il pirata, la popstar viziata da una parte e il chitarrista tossico dall'altra: immagini e luoghi comuni che sono sopravvissuti fino ad oggi e su cui il pubblico più facilone si è sempre diviso. Ma del resto la storia è stata più o meno quella: Jagger avviò una carriera parallela di grande successo, riempiendo stadi e piazzando singoli nelle più elevate posizioni della classifica e video in heavy rotation su MTV (e, soprattutto, continuando a suonare parecchi classici dei Rolling Stones), mentre Richards "si limitò" ad assemblare una band di grandi musicisti, a darle il nome di X-Pensive Winos e a incidere un eccellente esordio recante il titolo Talk Is Cheap (1988). Seguì un tour da cui sarebbe stato tratto l'ottimo e introvabile Live At The Hollywood Palladium (1991) e un secondo, scialbo disco chiamato Main Offender (1992) e registrato con un'altra band, i Wingless Angels.
Il punto è: quanto vale Keith Richards come cantante e autore completo? Secondo me, moltissimo. La sua carriera al di fuori della band è stata strampalata e discontinua, ma di tutt'altra caratura rispetto a quella dei compagni. Chi ama le canzoni dei Rolling Stones cantate da lui e le sue collaborazioni esterne (Pay, Pack And Follow, l'album di John Phillips dove Keef suona, canta e produce, è un capolavoro), ama per forza ciò che ha sfornato come solista, almeno coi Winos.
Crosseyed Heart arriva a ventitrè anni dall'opera solista precedente e a ben dieci da A Bigger Bang degli Stones. E' molto diverso dal pregevole Talk Is Cheap: più maturo, più commovente e, a momenti, perfino più cinico, ma- nell'essenza globale -niente affatto diverso dalle grandi canzoni di Keith (You Got The Silver, Happy, Before They Make You Run o T&A). Il  brano che dà il titolo all'album è un breve frammento acustico messo in apertura, pieno di quel dolore e di quel disappunto che gli Stones hanno irrimediabilmente perso nella loro versione post-muro di Berlino. Heartstopper scivola via, facile facile, mentre Amnesia, con quel riff che ricorda un po'Complicated Shadows di Elvis Costello, non ha bisogno di verbosità, suoni roboanti e cripticità contenutistiche. Robbed Blind è la chicca del disco, una delle canzoni più belle che Keith Richards abbia mai scritto: anzi, a livello di ballad, è in assoluto la migliore. Una riflessione matura sull'essenza lirica del country, un altro assaggio di quell'immaginario album che il chitarrista degli Stones sognava di incidere con Gram Parsons e che solo l'eroina potè ostacolare.
Il singolo di lancio, Trouble, trova posto come quinta traccia del disco ed è sostanzialmente bruttino. Lo stesso non si può dire di Love Overdue, cover di una vecchia hit reggae firmata da Gregory Isaacs, e di Nothing On Me, efficace e radiofonica. Suspicious è un lento che convince dalla prima nota e dal primo verso, la voce di Keith si fa profonda e delicata, come quella del miglior Tom Waits. Un altro ruggito inaspettato è Blues In The Morning, dove il sax del compianto Bobby Keys, la batteria da garage di Steve Jordan e il martellante piano di Ivan Neville creano un fantastico connubio di nervi, sangue e fuoco. Insopportabile- come i coretti che la introducono -è invece Something For Nothing. Nella pregevole Illusion le spazzole di Jordan e la voce di Norah Jones disegnano un'atmosfera notturna di grande fascino e la canzone risulta una delle migliori di tutto il disco. Just A Gift è un'altra ballata, rovinata però da troppe sovrincisioni e dai soliti, maledetti cori, mentre Goodnight Irene (estrapolata dalle liriche di Leadbelly e incisa pure da Mississippi John Hurt, uno dei miti di Keith) è un capolavoro asciutto, un racconto del mondo che fu. Sarebbe stata la chiusura perfetta, ma Crosseyed Heart non finisce così. Substantial Damage rispolvera stili più elettrici e aggressivi e infine ci conduce a Lover's Plea, nenia malinconica e disincantata.
Al contrario delle due vecchie prove soliste di Keef, Crosseyed Heart somiglia ad un album di appunti istantanei raccolti in un ampio lasso di tempo e messi in ordine solo da poco. Queste quindici canzoni sono belle o ignobili prese una ad una, ma ascoltate in sequenza vanno a comporre l'autentico codice genetico di Keith Richards, che qua, prima del rock, canta i sentimenti. E li canta consapevole dell'autorevolezza delle rughe che gli solcano il viso, visto che a ognuna di esse corrisponde un'esperienza (musicale, oltre che umana) da tramandare ai posteri, ai quali consegna quella che, pur non essendo la sua migliore prova solista, suona in maniera vincente. Crosseyed Heart è divertente e spontaneo, leggero e romantico, ben suonato e ben prodotto. Non risente delle ingiurie degli anni, specie nelle ballads, e ha perfino un punto in comune coi dischi dei Rolling Stones degli ultimi venti anni: troppe canzoni.
Insomma, si possono esaltare certi brani e denigrarne altri, ma il problema resta lo stesso: dovremmo iniziare a preoccuparci di che razza di mondo lasceremo a Keith Richards.

