Mi rendo sempre più conto che questi grandi concerti negli stadi (o nelle arene) che tanto mi emozionavano sullo schermo della tv da adolescente, hanno poco da dire. Che si parli della ineccepibile macchina sforna-concerti imolese dello scorso anno o della pessima organizzazione griffata D&G (e destinata per giunta a un concerto mediocre come quello degli Stones lo scorso settembre), la gente è troppa, il palco è distante, quando va bene, troppo distante, quando va male, i biglietti- e io, se li ho, non son certo il tipo che si fa problemi a spendere -costano sempre e comunque troppo, il fastidio generale finisce, spesso, con l'essere troppo. A prescindere da genere e artisti coinvolti, certa megalomania, certo gigantismo non giovano troppo al rock&roll. Figuriamoci poi in un paesotto marginale come l'Italia, dove le migliori stagioni musicali di tutti i tempi manco siamo stati in grado di viverle e dove il concetto di festival è solito tradursi in un'accozzaglia caotica spalmata lungo tutto lo stivale in un lasso di tempo concentrato in tre, quattro mesi l'anno. Resta tuttavia un fatto incontestabile: il Not in this Lifetime Tour fa sosta a Firenze, che, per affinità sanguigna ed elettiva, posso considerare la mia seconda hometown, e ogni indugio si annienta sin dal momento dell'annuncio (per i preamboli rimando a un post pubblicato a fine novembre). Al liceo sognavamo che uno show dei Guns avesse, come cornice, i luoghi dove siamo cresciuti e questa data fiorentina, personalmente, la interpreto come un preciso segno del destino. Per l'esattezza, ho letteralmente sognato due volte che i GNR arrivassero nel "cortile di casa": in un sogno, suonavano al mare, in un paese simile a Castiglioncello ma comprendente una rocca medievale dove io e Marco ottenevamo gli ambiti pass per il backstage, scoprendo così che la formazione era quella classica dell'87; in un altro, sempre ambientato durante l'estate, girellavo per un borgo come se ne trovano a bizzeffe dalle mie parti, entravo in una specie di pub seminterrato e i Guns stavano tenendo un intimo set acustico, mentre, fra una canzone e l'altra, Axl pronunciava- in un italiano corretto che giusto i sogni possono restituire -dei sermoni sulla vita di coppia, il matrimonio, il successo e il fallimento.
Ci vuole tempo per capire contorni e contenuti di una turné di estrazione rock, e i Guns N'Roses non fanno di certo eccezione. Questa formazione che potremmo denominare GNR "MKIV" va in giro per il mondo, seppur con qualche interruzione, dall'aprile 2016. Il 2017 si è chiuso con incassi da record, il Not in This Lifetime Tour si è confermato come il quarto evento musicale più redditizio della Storia e gli ultimi show americani dello scorso ottobre hanno mostrato una band intenta a suonare quelli che perfino certi critici più maturi, inaciditi e scafati del sottoscritto non hanno tardato a etichettare all'unanimità come fra i migliori che il gruppo abbia mai presentato (e in effetti, anche solo fermandosi alle ultime scalette, c'era di che dar loro ragione). Qua sotto, un piccolo assaggio di pezzi presentati in una qualsiasi serata a Filadelfia:
Ci vuole tempo per capire contorni e contenuti di una turné di estrazione rock, e i Guns N'Roses non fanno di certo eccezione. Questa formazione che potremmo denominare GNR "MKIV" va in giro per il mondo, seppur con qualche interruzione, dall'aprile 2016. Il 2017 si è chiuso con incassi da record, il Not in This Lifetime Tour si è confermato come il quarto evento musicale più redditizio della Storia e gli ultimi show americani dello scorso ottobre hanno mostrato una band intenta a suonare quelli che perfino certi critici più maturi, inaciditi e scafati del sottoscritto non hanno tardato a etichettare all'unanimità come fra i migliori che il gruppo abbia mai presentato (e in effetti, anche solo fermandosi alle ultime scalette, c'era di che dar loro ragione). Qua sotto, un piccolo assaggio di pezzi presentati in una qualsiasi serata a Filadelfia:
Arriviamo a Firenze con un po' di timore, io, Sofi, Limo e mia sorella Francesca. <<L'ultima volta che abbiamo visto un concerto insieme io e te, Limo?>> e lui <<Mmm... Marco Masini al Mandela, e prima di lui gli Oasis!>>. Ne è passata di acqua sotto i ponti da allora e l'unica costatazione che mi viene da fare è <<Certo che siamo andati a migliorare!>>. All'apertura del festival, la sera prima, i Foo Fighters hanno invitato Axl, Slash e Duff sul palco e si sono lanciati in una It's so Easy fotonica: sotto il palco, un Nikke gasato come non mai mi ha perfino telefonato garantendomi l'ottimo stato di salute dei ragazzi, in particolare di Axl. Vengo comunque assalito da mille dubbi <<E se il castello di carte che ho in testa da mesi andasse rovinato per colpa di chi gestisce il Firenze Rocks?>>, poi guardo mia sorella- compie 15 anni fra due mesi -penso che non solo non ha mai visto i Guns N'Roses, ma che non ha mai preso parte a un evento di una portata simile a questa e ne ammiro la calma e l'inconsapevolezza. Io ormai ho imparato che i concerti, nel senso più ampio del termine, sono fra i pochi contesti in cui l'essere umano può ancora essere libero, lei ancora non lo sa. Ma è giusto che sia così.
Parcheggio rocambolesco in via Michelucci e in dieci minuti siamo all'ingresso del Visarno lato piazza Puccini. Mia sorella, che si è aggiunta "in corsa", avrebbe un ingresso rosso, ossia da piazzale Jefferson, ma decido di fare comunque un tentativo. I biglietti, salvo una piccola scritta, sono identici, così scambio il mio col suo, di modo che, semmai qualcuno venga rimbalzato fino a Porta al Prato, quel qualcuno sia io. Il livello di security è pari a quello che potreste trovare alla Sagra del Fungo di Pievescola, i bodyguards del primo tornello tengono la cancellata aperta e si limitano a chiedere <<Che colore avete?>>. E così a <<Che colore hai?>> sorrido e rispondo <<Giallo>> e vengo fatto passare. Solita pantomima al metal detector e alla perquisizione allegata: butto quel che rimane del nostro bottiglione d'acqua, mostro i resti di una schiacciata secca e mi assicuro che anche Francesca venga fatta passare senza problemi. All'ultimo tornello, con mio sommo stupore, una ragazza molto bassa e molto larga legge i codici a barre e restituisce i biglietti senza strapparli. <<Ce li strapperanno dopo>>, dico a Limo, ma questo non succede. <<Bah...Organizzazione Firenze Rocks...>>.
Siamo in cima al settore prato, praticamente al confine con l'ambito gold pit. Conquistiamo un posto comodo su un poggetto che si affaccia, in linea d'aria, sulla sinistra del palco, con una visuale laterale eccellente. Mi preme che Sofi e Francesca, meno alte di me e Limo, vedano bene e la posizione sembra davvero azzeccata. Meno gente sembra cedere alla truffa dei token. Noi individuiamo i wc chimici, mentre Limo mi offre una Heineken gelata. Caldo, ma neanche quella bolla di calore che inizia a investire Firenze già da questo periodo. Per il resto, assistiamo al solito, indecente freak-show di cellulari tenuti in aria per decine di minuti, spintoni, galline deliranti, fans allucinati, ragazzini in età scolare che evidentemente- costandogli troppo un fine settimana al mare -sembrano venuti fin qui per mostrare al pubblico del Visarno le loro addominali scolpite e la loro debordante virilità gonfia e gonfiata di ormoni. In particolare, rimango colpito da uno di loro che non accenna a smettere di fissarsi i bicipiti mentre i gruppi si susseguono sul palco. Non arriva a vent'anni, li scruta, li ispeziona per un paio di minuti che a me sembrerebbero interminabili: a lui non so.
