mercoledì 28 febbraio 2018

Eric Clapton: Life in 12 Bars [Recensione]

La fatidica questione che sento di dover porre in introduzione a questo post è: c'è vita oltre la noiosa normalità cui Eric Clapton ci ha abituati? Una normalità che negli ultimi anni non solo ha permeato ogni suo album di canzoni edite o inedite, disco live e raccolta, ma che è riuscita ad appiattire perfino quel poco di costruttivo dibattito critico che attorno a Clapton era andato faticosamente costruendosi. Anche io, fino al giro di boa dei vent'anni, sono stato convinto che Clapton fosse un bolso chitarrista partorito dall'industria musicale per compiacere quelli che siedono in qualche macchinone e che in tutta la vita hanno comprato quattro, cinque cd (fra cui, appunto, l'Unplugged di Clapton) e su di essi hanno basato la loro (breve) lista di opinioni musicali precostruite. <<Hai comprato anche tu Unplugged? Perfetto, ora anche tu sai cos'è il blues!>>, ma non è così che funziona. Per quanto, paradossalmente, Unplugged sia il disco di Clapton ad avere venduto di più, nonchè l'album live di maggior successo di sempre (26 milioni di copie), ai miei occhi non rappresenta alcuna rinascita artistica, nè lo consiglierei ad anima viva come principale strumento di introduzione ai diabolici segreti del blues (a meno che l'anima viva in questione non mi stia sui coglioni, ovviamente).
Poi, il 21 aprile 2009 (lo so perchè è un evento registrato nel mio diario di allora) ho comprato Blind Faith dei Blind Faith e ho iniziato a vederci più chiaro: tuttavia, più che di un formidabile bluesman bianco, mi sono ritrovato al cospetto di un rocker col cuore diviso fra Inghilterra e America, un musicista specializzato in ballate davvero emozionanti (Can't Find My Way Home, Presence of the Lord) e ferratissimo nella creazione di riff e assoli superbi (Had to Cry Today, Do What You Like). Più mi sono addentrato nella moltitudine di opere che vedono la firma o anche solo il coinvolgimento di Clapton, e più che la critica ufficiale- specie quella straniera -ha preso le distanze dalla sua figura. Specie negli ultimi anni siamo approdati a un revisionismo quasi totalizzante: Clapton è sempre più spesso descritto come un idiota, un mestierante quasi incapace di suonare ma circondato dai migliori turnisti al mondo  e molto abile a muoversi nella giungla del music business. In un articolo del 2016 che si riferiva al recente raggiungimento dei suoi 70 anni, la rivista Noisey ha simpaticamente condensato così il chitarrista: "Uomo bianco scopre chitarra. Uomo bianco piace chitarra. Chitarra divertente. Chitarra suona bene. Cocaina". Insomma, il profilo storico-musicale ormai divenuto moda è il seguente: un ubriacone inglese che aveva ascoltato due dischi di blues da bambino dimostra di essere in grado di tenere una chitarra in mano e, capitato al posto giusto al momento giusto, ha successo, scopa chiunque gli capiti a tiro, ruba la moglie a George Harrison, sniffa, si buca, va alle sfilate di Armani, si compra la Ferrari, rimane turbato dalla morte del figlio piccolo, entra in clinica, si ripulisce, mette la testa a posto, va a caccia, va a pesca, fa tre figlie da vecchio, si ammala, fa un tour di addio e non potrà più suonare. Sicuramente potremmo trovare del vero in queste sbrigative affermazioni, ma la parata anti-Manolenta che ha preso piede recentemente mi sembra infondata, stupida e molto poco costruttiva. A tal proposito, l'uscita nelle nostre sale (per soli tre, deprimenti giorni) di un film come Life in 12 Bars cade a fagiolo e potrebbe riportare l'intero dibattito ad una dimensione più sensata, oltre a tentar di fornire esaustive risposte a numerose domande.