David Gilmour, "Rattle That Lock" [Suggestioni uditive]

David Gilmour,
Rattle That Lock
(Columbia Records, 2015)
★★















Sono passati già nove anni da On An Island, e di David Gilmour solista non sentivo minimamente nostalgia, anche perchè ho sempre pensato che, senza i testi di Roger Waters e la compagnia dei suoi storici compagni di viaggio, risultasse un ottimo chitarrista come se ne trovano molti. E questo nuovo Rattle That Lock me lo riconferma.
Massimo rispetto per la sua militanza nei Pink Floyd e per l'eccellente lavoro svolto sia ai tempi (difficili) di The Division Bell che per il recente The Endless River. Massimo rispetto per l'ispirazione che la sua chitarra continua ad infondere in migliaia di giovani alle prime armi con la sei corde. Massimo rispetto per le liriche scritte dalla signora Gilmour, Polly Samson: certi testi di Rattle That Lock sono- assieme alla splendida art cover dello Studio Hipgnosis -uno dei pochi aspetti positivi di tutto l'album. Massimo rispetto per chi, all'età sua, ancora si impegna in lunghi tour. Ma David Gilmour è davvero cotto e stracotto. 
Il nuovo disco vede la mobilitazione di una session-band freddina e totalmente proiettata in secondo piano rispetto a mr. Gilmour, complice anche la co-produzione di Phil Manzanera (di recente i Tg italiani ne hanno riportato il nome in quanto maestro organizzatore dell'ultima Notte della Taranta), personaggio ormai specializzato nel riesumare cadaveri, remixare nastri vecchi di decenni (la Barn Jam contenuta qua dentro, per dirne una) e ottenere pallose interviste su riviste come Mojo o NME. Sempre relegati al ruolo di turnisti merdaioli e sfruttati poco e male dall'ex-Pink Floyd, figurano personaggi del calibro di David Crosby, Graham Nash e Robert Wyatt.
Le canzoni sono esattamente quelle che devono stare dentro un disco di un membro qualsiasi dei Pink Floyd. Si possono talvolta sostituire alla sei corde un'armonica (Beauty), un organo (Today) o un pianoforte (A Boat Lies Waiting), si può illudere l'ascoltatore di ogni età e formazione che la vena progressive, stavolta, venga tenuta un po' più a bada (anche se gli episodi puramente progressivi sono le cose migliori di Rattle That Lock), ma non si può certo dire che in questi nove anni David Gilmour abbia maturato chissà quali consapevolezze artistiche. 5 A.M. e Today sembrano outtakes di On An Island (e non è che sia propriamente un complimento), Dancing Right In Front Of Me è il momento "americano" dell'album, mentre la conclusiva And Then sembra avere mancato (di poco) l'inclusione fra i solchi di The Endless River. Un brano che colpisce e continua a piacermi anche dopo quattro ascolti è The Girl In Yellow Dress, un episodio minore, quasi un jazz più vicino a Van Morrison che a Leonard Cohen (fra l'altro, proprio la voce del Maestro è stata incautamente paragonata a quella del Gilmour del 2015).
E mentre i fans attendono- come è giusto da parte dei fans -il solito colloquio cronometrato da Fabio Fazio e il successivo tour di promozione a cui tutti parteciperanno solo per cantare Wish You Were Here, io metto Rattle That Lock da una parte e vado oltre. O almeno ci provo.