Per i Guns è il nono concerto italiano. Al termine dei sei mesi di stop, il Not in This Lifetime Tour è ripartito dall'Europa: all'incerta, difettosa serata berlinese del 3 giugno hanno fatto seguito una data danese con tre aggiunte in scaletta (fra cui Shadow of Your Love, risuonata per la prima volta dopo il 22 giugno 1987), una stratosferica venue al Download Festival di Donington Park (dove è stata saggiamente eliminata Don't Cry per far spazio a una Patience che si apre con Waiting on a Friend dei Rolling Stones) e un'ottima performance nella cittadina tedesca di Gelsenkirchen, dove la tracklist ha raggiunto l'invidiabile cifra di trenta canzoni suonate (Yesterdays e di nuovo Don't Cry, tollerabile solo perchè anticipata- come a Imola lo scorso anno -da una versione strumentale di Melissa degli Allman, versione che da quanto ho potuto sentire in rete ha finito col godere di ulteriori perfezionamenti da parte di Slash e Fortus).
Saremo 60.000 a esagerare: dunque, un numero non altissimo e posizionato in uno spazio arieggiato e vivibile. <<Ieri sera c'era molta meno gente!>>, dice un tipo vicino a me alludendo al concerto dei Foo Fighters. Abbiamo evitato le prime due opening band, ma il set dei Volbeat ce lo vediamo tutto. I Volbeat godono di un nutrito seguito nel nostro paese, non come quello de I Cani ma quasi: in entrambi i casi viene da chiedersi perchè. Ah, ovviamente i Volbeat sembrano più simpatici. Verso le 20:00 sui (piccoli) monitor del Visarno compare la grafica del cannone dei Guns, cannone che inizia a spostarsi, mirare e sparare. Per i primi cinque minuti tutti rispondo ai suoi colpi con un boato, poi la folla si rompe le palle e lascia che il cannone si sfoghi, continuando a sparare regolarmente fino alle 20:10. Dopodichè, eccoli. <<Che amorevoli tamarri!>>, penso. Il palco è grande ma non esagerato: tuttavia, Dizzy, Melissa e Frank stasera mi sembrano lontani come non mai. L'opera di missaggio soffre di problemi inenarrabili, roba che basterebbe e avanzerebbe per fare fagotto e andarsene. Non posso fare a meno, anche qui, di tracciare un paragone con il suono all'autodromo di Imola: come è naturale in arena, i primi minuti di concerto servono ad aggiustare suoni e volumi per far sì che l'audio venga restituito nella maniera più dignitosa possibile a tutti i presenti, settore per settore. Peccato che It's So Easy, Mr. Brownstone e Chinese Democracy somiglino a dei ricordi di canzoni gettati alla rinfusa dentro una centrifuga, e che da tutte e tre emerga un'ulteriore, incontestabile verità: la voce di Axl soffre ben oltre i limiti concessi. Scambio due parole con una ragazza dietro di me: lei era a Milano nel 2012 e mi garantisce di aver visto un grande concerto, io le credo e provo a spiegarle che a Imola, un anno fa, Axl andò oltre ogni aspettativa e che l'unico membro fuori forma del gruppo, in realtà, era Slash.
Con Welcome to the Jungle- di cui, purtroppo, riusciamo a distinguere solo le meravigliose chitarre e il basso di Duff -un minimo di speranze si riaccendono, gli acuti e i vocalizzi ricalcano il buon vecchio standard a cui Axl ha ormai abituato il pubblico del Not in This Lifetime Tour, l'arrangiamento è sopraffino e l'assolo prolungato una rovente libidine. Si palesa così una piacevole novità: Slash, che l'anno scorso mi era sembrato simile all'ombra di un rocker ultracinquantenne, musicalmente appannato e molto prigioniero della propria caricatura, stasera torna finalmente a essere un fottuto chitarrista di rock&roll. Un viaggio a ritroso fino alla forma migliore, quella che non si vedeva dai tempi dei suoi Blues Balls (con meno blues, ovviamente) e dei primissimi Velvet Revolver.
Better è di nuovo un pezzo in caduta libera, per quanto Melissa inizi a tirar fuori gli artigli e non se ne stia più lì impalata a fare la bella statuina sullo sfondo: scuote la sua ormai famosa chioma blu, si prodiga in cori e contro-cori, conquista le attenzioni delle telecamere, ammicca a un pubblico che ormai la riconosce a tutti gli effetti come un membro dei Guns N'Roses.