La prima e la più importante: "Clapton is God" per davvero? E se mai lo è stato, quando e perchè è successo? Nei 137 minuti del film, Lili Zanuck non nasconde una particolare predilezione per il Clapton giovane e, guarda caso, il periodo meglio trattato (e con ogni probabilità il più importante sotto ogni punto di vista) e maggiormente approfondito del film è quello relativo ai Cream. Siamo nel 1966, Clapton ha ventidue anni, ha lasciato gli Yardbirds nel febbraio '65 passando per i Bluesbreakers, coi quali ha pure registrato un disco: non ci sono dubbi che, fra i tanti allievi di John Mayall, sia lui quello col curriculum più ricco. A Londra, in Armon Road, è da poco comparsa la scritta "Clapton is God", ed effettivamente l'operazione che i Cream compiranno all'interno della musica rock (e, forse vale la pena ricordarlo, in appena trentasei mesi) finirà con l'assumere tratti demiurgici. Intanto, codificano definitivamente le regole del perfetto power-trio, rivisitano e stravolgono il blues classico condendolo con elementi orchestrali e variopinti, si scambiano posto sia alla voce che in sede di composizione. Come dimostra Fresh Cream (uscito a fine '66), sono una band psichedelica già prima che la Summer of Love esploda, mentre Disraeli Gears, prodotto da Felix Pappalardi e registrato da Tom Dowd, è il loro capolavoro, nonchè il disco in cui il genio di Jack Bruce rimbalza dal basso al pianoforte, dalla voce all'armonica a bocca. Clapton continua a portare sulle spalle l'onere di essere il dio (almeno in Gran Bretagna, dal momento che negli USA si sta muovendo, parallelamente, Mike Bloomfield, che per chi scrive è- assieme a Duane Allman -il miglior bluesman viso pallido della storia) della chitarra fino al 1968, anno in cui i Cream fanno uscire il doppio Wheels of Fire e lui "abdica", cambiando di nuovo pelle, genere e band.
Dovrebbe seguire una fase abbastanza importante della carriera di Clapton. Anche dando per buono che già dalla fine del 1968 egli non sia più il "God" di cui sopra e cancellando dalla memoria Goodbye (disco di addio dei Cream posticipato al 1969 e fortemente voluto dal solo Jack Bruce), gli anni '60 vengono chiusi da un capolavoro anomalo come Blind Faith, sospeso fra le influenze della Band e alcune massicce iniezioni di progressive rock. Questo suo crescente interesse per la musica americana trova uno sfogo "pratico" con la partecipazione a un grosso tour promozionale organizzato dalla Atlantic per Delaney&Bonnie, un duo che l'etichetta ha da poco messo sotto contratto strappandolo alla concorrente Elektra. Clapton si aggiunge "in corsa" ad una backing band leggendaria dove già militano Jim Gordon, Rita Coolidge, Bobby Keys, Jim Price, Bobby Whitlock, Carl Radle, Dave Mason e- opportunamente celato dietro lo pseudonimo di Angelo Misterioso -George Harrison. Oltre a legare profondamente con Delaney Bramlett, Clapton entra in contatto con l'humus culturale del sud degli Stati Uniti, impara a conoscerne odori, sapori, suoni. Fa incetta di 45 giri a marchio Stax, assiste alla nascita del southern rock, ascolta musica alla radio che non avrebbe mai avuto modo di sentire se fosse rimasto in Inghilterra, ma soprattutto conosce JJ Cale e il Tulsa sound. Forse, se c'è stato un mentore oltre a John Mayall nella vita di Manolenta, quello è stato Cale. JJ Cale è la persona che ha preso il Clapton chitarrista blues rock e lo ha spronato a scrivere ballate delicate e romantiche, trasformandolo nel raffinato singer solista degli anni '70. Oltre a questo, gli ha regalato successi radiofonici (After Midnight) e soddisfazioni, arrivando a concedere brevi respiri di alta qualità ad alcuni dei numerosi dischi mediocri che Clapton ha dato alle stampe nell'arco degli anni. Qualche esempio? Angel in Old Sock, Traveling Light in Reptile dovrebbero bastare. Non è un caso che il suo personalissimo, omonimo esordio datato 1970 risulterà essere il diretto risultato di questi mesi di crescita e apprendimento. Ecco, adesso mettete in conto che Delaney&Bonnie, JJ Cale e gli inizi solisti di Clapton in Life in 12 Bars non vengono menzionati. Il regista- che purtroppo non è Martin Scorsese o Cameron Crowe -opta per il gossip e ci angoscia con la risaputissima storia di Pattie Boyd: insomma, favolette che ormai sanno anche i bambini.