martedì 15 settembre 2015

Fantastic 4- I Fantastici Quattro [Recensiione]

Che si tratti dei fan più ottusi o dei critici più avversi al fenomeno dei cinecomics, su una cosa nessuno ha mai avuto dubbi: I Fantastici Quattro (2005) di Tim Story e il suo sfortunato seguito, I Fantastici Quattro e Silver Surfer (2007), sono in assoluto i film di supereroi più brutti della storia del cinema. Visti i fragili esiti critici e la nota, scarsa sopportazione ai fallimenti da parte di una major come la Fox, il franchise dei F4 è stato riposto in un cassetto per anni e nessuno ne ha mai parlato volentieri. Poi nel 2009 sono iniziate a circolare voci: inizialmente riguardavano un terzo capitolo della saga, poi, verso il 2012, andava prospettandosi un onesto e modaiolo reboot diretto da un giovane indiependente (Josh Trank), curato da giovani tecnici, interpretato da un giovane cast di semisconosciuti. Fin qua niente di male.
Ma a gennaio, dopo lunghe e sconfortanti riprese che sono costate 120 milioni di dollari e un esaurimento nervoso al regista (roba da Hollywood Party), arriva, puntuale, il trailer di Fantastic 4. E si sa, ma forse vale la pena ribadirlo: nel perverso mondo dei cinefumetti, il trailer è tutto. A questo punto, chiunque si avventa sulla preda, con sberleffi vari, offese e critiche pesantissime e, alla lunga, poco interessanti. E anche qui nulla di nuovo.
Ora però che Fantastic 4 è uscito, se ne può parlare meglio e tentare di descrivere quale razza di pantomima in calzamaglia di serie Z sia. Già solo la trama è orrenda: giovani genietti stipendiati dal governo scoprono un'altra dimensione dove c'è il pianeta alieno, lo raggiungono, si incidentano, abbandonano- credendolo morto -il giovane Victor von Doom, tornano e hanno i superpoteri. Un anno dopo ritornano nell'altra dimensione, scoprono che Victor si è fuso con la tuta e ama farsi chiamare Dottor Destino, oltre a venir mosso dall'ardente desiderio di polverizzare il pianeta terra. I Fantastici 4 (anche se non si chiamano ancora così) dovranno impedirglielo.
Si dà il caso che questa paccottiglia fumettistica sia orribile in tutto. Non solo vanta un'interpretazione da film Asylum (e anzi che Kate Mara, almeno sulla carta, qualche chance poteva anche averla), ma è pure girata male: non importa quanto bellino fosse Chronicle (2011), perchè il Josh Trank che maneggia questi quattro coglioni e che si permette di citare David Cronenberg (prego?) come sua principale fonte di ispirazione non ne ha azzeccata mezza. Ha girato tutto come se dovesse essere un episodio pilota ad alto budget di qualche serie tv poco interessante. Non c'è un effetto speciale azzeccato: anzi, diciamo pure che l'intero apparato visual (aspetto che a volte salva, in corner, alcuni di questi troiai) è del tutto rivisto. La sceneggiatura di Simon Kinberg e Jermy Slater è scema e malriuscita: ne è la riprova il fatto che, per buona parte del film, Fantastic 4 strizzi l'occhio all'approccio al supereroe di Nolan, ma che al contempo tenti pure la via dello humor, ovviamente fallendo in entrambe le direzioni. Troppo ridicolo.
Così come ridicolo è il fatto che continuino a rifilarci queste coglionate. Coglionate che, ora come ora, incassano pure poco. E se proprio volete, guardatelo in streaming: ormai dovrebbe bastare il logo dei Fantastici Quattro per tenere lontana la gente dalle sale, ma non si sa mai.