Se in quella che finora ha rasentato più volte la tragedia dovessimo trovare un punto di svolta, quel punto di svolta si chiama Estranged. Dopo Estranged le coordinate del concerto si sposteranno drasticamente verso il miglioramento: è chiaro che l'iniziale mezz'ora di audio devastato non ce la restituirà nessuno e che sarà difficile toglierci dalla testa l'incontestabilmente mediocre performance del signor Rose fino a un momento fa. Axl tira fuori un'altra voce da sotto la sua bandana, scardina le coordinate di quello che, da alcuni sprovveduto, viene indicato come puro e semplice rock revival e Slash gli va dietro: a distanza di dodici mesi, quello che l'anno scorso mi era sembrato un pezzo rischioso e dalla scarsa resa concertistica si è tramutato in un momento di altissima intensità. Nella mia testa, Estranged è tutto un susseguirsi di memorie, gocce di pioggia, litigi annebbiati e lacrime.
Live and Let Die, per me, resta pura e semplice nostalgia. Non è lo specchio di ciò che vivo oggi, né ne rappresenta in alcun modo la colonna sonora, eppure riesce sempre a mettermi i brividi la sua capacità di proiettarti davvero a "quando tu eri giovani e il tuo cuore era un libro aperto". Di cosa risveglia nel sottoscritto Live and Let Die e di molto altro parlerà il libro Illusioni indesiderate (titolo provvisorio), in uscita entro l'11 novembre 2019.
Vuoi perchè l'originale è un pezzo che conosco a menadito e che ho ascoltato innumerevoli volte fin dalla sua uscita (8 giugno 2004), vuoi perchè rientra fra gli sporadici barlumi di novità rinvenibili in questo segmento di tour (fino a ora la scaletta è stata identica all'anno scorso), trovo che i quattro minuti di Slither siano fra i più esaltanti della serata. I suoni dei sette riempiono l'arena. Per un po' tornano certi meccanismi del periodo Illusion Tour, o almeno torna una band in cui ognuno, nel corso di un'esecuzione ineccepibile, si fa i cazzi suoi contribuendo però a formare un amalgama unico. Tornano i tempi in cui il signor Rose arrivava da solo, scortato dentro una limousine, usciva e stendeva tutti, anche gli U2, i Rolling Stones e chi altro vi pare. E poi veder suonare dal vivo quello che probabilmente è stato l'ultimo grande assolo firmato da Slash non ha prezzo.
Stasera Rocket Queen è davvero irritante: l'assolo di talkbox tirato via e fastidioso, molto meglio la parte slide subito successiva. Mi rendo anche conto che l'Hammond di Dizzy non si sente, che gli effetti di Melissa sono inghiottiti dalla sezione ritmica e che la soglia dell'attenzione del pubblico del Visarno (ma forse, in generale, della attuale fanbase dei Guns) è pari a quella di un bambino scemo. Non un assolo lievemente più lungo, non un barlume di jam sembrano essere tollerabili. <<Forse è in una fabbrica dell'Ohio che voi riuscireste a trovare voi stessi>>, diceva il Capitano Willard ai giovani soldati scelti per accompagnarlo lungo il fiume in Apocalypse Now. Ecco, diciamo che- stando a quanto sto avendo modo di vedere e sentire stasera intorno a me-un attuale fan medio dei Guns potrebbe trovare se stesso dentro un libro di Paola Maugeri.
Al netto di tutto, Axl è davvero un mistero: una rockstar indefinibile, poco etichettabile, non più schiva come un tempo, ma a modo suo ancora sfuggente. "Ogni volta che uno pensa di aver capito qualcosa di Axl, lui arriva e ti smentisce", ebbe a dire Bumblefoot non più tardi di quattro anni fa nel corso di un'intervista che annunciava un imminente doppio album di inedite e un'altra serie di appuntamenti indoor a Las Vegas che, per quei GNR, sarebbero stati anche gli ultimi. Quelle portate sul palco nell'autunno 2014 erano canzoni assemblate e affrontate svogliatamente, con arrangiamenti sempre identici e banali. Con Shadow of Your Love, piuttosto, i Guns sembrano davvero ricordarsi di quando, dai palchi dei più malfamati club di L.A., rivoltavano il mondo: diretta, essenziale, asciutta, più punk della parentesi puramente punk che Duff aprirà poco dopo con Attitude dei Misfits. Nel mezzo, una You Could Be Mine "di maniera", con Axl che oscilla fra alti e bassi, la voce che va e viene, Slash ai massimi livelli.