A questo punto, il film si sputtana. Intanto, liquida in meno di dieci minuti l'esperienza di Derek & The Dominoes (il che, tradotto, significa trattare con leggerezza uno dei punti cardinali dell'esperienza umana e artistica del protagonista), poi prende una brutta piega e si concentra su un argomento soltanto: le dipendenze. Tramite uno sciapo montaggio computerizzato si susseguono infatti le copertine di 461 Ocean Boulevard, There's One in Every Crowd, No Reason to Cry, Slowhand, Backless, Money and Cigarettes, Behind the Sun, August e Journeyman, tutti bollati dalla voce off di Clapton come <<dischi fatti quando ero ubriaco e che mi dà fastidio risentire>>. Liberissimo di farseli stare "antipatici", ma in questo elenco trovano spazio due capolavori della musica rock, un paio di ottimi album e un'affascinante occasione mancata che da sola meriterebbe un documentario di 45 minuti di approfondimento (mi riferisco a No Reason to Cry). Come se non bastasse, gli arrosti post-1985 non hanno nulla a che spartire con le opere precedenti e agli occhi di un neofita che si reca a vedere il film potrebbe quasi sembrare che tutto ciò che Clapton ha inciso dopo Layla e prima di Tears in Heaven sia un unico blocco di merda, roba da buttare, quando, verosimilmente, le famose "ultime cartucce" le ha sparate proprio fra la disintossicazione da eroina e prima di conoscere Lory del Santo.
Ogni speranza di ascoltare Clapton intento a descrivere il tour da cui fu tratto E.C. Was Here, o a raccontare dei giorni in cui ai Criteria Studios si prodigava in lunghe jam con Freddie King, o ancora di quanto avanguardistica si rivelò la registrazione di Just One Night sfuma nel giro di pochi secondi. Viene preferito un argomento assai più doloroso: e non mi riferisco alla collaborazione con Phil Collins (tragica oltre ogni aspettativa), bensì alla morte del piccolo Connor. Si susseguono molti filmati inediti e tutto assume un atteggiamento un po' morboso. La genesi di Tears in Heaven parebbe riportare il film su un piano convincente: commuove senza mai andare sopra le righe, il che non guasta, ma di fondo un problema gigantesco persiste. Tears in Heaven  (canzone bella, ruffiana e di vitale importanza, per carità) è uscita come singolo nel 1992 ed è di fatto la canzone più recente inclusa in Life in 12 Bars. Avete capito bene: un documentario di due ore e un quarto non è in grado di presentare musica che abbia meno di ventisei anni di vita! Dallo scialbo lavoro di Zanuck sembra venir fuori che dai fasti dell'Unplugged in poi nulla di importante sia accaduto nella carriera di Clapton all'infuori della creazione del Crossroads Festival. Eppure ci sono undici dischi in studio (una buona parte è monnezza, ma- lo abbiamo visto -la carriera di Clapton è un susseguirsi di alti e bassi) e quattro live che sono pronti a provare il contrario. Fa piacere vedere i filmini domestici della nuova famiglia di Manolenta, lui che si dimostra un padre affettuoso e giocherellone, le figlie che sorridono e giocano, ma insomma: due parole sul discusso tributo a Robert Johnson (2004) le vogliamo dire o no? Un assaggio del meraviglioso concerto in duo con Steve Winwood al Madison Square Garden (2008) vogliamo darlo? Menzionare il concerto al Lincoln Center in cui Clapton si esibisce con Wynton Marsalis (2011) è di troppo disturbo? E che ne è stato dei 70 anni festeggiati alla Royal Albert Hall? Non è dato saperlo. Un sornione B.B. King ringrazia Clapton per l'amicizia e le attenzioni riservate a un certo tipo di musica e tutto finisce bene. L'approccio e, francamente, anche la forma ricordano Super Quark, il che aiuta a condurre lo spettatore verso l'agognato mondo dei sogni.