domenica 13 settembre 2015

Slayer, "Repentless" [Suggestioni uditive]

Slayer,
Repentless
(Nuclear Blast, 2015)















Repentless, l'11esimo album in studio degli Slayer, è arrivato dopo trentaquattro anni di onorata carriera e a ben sei da World Painted Blood. E' uscito l'11 settembre, proprio come toccò, nel fatidico 2001, a God Hates Us All
Repentless è un album bellissimo, tra i migliori del gruppo, qui di nuovo a un passo dal capolavoro: è il disco della maturità, del dolore, della rabbia, ma soprattutto un disco in grado di narrare le storie del vero trash metal che affonda con tutto il suo  carico umano di speranze e delusioni, come spesso accade nella vita. Parla di rovina, di decadenza e della cattiveria della società, del crollo della lealtà e di tutti quei simboli che portano al termine delle speranze.  Si sa dai tempi di Reign In Blood: per gli Slayer, ogni cosa si paga col sangue, anche col sangue di qualcun altro. Il grande libro del metallo pesante è pieno di storie su amicizie che finiscono in tragedia pura, omicidi spietati e perfino suicidi. Su dodici tracce, solo Piano Wire è scritta da Jeff Hanneman, scomparso nel 2013 per cirrosi epatica. La sua morte è una delle colonne tematiche principali su cui il gruppo ha costruito tutto Repentless. Tom Araya la narra con tutto il dolore e tutta la rabbia di cui è capace, con la sua voce fangosa e roca, una raspa fastidiosa e coinvolgente, affascinante nella sua grettezza e nella sua capacità di emozionare come poche altre, rifacendosi a suoni e stili di metà anni Ottanta, quelli della  giovinezza della band, quando il suono era crudo e non arricchito dall'acustica delle maestose sale d’incisione odierne. Il nuovo organico funziona splendidamente: al posto di Dave Lombardo ritroviamo Paul Bostaph (malvisto dalla vecchia guardia, ma a mio avviso bravissimo e dotato di una personalità tutta sua), mentre la new-entry più clamorosa è Gray Holt degli Exodus alla seconda chitarra. Come se non bastasse, Kerry King compone il 100% del disco, e crea un'inattacabile fortezza sonora. 
Al contrario di ciò che si poteva supporre fino a pochi anni fa, gli Slayer sembrano l'unico complesso trash a marciare in senso contrario alle tendenze di un genere che ormai avanza campando (male) di rendita e distruggendo ciò che le generazioni precedenti hanno costruito. A loro interessa comunicare quello che c’è dentro la testa e l'anima, ma a modo loro: non sempre vengono capiti, è vero, e i testi di Hanneman prima e di Araya e King poi vanno girati e rigirati per trovare il codice d’accesso ai loro significati. Il risultato (stupefacente) di Repentless è un mix tra le radici americane della musica trash, le produzioni di Rick Rubin e uno speed metal a volte ingentilito dalla  presenza in console di Terry Date (non dimentichiamoci che questo è anche il primo disco del gruppo ad uscire per la Nuclear Blast) e a volte volutamente esasperato nella sua efficiente spontaneità. 
Il disco comincia con il tetro introitus di Delusions Of Saviour ed esplode con la title-track, singolo heavy dell'anno, video dell'anno, con ogni probabilità brano trainante del disco metal migliore di tutto il 2015. E poi c'è Take Control, che cattura immediatamente, strappa un sorriso, strizza l’occhio anche a chi- come me -gli Slayer non li ha mai venerati come delle divinità.  King e Holt sono due artisti che si amalgano al meglio e suonano come ai bei tempi. Vices fa degna coppia sia con l'aggrazziato speed di Cast The First Stone che con l’eleganza dark di When The Stillness Comes. Siamo solo a metà di Repentless, ma già in questi primi sei brani ci sono tutti gli Slayer di oggi. L'album prosegue con un paio di passaggi secchi e veloci (Chasing Death, Implode), e poi cede il passo al rimpianto e all’amarezza di Piano Wire, estremo e postumo contributo firmato da Hanneman. Il percorso riprende con la recuperata e meglio ri-registrata Atrocity Vendor, una b-side di World Painted Blood dal testo che è bene non pronunciare. Anche in You Against You la band non molla la presa: il disagio ti salta addosso, le parole sono dure, piangere è proibito. La voce di Araya non crolla e si addentra in Pride In Prejudice, estrema landa popolata da miserabili di ogni sorta.
La batteria di Bostaph incede inesorabilmente, la chitarra di King- che forse non è mai stata tanto brillante -naviga nel suo Lete personale, la musica va dove la portano gli Slayer e non dove vuole lei. Il gruppo termina il proprio racconto di sangue e dolore con questa canzone, chiude un grande album che fa pensare, ci obbliga a specchiarci nella desolazione morale e materiale che ci circonda. In Repentless nulla può annoiare e tutto, a partire dalla copertina, può lasciare sconvolto l’ascoltatore: non c’è via di mezzo, non c’è pietà per nessuno, Dio e il Diavolo guardano da un’altra parte mentre la tragedia si consuma in tutta la sua drammaticità.
 <<Dopo il licenziamento di Dave Lombardo e la morte di Hanneman dovevano smettere!>>, dicevano. E invece loro piazzano uno dei loro album migliori di sempre, un lavoro che fa venire i brividi e che, per quel che mi riguarda, va dritto a fare compagnia a Reign In Blood e South Of Heaven. Scusate se è poco.