This I Love fa emergere due grandi domande. La prima: come mai i Guns (o meglio, Axl) si ostinano a presentarla in concerto? Era una canzone incantabile nel 2010, con qualche resa discreta ottenuta nel 2012 (vedere video sotto), ma nel complesso trovo che sia davvero penalizzante perseverare nel proporla. Questo vale per loro, che si ricoprono gratuitamente di ridicolo per quasi cinque minuti, e per noi, che dobbiamo affrontare questo estenuante supplizio. La seconda domanda: possibile che in un'era dominata dalla banda larga, dai social, dalla free music, da Spotify, da YouTube, dal file sharing, ecc. la gente non sia ancora stata in grado- a quasi dieci anni dalla sua uscita -di ascoltare, approfondire, al limite di farsi perfino piacere le canzoni di Chinese Democracy?
La voce di Axl in Civil War somiglia, inaspettatamente e meravigliosamente, a un ulteriore strumento messo in bella mostra sul palco. Di svolte, sterzate e frenate il ragazzo ne ha collezionate tante, ma alcune cadute verificatesi stasera a più riprese danno davvero da pensare. Eppure, i momenti critici di inizio serata e l'irragionevole figuruccia di This I Love sembrano già ombre lontane. Così come- ahimè -sono lontani i lunghi anni del Chinese Democracy World Tour, cominciato il primo gennaio 2001 e concluso nel 2011, così ricchi di improvvisazioni, sperimentazioni, cambi di formazione, scalette selvagge, variazioni di durata, sbalzi d'umore, brani inusuali, covers rare e ricercate. Il signor Rose del 2018 è un frontman responsabile e sicuro di sé, un artista che firma autografi, posa coi fans nelle foto, inizia i concerti con la puntualità di un Rolex e si ferma perfino a chiacchierare coi giornalisti che gli fanno domande scomode su un suo ipotetico futuro come voce solista ufficiale degli AC/DC. Insomma, un esempio di grande professionalità i cui risultati performativi risultano però ampiamente oscillanti.
Veniamo lasciati soli per una ventina di minuti con Slash. Ribadisco: è un altro musicista rispetto a quello che si aggirava sul palco di Imola l'anno scorso. Con cuore, passione e buona tecnica si inoltra in una jam che sfocia in una Johnny Be Goode strumentale e si conclude con l'immancabile score de Il Padrino. Una sicurezza.
Neanche un secondo intercorre prima che il ricciolone si lanci nel più geniale e noto giro di chitarra della storia del gruppo: Sweet Child O'Mine tende, purtroppo, a fare l'effetto karaoke, ma da quel poco che riesco a percepire della voce di Axl, parrebbe proprio che il rosso di Lafayette non ce la faccia a mantenere l'intonazione, almeno nelle prime strofe. Dei ritornelli e un assolo prodigiosi ci conducono a una conclusione allungata dove tutto il carro armato GNR fa il suo dovere: Slash e Fortus schitarrano, Duff pesta sul basso, Ferrer (stasera un batterista comune e privo della personalità dimostrata fino a qualche mese fa nelle grandi serate europee e americane) fa sfumare i suoi crash, Dizzy pesta sui tasti e Melissa modula il tutto.
Visto che le scalette dei Guns N'Roses post-2016, seppur con qualche gloriosa eccezione (gli ultimi concerti americani del 2017), si sono fatte rigidissime, tutto il Visarno dovrebbe gioire e inchinarsi a una Wichita Lineman da cappottamento. Non si può pretendere che tutti i presenti conoscano questa vecchia hit scritta da Jimmy Webb e resa immortale da Merle Haggard, ma che almeno il pubblico fiorentino abbia la decenza di fermarsi ad ascoltarla, magari mosso da un minimo di curiosità, e invece no. Paradossalmente, tocca a me sporgermi per sovrastare il cicaleccio, le passeggiatine, il viavai di chi ha aspettato finora per andare al bar. Rifletto sul fatto che questo è lo stesso genere di pubblico che, il giorno dopo, sarà intento a descrivere con chissà quali iperboli il concerto. Perchè l'importante non è né ascoltare né capire. Ormai l'importante non è più neanche esserci: l'importante è dire di esserci stati. Se poi lo si dice con una ventina di Instagram Stories, è pure meglio.