domenica 25 febbraio 2018

Io, Lei e il Generale Inverno [Extra]

Domenica. Si sapeva da qualche giorno che le condizioni meteo si sarebbero prestate perfettamente a una copiosa nevicata su tutto il centro Italia. Mi sveglio prima delle nove, alzo la serranda per controllare, vedo piovere, mi rimetto a letto con un paio di One Piece da finire di leggere. Dopo colazione, faccio un giro su Facebook, mentre dallo stereo riparte The Union di Elton John e Leon Russell, per buona parte ascoltato in cuffia stanotte. Lo lascio, nonostante manchino giusto tre canzoni. Passano un paio d'ore e il quartiere inizia a imbiancarsi di una neve sottile. Arriviamo all'ora di pranzo che dal cielo cadono fiocchi costanti, determinati, precisi. Verso le 15 esco: la campagna coperta di neve sembra dormire, il solo guardarla rappacifica. Telefono a Sofi e le dico che la passerò a prendere per andare a fare un giro. Scendo tranquillamente verso la parte bassa del paese, la strada è molliccia ma vuota, i chicchi si infrangono silenziosamente sul lunotto di Ginetta, mentre nell'abitacolo risuona- vista l'occasione -Cold Rain and Snow dei Dead, versione Truckin' Up to Buffalo. Ero abbastanza sicuro di aver caricato sull'iPod quella incisa nell'ottobre del 1984 ad Augusta, ma l'effetto desiderato arriva comunque, dal momento in cui mentre percorriamo la salita della via Nova entro in un'altra dimensione.
Imbocchiamo l'Autopalio in direzione Siena. Ci godiamo una superstrada semideserta a velocità lievemente rallentata rispetto al solito. La Ginetta ha le gomme invernali, ma non perchè le ho messe io (me ne guarderei bene): infatti, la proprietaria precedente ce l'ha venduta così, coi pneumatici termici inclusi nel pacchetto. Onestamente, alla guida non sento alcuna differenza. La neve sembra aver misteriosamente arginato Monteriggioni e le sue torri, così come le amene campagne tutte attorno alle Badesse, ma mano a mano che l'uscita Siena Nord si avvicina il bianco torna a essere un colore dominante. Scendiamo da via Fiume e risaliamo lungo via Caduti di Vicobello. Guardo fuori dal finestrino e vedo un po' gente preoccupata, se non direttamente incazzata. Una coppia di signori di mezza età cerca di coprire alla meglio, con un grosso telo, una station wagon, mentre i figli piccoli ridono facendo a pallate. Mi si palesa così una mezza metafora della vita: da una parte i bambini, spensierati e intenti a godersi ogni gioioso secondo di un'esperienza che- almeno in zona -non si verificava da alcuni anni, e dall'altra gli adulti, rifidi, ingrigiti e arrabbiati. Per un attimo mi sembra quasi di sentire lui dire a lei <<Ma come si permette, questo tempo di merda?! Io stasera devo andare qui... e domattina, domattina, porca puttana, ho un appuntamento di là...>> e poi ancora un interminabile susseguirsi di "io", "io" e "io". E va bene: ma allora tanto vale la pena sottolineare che tutti domani avremo qualcosa da fare, che tutti, bene o male, avremo bisogno di spostarci per farlo, e che tutti dovremo fronteggiare questa robusta nevicata. Perciò, inutile starsene tanto a concentrarsi solo su di sè. Lungo il cammino, ho conosciuto più di un individuo che pretendeva che il mondo si adattasse alle sue esigenze e non viceversa: un modo di vivere forse "comodo" ma che non mi sento nè di condividere, nè tantomeno di rispettare. Nel frattempo, Porta Camollia si staglia di fronte a noi, mentre le mie dita alzano il volume dell'impianto Kenwood e Don't Fear the Reaper irrompe come un tuono sulla strada.