sabato 5 settembre 2015

Iron Maiden, "The Book Of Souls" [Suggestioni uditive]

Iron Maiden,
The Book Of Souls
(Parlophone, 2015)
★★½















Nell'arco di una carriera iniziata, discograficamente parlando, trentacinque anni fa e snodatasi per oltre quindici album di inedite e una decina di live, gli Iron Maiden non erano mai approdati al doppio disco in studio. Succede oggi con The Book Of Souls, prodotto da Kevin Shirley e registrato ai Guillaume Tell Studios di Parigi (gli stessi dove prese vita quel mezzo capolavoro di A Brave New World): undici, lunghi brani divisi in due dischi, con in copertina un Eddie tribale come poche altre volte e il logo della band virato ad una splendida bicromia black&white. D'altronde, gli Iron Maiden sono i più grandi impacchettatori del sogno heavy metal di tutti i tempi, il che spiega anche gli incredibili dati di vendite registrati dai loro best-of (praticamente sempre identici) ogni due, tre anni. 
The Book Of Souls, pur nella sua doppiezza, non è l'album dei Maiden diverso. Senz'altro riveste una certa importanza la sempre meravigliosa voce di Bruce Dickinson, guarito da alcuni mesi da un tumore alla lingua, e fondamentali risultano i due brani da lui scritti e composti (If Eternity Should Fall e Empire Of The Clouds, la più lunga canzone mai prodotta dal gruppo). Che cosa cantino le nostre amate vergini di ferro  in queste lunghe cavalcate oniriche e visionarie, zeppe di riferimenti e vivide immagini, non sempre è facile a dirsi. C'è un morboso omaggio a Robin Williams (Tears Of A Clown) scritto dalla coppia Smith e Murray, la novella (Death Or Glory) dell'infallibile Barone Rosso (abbiamo capito che l'aviazione è il grande hobby di Dickinson, ma qua davvero non si parla d'altro), la breve Speed Of Light, l'angosciosa The Great Unknown
Alcune canzoni sono le solite, alcune sono divertenti (la strumentale When The River Runs Deep), alcune sono insostenibili e solo poche sono davvero belle (per quanto mi riguarda The Man Of Sorrows, If Eternity Should Fall). Nel complesso, The Book Of Souls è davvero troppo lungo, teso, perfino ripetitivo: può essere scritto e suonato bene, come solo gli Iron Maiden sanno scrivere e suonare un disco (possibilmente singolo e possibilmente sotto i sessanta minuti di durata), ma finisce comunque con l'annoiare, oltre a non aggiungere nulla nè agli artisti, nè all'ascoltatore, nè al genere. 