Se sulla "lunga distanza" i Guns hanno tirato a lucido come non capitava da anni Estranged, non si può dire lo stesso di Coma. Per motivi diversi da This I Love, Coma è un altro di quei pezzi che, dal vivo, vanno semplicemente oltre le potenzialità del gruppo e che dunque andrebbero evitati. Anche qui torno a chiedermi: ma quanti pezzi altrettanto splendidi tratti da Chinese Democracy potrebbero sostituire Coma? In realtà, nella prima parte, Axl se la cava meglio di quanto ci si potrebbe aspettare, ma tutto deraglia dopo il primo assolo di Slash, la voce fa i capricci, l'intricatissima parte finale si rivela un pasticcio senza capo nè coda.
Il siparietto Fortus-Slash non ha subito modifiche: è lo stesso da oltre due anni e tanto fa. Della loro Wish You Were Here americanizzata- e suonata come Dio solo sa, per carità -ne farei anche a meno. Mi piacerebbe sentire qualcosa di diverso: un solo di piano blues fatto da Dizzy, Melissa che canta da cima a fondo una canzone qualsiasi, Frank che si lancia in un solido assolo di batteria (per quanto fuori fuoco possa sembrare stasera, so che ne sarebbe capace). E invece niente.
Layla è davvero emozionante. Me la aspettavo, ma Slash e Axl garantiscono a November Rain un'apertura ancora più grandiosa e coinvolgente dell'anno scorso. E November Rain è una canzone che si ascolta sempre volentieri, ti emoziona dalla prima all'ultima nota. E' anche uno dei pochi brani che rende meglio oggi che nel 1992, amplificato, per altro, da un'eccezionale sezione visuals. Da questo momento in poi, l'esuberanza e le capacità vocali di Axl sembrano rinnovarsi e inizia così una sequenza che rappresenterà- assieme alle isolate Estranged, Civil War e Wichita Lineman -l'unica parte della serata che ci porteremo nel cuore: la Black Hole Sun definitiva, una Used to Love Her grandiosa e nuovamente tirata a lucido, Knockin'on Heaven's Door sacrificata dagli ennesimi errori di volumi e missaggio ma non per questo poco riuscita (e, porca puttana, anche se sono neanche due minuti, che brividi mi vengono quando Slash suona Only Women Bleed e Axl lo segue con la voce) e una devastante Nightrain sembrerebbero chiudere in bellezza la serata. I ragazzi hanno già suonato più di quanto fecero a Imola. Si sono dimostrati una band stratosferica in grado di enunciare, sera dopo sera, un personale Bignami rock che va da Bob Dylan a Merle Haggard, da Paul McCartney ai Soundgarden, da Clapton (o meglio Derek & The Dominoes, se, come me, si soffre di un eccesso di pignoleria musicale) a Johnny Thunders, dal punk dei Misfits ai Pink Floyd. Musicalmente, non una nota sbagliata o un brano fuori luogo.
E invece lo spettacolo continua. Una piccola pausa (l'unica della serata, così per dire) durante la quale Axl bofonchia qualcosa lascia il passo a Slash e Fortus, che nuovamente strimpellano in semi-acustica Melissa. Penso al fatto che il mio gruppo preferito stasera suona musica di altri miei artisti preferiti (Dylan, prima, gli Allman adesso), mi lascio cullare e ascolto Slash intonare Patience e il fischio di Axl riempire un Visarno immeritevole di tanta bellezza. Finalmente una grande mossa: togliere un anello debole come Don't Cry per fare spazio a una canzone che dal vivo non perde mezza oncia del proprio valore. Suggerisco a mia sorella che Gregg Allman manchi molto anche ai Guns.