Coi Blue Oyster Cult nello stereo e la mia donna seduta vicino mi sento bene. Più ci avviciniamo alla nostra area parcheggio in San Prospero, più la neve sembra aumentare. Il Siena gioca in casa, ma si trova posto agilmente. Lo sbalzo termico è importante, visto che dai 22° della Ginetta passiamo a -1° nel colpo di un battito di ciglia. Un'ondata di gelo e chicchi ci investe. Lascio scivolare il cappuccio del mio giubbotto sulla papalina, stringo entrambe le mani nei guanti che mi ha regalato mamma per natale e abbraccio Sofi. Mi sono chiesto più volte come avessero fatto Bob Dylan e Suze Rotolo a non morire di freddo nel febbraio del '63 durante la rapida photosession che avrebbe dato i natali alla copertina di The Freewheelin' ma mi do sempre la stessa risposta: Dylan è Dylan. Nulla è più figo di Dylan sulla neve, sia essa quella all'angolo fra Jones Street e la West 4th nel Village o quella ancora più gelida di chissà dove in un imprecisato punto della Rolling Thunder Revue. Dylan, semplicemente, può. Sofi fa una foto mentre io mi blocco di fronte alla chiesa di San Domenico innevata e avvolta dalla foschia. Maggie diceva che San Domenico è la chiesa più bella di Siena e in certi giorni non me la sento di darle torto. Sospiro, riguardo compiaciuto la foto sullo schermo del Samsung, assaporo quella sensazione che la neve tende a infondere alla mia anima e di cui ero digiuno da troppo tempo.
Passeggiamo per il centro, ma il vento non ci permette di arrivare fino in Piazza del Campo. Noto che molti negozi da orario continuato sette giorni su sette (Siena conta 60.000 abitanti ma non per questo rinuncia alle barbare usanze di metropoli dieci, venti volte più popolose) hanno i bandoni tirati giù. Dunque un'autentica, robusta nevicata non solo è un ottimo strumento per far riavvicinare l'uomo al proprio io interiore, ma talvolta riesce pure a mettere marginalmente in crisi questa strampalata società dei consumi di cui siamo vittime e carnefici. Rientriamo in paese col buio: lascio Sofi a casa, vedo un amico per le classiche quattro chiacchiere e ne approfitto per fargli notare lo spettacolo incantato della piazza deserta e imbiancata dalla neve. Alcuni fiocchi illuminati dalla luce dei lampioni hanno iniziato ora a cadere larghi e fitti. Ormai non sento più neanche il freddo e penso che potrei camminare attraverso il gelo fino a intirizzirmi. Di fronte al cinema, una piccola folla sta uscendo dallo spettacolo di metà pomeriggio: babbi e mamme si salutano, altri ragionano sul film appena visto (l'ultimo di Muccino, eh, mica Kurosawa!), mentre i figli rotolano via, chi sfidandosi, chi scivolando sulla neve fresca. Non ci sono tv o videogiochi, niente happy hour in qualche rifugio vanziniano, niente centri commerciali, nessuna campagna di marketing, non c'è chi compra, non c'è chi vende. Solo neve, freddo e qualche sorriso a cancellare, per un attimo, questo mondo affannato.

martedì 13 febbraio 2018

Back in the "Ace" Day (e altre illusioni) [Extra]


Era nato il 3 ottobre di settant'anni fa, John Perry Barlow. Teologo libertario, saggista repubblicano convertitosi solo tardivamente al Democratic Party, poeta col pallino dell'informatica, scrisse grandi liriche per il gruppo di un suo ex-compagno di studi, tale Bob Weir. Sulle prime, dovette scontrarsi con un altro graduate poet al soldo dello stesso complesso, quel Robert Hunter già famoso su entrambe le coste. Al 1971 risalgono Cassidy, Mexicali Blues e la granitica Black-Throated Wind, tutte e tre confluite in Ace, primo e- opinione del sottoscritto -ineguagliato album solista di Bob Weir. Negli anni a seguire avrebbe firmato, specificatamente per i Grateful Dead, capolavori come Looks Like Rain, Let it Grow, Estimated Prophet e Throwing Stones, ma la sua predilezione per collaborare con Weir, prima, e con Brent Mydland poi non sarebbe mutata, come dimostrano i numerosi brani comparsi su Heaven Help the Fool (1978), Bobby & The Midnites (1981), Where the Beat meets the Streat (1984) e le sporadiche collaborazioni per fugaci progetti paralleli (Kingfish, Ratdog). Fu anche uno dei principali pionieri del cyberspazio: basti pensare che nel 1986 fondò un'embrionale community online prevalentemente volta ad accogliere i deadheads e denominata The Well e che solo dieci anni dopo- con internet ormai sdoganato -pensò bene di redigere la Dichiarazione di Indipendenza del Web. Lo saluto, dalle colonne del blog, con una versione oltre ogni aggettivo di un suo classico senza tempo:

Certe settimane mi sembra di vivere in uno stato di perenne cottura, più psicologica che fisica. Uscire dal letto equivale ad abbandonare di nuovo il ventre materno, ed è uno spettacolo che si ripete mattina dopo mattina. E' febbraio e, ovviamente, piove. Una pioggia insignificante, sfibrata, neutra. Sono già un paio di mattine che mi auto-ovatto con roba piuttosto pesante in macchina: ieri, i Tool di Lateralus, oggi tocca invece a quello che molto probabilmente è il mio disco preferito- fra i tanti che amo -di Nick Cave, Your Funeral... My Trial. E' un mese veloce di suo, questo, ma devo ammettere che quest'anno lo sto vivendo con maggiore affanno rispetto al passato.
