Il prossimo aprile saranno quindici anni dalla mia prima volta con Kill Bill Vol. 2. Da allora non sono più tornato in quel cinema di Tavarnelle chiamato Olimpia (che per altro ricordo distrattamente), ma il film mi commosse e spiazzò come poche altre cose avevano fatto fino a quel momento. Dodici mesi passati a maledire un sadico, pazzo bastardo senza faccia e in meno di dieci minuti mi ritrovavo al cospetto di tutta la sua umanità, un'umanità che dopo l'orgia di teste mozzate e arti amputati a cui avevamo assistito la primavera precedente metteva perfino a disagio. Per la calma apparente con cui David Carradine si rivolgeva a Uma Thurman, per il flauto di Pan che si sovrapponeva a un frammento della colonna sonora de Il buono, il brutto e il cattivo, per quella combinazione di sandali e stivali solcanti il portico della cappella nuziale dei Due Pini, Bill divenne subito, a inizio proiezione, il mio personaggio preferito. Un individuo attempato e ferito, un padre single coraggioso, un guerriero nobile e consapevole in partenza della furia vendicativa che si sarebbe abbattuta sulla sua vita. Il finale chiudeva il cerchio mostrando una vendetta consumata a ogni costo e quasi masochistica, ma l'inizio fissava un'istantanea di storia del cinema che in seguito nessuno è più stato in grado di girare. Prima che il maritino Tommy uscisse a controllare che fosse tutto a posto, Bill si accingeva a voler raccontare un sogno meraviglioso fatto alcune notti prima, la Sposa lo interrompeva, Tommy sopraggiungeva e il film proseguiva fra convenevoli e sangue. Cosa Bill avesse sognato non lo si sarebbe mai scoperto e probabilmente a più di metà dei presenti in sala neanche importava, eppure io me lo chiesi fino alla fine. "Che può avere sognato un poveraccio che sta per dare un ultimo sguardo all'amore della sua vita prima che questo si sposi?" fu un quesito che rimbalzò brevemente anche su dei puntigliosi fan-forum apparsi in rete dopo l'uscita del primo volume. Un paio di anni dopo, durante un'autogestione scolastica, organizzai un piccolo corso sul cinema di Tarantino e feci vedere entrambi i film a fila, lasciando un'oretta scarsa di spazio al rito del dibattito. Io non posi la fatidica questione e l'uditorio, entusiasta, fece domande e osservazioni senza mai ritornare però sul racconto interrotto del sogno di Bill. Ci fu chi mi domandò se l'esplosione del cuore con cinque colpi delle dita potesse fosse una mossa realistica e io- che ho sempre detestato infrangere i sogni di chiunque -mi limitai a dire che bisognava saper bene dove mettere le mani. Successivamente, smise di importarmi cosa Bill avesse sognato. Ero troppo preso dai certi rancori personali e di quel capitolo in bianco e nero continuava a toccarmi in profondità solo ciò che si vedeva e quello che si dicevano Carradine la Thurman. E quello che accadeva iniziava a infastidirmi, perché mi ricordava la nostalgia per cose che non avevo vissuto ma a cui sentivo inevitabilmente, inconsciamente, di essere destinato. Un paio di settimane fa, mentre percorrevo undici chilometri di sabbia e macchia mediterranea in direzione di una solitaria caletta facendo i conti col mio libro finito e il suo piano di self-publishing, con un colloquio per un nuovo lavoro alle porte e con una festa a cui avrei preso parte la sera stessa, ripensai a Bill. E Bill faceva di nuovo quel sogno meraviglioso, dove un essere umano ne incontrava un altro e quest'altro lasciava un segno. In bene o in male, non aveva importanza: al risveglio sapeva solo che ne era valsa la pena e che voleva raccontarlo alla Sposa. Poi, chiaramente, il ruolo dell'assassino bastardo prendeva il sopravvento e la rabbia finiva con adombrare il resto. Lì sussisteva l'errore. La pallottola usciva dalla pistola di Bill senza che questi si fosse preso del tempo per elaborare e riflettere, innescando così la catena di eventi sanguinosi che avrebbe messo in moto il plot di tutta la pellicola. Ma noi non siamo Bill e un po' di tempo- che, per carità, "è un oceano, ma termina alla spiaggia" -meritiamo di prendercelo. Noi potremmo ancora avere l'occasione di confessare le nostre aspettative e di raccontare il sogno meraviglioso fatto quella notte. E dovremmo trovare il coraggio di concludere sul serio i nostri irrisolti per poi ricominciare ancora e ancora, fino a visionare in maniera superlativa ogni esperienza, ogni pianeta e ogni viaggio, temporaneo e non. Saper trarre fuori il meglio, riviverlo intensamente, proiettarsi nel futuro e giungere alla conclusione che tutto questo è stato bello al punto da star male. To be born again...
