Primo giorno dell'anno in cui io e tutti i miei coetanei, volenti o meno, passeremo dagli -enti agli -enta.
Vado a pranzo da mia sorella, nel Chianti Senese. Ho già l'iPod collegato all'uscita AUX di Ginetta e decido di scegliere con più cura del solito la prima canzone dell'anno, perché per quanto il tristissimo 2018 sia ormai alle spalle sento il bisogno di celebrare questo traguardo.
E perché è importante fare delle scelte e dare valore anche a se stessi. Non lo dico per individualismo, ma perché stamani, guardandomi, allo specchio, ho visto il risultato di sonno arretrato e, soprattutto, di un eccesso di scelte sbagliate.
E poi basta merda. In materia, ho letto e sentito di tutto fino all'alba del 2019.
Per capodanno, a lavoro, la voce di Massimo Ranieri usciva da un televisorino della cucina.
Il liscio dominava la sala dove avevamo servito un'ottantina di ospiti (su un totale di duecento), mentre una musica da discoteca riminese (e no, non è un complimento) rimbombava in una saletta per giovani.
Ho sorriso e fatto gli auguri a un centinaio di persone che sembravano sinceramente felici e ferocemente esaltate dai soliti discorsi e dalla stessa zolfa di tutti i capodanni. Eppure è grazie a loro se ho capito che anche il più umile e occasionale dei lavoretti è una palestra per la sopportazione dell'ipocrisia.
La si può dominare, l'ipocrisia.
Ci si può convivere nella vita pubblica senza mai smettere di condannarla e, allo stesso tempo, sognando un anno nuovo di lotta e orgoglio: per me, questo significa avere buona volontà nei confronti di quello che il buon Lucio Dalla chiamava "l'anno che verrà".
Poi c'è la dimensione privata, quella dove il coraggio di manifestare se stessi non può e non deve venire meno. Scegliere il bello- ciò che ci piace e ci arricchisce come esseri umani e ci rende migliori -non è un atto edonistico dettato dalle possibilità materiali, ma l'unica forza necessaria per affrontare un progetto di vita sia personale che collettivo.
Non capisco chi, intimorito, si autocensura quando si tratta di fare scelte che esulano dai luoghi comuni e che ripudiano il mainstream, la consuetudine, la normalità: quante occasioni per palesare la propria intelligenza e la propria superiorità (parola di cui non dobbiamo avere paura) ci hanno riservato gli ultimi trecentosessantacinque giorni?
Ci sono dei profeti del pensiero unico la cui unica preoccupazione è quella di crescere bestie da soma (o pecore al pascolo, per adottare una variante ovina), entità che devono lasciare questo mondo senza avere raccolto un'emerita sega e, possibilmente, più malate e impoverite di quando sono arrivate.
Non prendiamoci in giro: non sarà Carlo Conti col suo ultimo dell'anno registrato su RAI1 ad asciugare le lacrime, il sangue e il sudore. Si prenda, piuttosto, Days Between, una delle perle inedite che i Grateful Dead presentarono negli ultimi due anni di concerti, pezzi lunghi, canzoni eteree che prendevano forma sera dopo sera e avrebbero dovuto costituire un quattordicesimo disco in studio mai nato, ma ricostruito- non ufficialmente e in maniera mai riconosciuta né condivisa dagli ex-membri del gruppo -solo in seguito dalla consueta schiera di appassionati, bootleggers e filologi.
So che ce ne sono a bizzeffe, ma sul momento mi risulta difficile trovare qualcosa che parli del tempo in maniera così precisa.
Come le sorelle So Many Roads o Eternity, Days Between non è mai stata presentata in italiano.
Lo stesso titolo è di difficile traduzione. Letteralmente, significa "giorni fra", ma "fra" che o cosa non è dato saperlo. Alcuni siti suggeriscono "giorni di pausa", ma io preferisco optare per una soluzione maggiormente astratta e suggestiva: " i giorni di mezzo".
I giorni di mezzo.
C'erano giorni
e giorni,
e poi c'erano i giorni di mezzo.
L'estate vola e agosto muore,
il mondo diventa scuro e crudele.
Arriva il luccichio della luna
sugli alberi infestati di nero
L'uomo canta la sua stessa canzone,
il santo se ne sta in ginocchio,
gli spericolati ne escono distrutti.
I timidi invocano le loro richieste
e nessuno sembra sapere molto di più
di quanto chiunque possa vedere.
C'erano giorni
e giorni
e poi c'erano i giorni di mezzo,
quando navi fantasma con vele fantasma
solcavano il mare percorrendo maree spettrali.
Il fulmine del sole
colpisce gli sfocati occhi luminosi
La malinconia di un altro giorno andato,
una primavera bagnata di sospiri,
una candela speranzosa indugia
nella terra delle ninne nanne,
dove i cavalieri senza testa svaniscono
fra grida selvagge e solitarie.
C'erano giorni
e giorni
e poi c'erano i giorni di mezzo,
quelli in cui tutto ciò che volevamo
era solo imparare, amare e crescere.
Una volta tirati su nei nostri panni,
abbiamo detto loro dove andare.
Camminava a metà strada intorno al mondo,
sulla promessa di un bagliore,
camminava sulla cima di una montagna,
a piedi nudi nella neve.
Ha dato il meglio che ha potuto,
quanto bastasse non lo sapremo mai.
C'erano giorni
e giorni
e poi c'erano i giorni di mezzo,
lucidati come una pentola ricolma d'oro,
la più bella mai vista.
La fiducia sopravvive nei cuori dell'estate,
ancora teneri, giovani e verdi.
Lasciati sugli scaffali a raccogliere polvere
di cui non conoscono il significato,
dei valentini di carne e sangue
morbidi come il velluto.
Sperando che l'amore non li abbandoni,
i giorni di mezzo giacciono lì.
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