Trovo il tempo di passare al negozio di dischi. Cerco una rarità, o almeno un qualcosa che mi è stata spacciata per tale: Spirit of '76 degli Spirit (band ingiustamente famosa solo perchè al centro del processo per plagio intentato ai Led Zeppelin riguardo la paternità degli accordi su cui si poggia Stairway to Heaven). In effetti, questo doppio vinile uscito nel maggio 1975 tramite Mercury Records, non è molto facile da trovare e l'unica versione ristampata su due cd risale al 2003. Di questa fortuita operazione va ringraziata l'inglesissima BGO, un'etichetta nota agli appassionati per l'ottima qualità del mastering, per il catalogo non tanto vasto quanto ampiamente ricercato e per il curioso packaging lievemente over-size dei suoi prodotti. Minuzie che non passano inosservate a chi è attento al centimetro (in più o in meno), alla scala cromatica fedele all'artwork originale, alle costoline pregiate. BGO di certo non regala i suoi prodotti, non lo ha mai fatto: perciò, non crediate di reperire questi cd nel cestone dell'offerte in Autogrill o negli angoli dei negozi dedicati a saldi e promozioni, perchè sprechereste il vostro tempo. Spirit of '76, come mi spiega da subito il buon Beppe, è fuori catalogo da anni (c'era da aspettarselo, visto che l'unica tiratura esistente è proprio quella del 2003) e in Europa risulta molto difficile da trovare (almeno nella distribuzione ufficiale). Mi chiede un minuto e sparisce sul retro, da cui ritorna poco dopo dicendomi che glielo manderebbe nel giro di un paio di settimane un fornitore di fiducia americano. So bene di che si parla, non chiedo neanche la cifra e do il mio assenso. <<Vai, ordinamelo!>>. Forse hanno ragione quelli che ti dicono <<Non si può sempre guardare indietro>> (anzi, niente forse, hanno ragione e punto), eppure, guardando avanti, quel che vedo non mi sembra comunque granchè.
Mia sorella lo ha regalato a Sofi lo scorso natale, lei lo ha letto, poi è finito in mano mia. Sto parlando di Guns N'Roses: gli ultimi giganti del Rock di Mick Wall. Edito da Tsunami in un formato medio-grande e con una gran bella copertina rigida, il libro è composto da 448 pagine, due parti, diciassette capitoli e una discreta sezione fotografica centrale. Non era la prima volta che mi imbattevo nella prosa di Mick Wall, un famoso giornalista musicale britannico, che ha già dato prova di quale valido intellettuale possa essere- almeno nel campo delle biografie a tema -e quanti aneddoti e informazioni egli sia in grado di far fluire nero su bianco. E poi erano quasi cinque anni che non leggevo qualche nuovo libro che riguardasse i GNR. Le ultime cose si concludevano tutte intorno al 2012-2013: i Guns inclusi nella R&R Hall of Fame, Axl a giro con l'amata-odiata formazione "MKIII", le ospitate di Duff e Izzy (per alcuni già ipoteticamente interpretabili come segnali dal futuro), Slash che porta avanti una (pare) fulgida e remunerativa carriera solista, alcune rappacificazioni, centinaia di porte aperte, un nuovo live da far uscire in multiformato, ancora problemi di royalties, scazzi assortiti. Da allora ne sono successe diverse: la line-up è cambiata un'altra volta, la voce di un seguito di Chinese Democracy annunciato per il 2016 da diversi ex-componenti si è (prevedibilmente?) fermata a livello di pettegolezzo, Slash e Duff sono tornati nel gruppo, il Not in This Lifetime Tour ha preso vita e- a fine 2017 -è risultato la turnè musicale più remunerativa degli ultimi anni (superando, di fatto, quelle contemporanee di U2  e Coldplay) e Axl Rose- complice una mossa che continua a fare discutere critica e pubblico -si è confermato la più grande rockstar vivente. D'altronde, chi mai ha potuto vantarsi di essere il frontman dei Guns N'Roses e, allo stesso tempo, il cantante degli AC/DC? Wall si prende i suoi tempi per quello che- si capisce dal principio -è un libro che doveva covare dai tempi del suo primo incontro con la band, che ebbe luogo a Manchester il 6 ottobre 1987. In effetti, come capita praticamente sempre nelle agiografie musicali, il passato prossimo (per quanto denso di avvenimenti possa