Yesterdays è Yesterdays: chi non ha capito il suo valore, la ricchezza contrastante con la sua brevità e i suoi significati può andare a cacare subito. Una canzone che ogni giorno che passa sento sempre più affine. E la sento così da moltissimi anni, credetemi.
The Seeker è piuttosto scialba, rientra fra quelle covers che ormai andrebbero cassate in favore di qualcosa di diverso e poi- vai a sapere perchè -rendeva indubbiamente meglio cinque, sei anni fa rispetto ad adesso e poi buio, buio e ancora buio. Torna Slash. E' solo, suona qualche accordo inventato sul momento e poi si lancia in Paradise City. Dopo aver affrontato gli Who, Axl è davvero arrivato, ma non demorde: si butta, rischia e porta a casa un risultato comunque dignitosissimo. Ovviamente, lascia molto spazio ai cori di tutto il gruppo e lascia ampio spazio al pubblico, oltre a saltare volutamente un paio di strofe. Conclusione apocalittica, Slash che si comporta come se volesse suonare un altro paio d'ore e fuochi d'artificio ("le puttane dei sensi", per dirla con Keith Richards) che riescono a corrompere come poco altro e ad ammaliare i 60.000 presenti al Visarno.
John Ford sosteneva che, fra la Verità e il Mito, vince il secondo. Se i Guns N'Roses avevano chiuso il 2017 come una grandissima band che poteva permettersi di perdere tempo a piantare un nuovo paletto lungo il cammino e a dedicarsi al proprio futuro, oggi questa idea andrebbe rivisitata. Le possibilità di ascoltare nuova musica- qualunque nuova musica da loro registrata e prodotta -sembra affievolirsi mese dopo mese, mentre, contemporaneamente, i concerti vanno bene e loro sono tornati a tutti gli effetti un gruppo da decine di migliaia di spettatori. Lo spettacolo a cui abbiamo assistito ieri a Firenze è stato ben costruito, ha conosciuto alcuni problemi di gestione organizzativa e la performance musicale è stata per alcuni versi migliore che a Imola. Il motivo è presto detto: Slash si è riappropriato delle sue capacità e il Mito (dei Guns, in questo caso) può dirsi intatto e al sicuro. Lasciando un attimo in disparte l'aforisma di John Ford, però, andrebbe presa in mano la meno accomodante (ma non per forza meno piacevole) Verità e dovremmo abbracciare una visione maggiormente realista di certi fatti: i Guns N'Roses del 2018 sono questi. Un po' più di intimità, coscienza dei limiti tecnici (mi riferisco ad Axl) e maggiore flessibilità delle loro scalette gioverebbe non poco e tutto risulterebbe migliore.
Parcheggio rocambolesco in via Michelucci e in dieci minuti siamo all'ingresso del Visarno lato piazza Puccini. Mia sorella, che si è aggiunta "in corsa", avrebbe un ingresso rosso, ossia da piazzale Jefferson, ma decido di fare comunque un tentativo. I biglietti, salvo una piccola scritta, sono identici, così scambio il mio col suo, di modo che, semmai qualcuno venga rimbalzato fino a Porta al Prato, quel qualcuno sia io. Il livello di security è pari a quello che potreste trovare alla Sagra del Fungo di Pievescola, i bodyguards del primo tornello tengono la cancellata aperta e si limitano a chiedere <<Che colore avete?>>. E così a <<Che colore hai?>> sorrido e rispondo <<Giallo>> e vengo fatto passare. Solita pantomima al metal detector e alla perquisizione allegata: butto quel che rimane del nostro bottiglione d'acqua, mostro i resti di una schiacciata secca e mi assicuro che anche Francesca venga fatta passare senza problemi. All'ultimo tornello, con mio sommo stupore, una ragazza molto bassa e molto larga legge i codici a barre e restituisce i biglietti senza strapparli. <<Ce li strapperanno dopo>>, dico a Limo, ma questo non succede. <<Bah...Organizzazione Firenze Rocks...>>.