Primo giorno dell'anno in cui io e tutti i miei coetanei, volenti o meno, passeremo dagli -enti agli -enta.
Vado a pranzo da mia sorella, nel Chianti Senese. Ho già l'iPod collegato all'uscita AUX di Ginetta e decido di scegliere con più cura del solito la prima canzone dell'anno, perché per quanto il tristissimo 2018 sia ormai alle spalle sento il bisogno di celebrare questo traguardo.
E perché è importante fare delle scelte e dare valore anche a se stessi. Non lo dico per individualismo, ma perché stamani, guardandomi, allo specchio, ho visto il risultato di sonno arretrato e, soprattutto, di un eccesso di scelte sbagliate.
E poi basta merda. In materia, ho letto e sentito di tutto fino all'alba del 2019.
Per capodanno, a lavoro, la voce di Massimo Ranieri usciva da un televisorino della cucina.
Il liscio dominava la sala dove avevamo servito un'ottantina di ospiti (su un totale di duecento), mentre una musica da discoteca riminese (e no, non è un complimento) rimbombava in una saletta per giovani.
Ho sorriso e fatto gli auguri a un centinaio di persone che sembravano sinceramente felici e ferocemente esaltate dai soliti discorsi e dalla stessa zolfa di tutti i capodanni. Eppure è grazie a loro se ho capito che anche il più umile e occasionale dei lavoretti è una palestra per la sopportazione dell'ipocrisia.
La si può dominare, l'ipocrisia.
Ci si può convivere nella vita pubblica senza mai smettere di condannarla e, allo stesso tempo, sognando un anno nuovo di lotta e orgoglio: per me, questo significa avere buona volontà nei confronti di quello che il buon Lucio Dalla chiamava "l'anno che verrà".
Poi c'è la dimensione privata, quella dove il coraggio di manifestare se stessi non può e non deve venire meno. Scegliere il bello- ciò che ci piace e ci arricchisce come esseri umani e ci rende migliori -non è un atto edonistico dettato dalle possibilità materiali, ma l'unica forza necessaria per affrontare un progetto di vita sia personale che collettivo.
Non capisco chi, intimorito, si autocensura quando si tratta di fare scelte che esulano dai luoghi comuni e che ripudiano il mainstream, la consuetudine, la normalità: quante occasioni per palesare la propria intelligenza e la propria superiorità (parola di cui non dobbiamo avere paura) ci hanno riservato gli ultimi trecentosessantacinque giorni?
Ci sono dei profeti del pensiero unico la cui unica preoccupazione è quella di crescere bestie da soma (o pecore al pascolo, per adottare una variante ovina), entità che devono lasciare questo mondo senza avere raccolto un'emerita sega e, possibilmente, più malate e impoverite di quando sono arrivate.
Non prendiamoci in giro: non sarà Carlo Conti col suo ultimo dell'anno registrato su RAI1 ad asciugare le lacrime, il sangue e il sudore. Si prenda, piuttosto, Days Between, una delle perle inedite che i Grateful Dead presentarono negli ultimi due anni di concerti, pezzi lunghi, canzoni eteree che prendevano forma sera dopo sera e avrebbero dovuto costituire un quattordicesimo disco in studio mai nato, ma ricostruito- non ufficialmente e in maniera mai riconosciuta né condivisa dagli ex-membri del gruppo -solo in seguito dalla consueta schiera di appassionati, bootleggers e filologi.
So che ce ne sono a bizzeffe, ma sul momento mi risulta difficile trovare qualcosa che parli del tempo in maniera così precisa.
Come le sorelle So Many Roads o Eternity, Days Between non è mai stata presentata in italiano.
Lo stesso titolo è di difficile traduzione. Letteralmente, significa "giorni fra", ma "fra" che o cosa non è dato saperlo. Alcuni siti suggeriscono "giorni di pausa", ma io preferisco optare per una soluzione maggiormente astratta e suggestiva: " i giorni di mezzo".