La band è in gran forma, e questo rincuora. Suonano una musica nella quale ancora sembrano credere e pur allungando a dismisura il brodo e dilatando i tempi, finiscono sempre col fare lo stesso album. Un giochetto, quest'ultimo, che però riesce molto meglio a colleghi più attempati e meno ambiziosi. Basta ascoltare gli ultimi lavori di gente come Motorhead o AC/DC per accorgersene.

venerdì 4 settembre 2015

Sinister II [Recensione]

In un vecchio post della rubrica Album parlavo di cinque film che nel 2013 non avevo fatto in tempo a vedere in sala o in streaming, ma che comunque invitavo ad acquistare in DVD o Blu-Ray. Fra questi trovava spazio Sinister, diretto da quello Scott Derickson che si era fatto le ossa- un po' malamente, bisogna dirlo -fra sequel di Hellraiser e remake di vecchie pellicole (Ultimatum alla terra). Tuttavia, pur non essendo un capolavoro, Sinister poteva vantare dei bravi attori, una trama semplice e ben congegnata e una messinscena eccellente. Non buona o discreta: eccellente.
Mi ero dimenticato di aggiungere una cosa: Sinister era un film che non necessitava di un seguito. Ma dall'epoca che ha fatto della inopportuna spremitura di idee uno dei suoi tratti tipici, cosa vogliamo aspettarci? Uscito il 21 agosto negli Stati Uniti e distribuito da noi dalla Koch (unico neo, almeno attualmente, fra le loro proposte horror), Sinister II è diretto da Ciaran Foy, irlandesino indipendentista (ma non indipendente) a cui hanno fatto montare il capo ai tempi di Citadel (2012) e al quale hanno affidato un soggetto dello stesso Derickson e qualche soldino in più rispetto al primo capitolo (quest'ultimo punto è pienamente condivisibile, visto che il primo film, costato 3 milioni di dollari, ne ha incassati un'ottantina in tutto il mondo).
In comune col suo predecessore, Sinister II ha una storia semplicissima (una mamma scappa dal marito violento, portandosi dietro i figli, si rifugia in una casa di campagna e Bughuul è lì ad aspettarli) e la presenza del vice-sceriffo (James Ransone). Per il resto, la cinepresa si muove poco e male (come tutto il film), non esiste tensione e manca il colpo di scena. Il problema di base è che la paura latita. In questo e in miriadi di altri horror estivi o tardo-estivi (Babadook escluso) la paura non c'è, e se c'è riguarda esclusivamente l'incapacità recitativa degli attori. Un film così funziona male sullo schermo del computer, della tv e, ovviamente, in sala. Di Foy non ho visto altro, ma la speranza che vada a lavorare lontano, in un mercato cinematografico che non comprende spedizioni di pellicole in Italia c'è tutta.
Mi sta bene sapere che siamo ridotti allo schifo, ma a volte è davvero troppo.