Siamo in cima al settore prato, praticamente al confine con l'ambito gold pit. Conquistiamo un posto comodo su un poggetto che si affaccia, in linea d'aria, sulla sinistra del palco, con una visuale laterale eccellente. Mi preme che Sofi e Francesca, meno alte di me e Limo, vedano bene e la posizione sembra davvero azzeccata. Meno gente sembra cedere alla truffa dei token. Noi individuiamo i wc chimici, mentre Limo mi offre una Heineken gelata. Caldo, ma neanche quella bolla di calore che inizia a investire Firenze già da questo periodo. Per il resto, assistiamo al solito, indecente freak-show di cellulari tenuti in aria per decine di minuti, spintoni, galline deliranti, fans allucinati, ragazzini in età scolare che evidentemente- costandogli troppo un fine settimana al mare -sembrano venuti fin qui per mostrare al pubblico del Visarno le loro addominali scolpite e la loro debordante virilità gonfia e gonfiata di ormoni. In particolare, rimango colpito da uno di loro che non accenna a smettere di fissarsi i bicipiti mentre i gruppi si susseguono sul palco. Non arriva a vent'anni, li scruta, li ispeziona per un paio di minuti che a me sembrerebbero interminabili: a lui non so.
Per i Guns è il nono concerto italiano. Al termine dei sei mesi di stop, il Not in This Lifetime Tour è ripartito dall'Europa: all'incerta, difettosa serata berlinese del 3 giugno hanno fatto seguito una data danese con tre aggiunte in scaletta (fra cui Shadow of Your Love, risuonata per la prima volta dopo il 22 giugno 1987), una stratosferica venue al Download Festival di Donington Park (dove è stata saggiamente eliminata Don't Cry per far spazio a una Patience che si apre con Waiting on a Friend dei Rolling Stones) e un'ottima performance nella cittadina tedesca di Gelsenkirchen, dove la tracklist ha raggiunto l'invidiabile cifra di trenta canzoni suonate (Yesterdays e di nuovo Don't Cry, tollerabile solo perchè anticipata- come a Imola lo scorso anno -da una versione strumentale di Melissa degli Allman, versione che da quanto ho potuto sentire in rete ha finito col godere di ulteriori perfezionamenti da parte di Slash e Fortus).
Al netto di tutto, Axl è davvero un mistero: una rockstar indefinibile, poco etichettabile, non più schiva come un tempo, ma a modo suo ancora sfuggente. "Ogni volta che uno pensa di aver capito qualcosa di Axl, lui arriva e ti smentisce", ebbe a dire Bumblefoot non più tardi di quattro anni fa nel corso di un'intervista che annunciava un imminente doppio album di inedite e un'altra serie di appuntamenti indoor a Las Vegas che, per quei GNR, sarebbero stati anche gli ultimi. Quelle portate sul palco nell'autunno 2014 erano canzoni assemblate e affrontate svogliatamente, con arrangiamenti sempre identici e banali. Con Shadow of Your Love, piuttosto, i Guns sembrano davvero ricordarsi di quando, dai palchi dei più malfamati club di L.A., rivoltavano il mondo: diretta, essenziale, asciutta, più punk della parentesi puramente punk che Duff aprirà poco dopo con Attitude dei Misfits. Nel mezzo, una You Could Be Mine "di maniera", con Axl che oscilla fra alti e bassi, la voce che va e viene, Slash ai massimi livelli.
Veniamo lasciati soli per una ventina di minuti con Slash. Ribadisco: è un altro musicista rispetto a quello che si aggirava sul palco di Imola l'anno scorso. Con cuore, passione e buona tecnica si inoltra in una jam che sfocia in una Johnny Be Goode strumentale e si conclude con l'immancabile score de Il Padrino. Una sicurezza.
Se sulla "lunga distanza" i Guns hanno tirato a lucido come non capitava da anni Estranged, non si può dire lo stesso di Coma. Per motivi diversi da This I Love, Coma è un altro di quei pezzi che, dal vivo, vanno semplicemente oltre le potenzialità del gruppo e che dunque andrebbero evitati. Anche qui torno a chiedermi: ma quanti pezzi altrettanto splendidi tratti da Chinese Democracy potrebbero sostituire Coma? In realtà, nella prima parte, Axl se la cava meglio di quanto ci si potrebbe aspettare, ma tutto deraglia dopo il primo assolo di Slash, la voce fa i capricci, l'intricatissima parte finale si rivela un pasticcio senza capo nè coda.