essere quello di questo gruppo) viene sbrigativamente affrontato nell'ultimo capitolo, che in questo caso dura da pagina 414 a pagina 440. Per chi già conosce e ama la storia dei Guns, la loro musica, il loro tempo, i personaggi coinvolti, i luoghi, i colori, i suoni, qua dentro ci sarà poco di strettamente inedito. Anzi, alcuni anni, alcuni passaggi, sono stati molto più approfonditi e narrati da quello che- e ora che ho letto questa ultima corposa e attesa biografia ne sono più convinto che mai -per me resta il miglior biografo del gruppo, Ken Paisli, sia in Guns N'Roses- The Truth che in Axl (entrambi editi da Chinaski). A chi, invece, pensa di conoscere già tutto quello che c'è da sapere, è convinto che Slash sia il più grande chitarrista del mondo e Axl un "poraccio" che ha sfruttato il nome "Guns N'Roses" per creare un brand con cui promuovere brutta musica a giro per il mondo in compagnia di completi sconosciuti, beh, questo libro lo consiglio caldamente: potrebbe arricchire le scarse conoscenze artistiche e musicali e insegnare qualcosa di diverso da quello che propongono il 90% dei forum, delle pagine Facebook, dei fansite. Lo stile di Wall è, come al solito, elegante ma certi contenuti risultano meno dettagliati rispetto ad altre sue cose lette in anni precedenti (insomma, sia Iron Maiden: le origini del mito che L'inferno non è poi così male, incentrato invece sugli AC/DC, sono più "storici" e meno coinvolgenti, ma migliori). Fa piacere notare come le uniche testimonianze davvero nuove e mai avide di particolari (anche scabrosi) siano quelle di Alan Niven (quasi una seconda voce di tutto il volume) e di Doug Goldstein, e che il contesto sociale e musicale losangelino degli anni Ottanta sia davvero molto approfondito. Poi ci sono intere parti trascurate, sciatte, abbandonate a se stesse: la pubblicazione di "The Spaghetti Incident?" (a proposito, Carlos Booy non è tanto un "chitarrista", quanto l'allora giardiniere di Axl), la figura di Dizzy Reed (al netto di tutto e fatta eccezione per Axl, la persona ad aver militato nei GNR più a lungo di tutte le altre, ma Wall preferisce liquidarlo come "poco più di un session man"), le fugaci peripezie e le traversie vissute dal signor Rose nei suoi "anni perduti", le carriere soliste e i progetti paralleli degli altri componenti (leggere cose come "Believe in Me non lo comprò quasi nessuno" è roba da terza elementare). Si arriva così ad un nodo fondamentale: Mick Wall ha una posizione condivisibile o no su questo gruppo? A mio modo di vedere la faccenda, non molto. Mi spiego meglio: per una buona fetta del libro, il lettore/fan percepisce un malcontento da parte dell'autore. Infatti, in ogni pagina che affronta il periodo 1994-2016 (ventidue anni durante i quali un'arte e un'intera industria hanno conosciuto trasformazioni e metamorfosi di ogni genere) Wall scrive una cosa e una soltanto: <<Gli unici Guns N'Roses possibili sono quelli con Axl alla voce, Slash alla chitarra e Duff McKagan al basso, ed è un vero peccato che la formazione attuale non veda anche Steven Adler alla batteria e Izzy alla ritmica>>. Gli Slash's Snakepit, i Neurotic Outsiders, i 10 Minute Warning, gli stessi Velvet Revolver sono sì menzionati, sì analizzati (talvolta maldestramente e in maniera viziata), ma solo per giungere sempre alla medesima conclusione: non sono i GNR, <<E grazie al c***o!>>, aggiungo io. L'autore- incredibilmente! -salva giusto Chinese Democracy, estrae interi frammenti dall'autobiografia pubblicata nel 2007 da Slash e parecchio materiale da It's so Easy di Duff McKagan (uno dei migliori libri sul rock che abbia mai letto), cita una bibliografia corposa ma se ne guarda bene da tirare in ballo le opere di Paisli, del quale ricalca non tanto lo stile del giornalismo bonzo, quanto la sequenza degli eventi (soprattutto di quelli connessi ad Axl) e interi aneddoti. Un libro che non si scaglia contro Axl Rose basandosi sui due, tre consueti luoghi comuni è già meritevole di acquisto, il lavoro di editing molto buono e la narrazione appassionante, ma davvero: nulla di nuovo sotto il sole.

lunedì 5 febbraio 2018

"Pride and Joy and Dirty Dreams..." [Extra]


"Pride and Joy and Dirty Dreams Still Surviving on the Street".
"Orgoglio, gioia e sogni sporchi sopravvivono ancora sulla strada".
Non lo dico io, eh, ma poco ci manca . In ogni caso penso sia vero, sì. 
Ad esempio, ieri pomeriggio doveva essere una gloriosa domenica di sole dopo due giorni e mezzo di pioggia, acqua e neve (quest'ultima parrebbe essere toccata ai nostri vicini chiantigiani), quindi ho messo in moto la mia Ginetta e ho inforcato la strada, perchè di camminare o correre se ne parla poco e sempre meno (ultimamente il mio modello di ispirazione per quanto riguarda linea ed estetica è Giuliano Ferrara, con la sua pinguedine malsana e spavalda). Un giro ai bordi delle campagne, dopodiché ho raggiunto le periferie industriali dove due province si mescolano e i comuni muoiono. Strada facendo, mi invento un pretesto, una missione: <<Dunque... ho bisogno di cercare quelle jewel case per i cd-r, devo ricomprare il sapone da barba... e anche un paio di jeans, va'...>>. Mi sento malaticcio, un trapano perfora a intervalli regolari la mia scatola cranica, ma il solicino domenicale sembra stemperare questo stato di "equilibrio precario". Faccio il mio ingresso in un gigantesco capannone che, in epoche più redditizie di questa, vantava una media di tre spot ogni ora sulle reti televisive locali. Non vendono abbigliamento, ma hanno un gigantesco assortimento di oggetti per la cura del corpo e anche parecchi accessori elettronici a buon prezzo. Ovviamente, il solo prodotto per la rasatura tradizionale di cui ho bisogno è anche l'unico che non tengono, mentre per le jewel-case mi tocca rivolgere una domanda alla commessa: <<Scusi, tenete le jewel-case per i cd?>>, ma passo subito a correggere il tiro e ad abbandonarmi a un più rassicurante <<.... volevo dire, se avete le custodie per cd, quelle in plastica, semplici...>>. La questione passa prima a un'altra collega, poi alle casse, dove tutte si girano a guardarmi meravigliate prima che una di loro- la più giovane e preparata -prenda coraggio e mi dica <<No, mai avute!>>. Raggiungo un magazzino analogo là vicino, forse poco più piccolo ma non per questo meno fornito. <<Ho capito quali intendi, però non le abbiamo... posso darti queste bustine di plastica, semplici e resistenti?>>, mi chiede un commesso sventolandomi davanti agli occhi una confezione da 25 buste identiche a quelle di cui voglio disfarmi per rispetto della mia persona e della mia collezione. <<No, no, grazie lo stesso...>>, e mentre giro i tacchi e sono già di fronte alla porta scorrevole lui mi urla dietro <<Prova dai cinesi, loro tengono ogni bene!>>. Maledico me stesso per non averci pensato sin dall'inizio. In effetti, non sono un gran frequentatore di negozi cinesi (per non parlare dei ristoranti, poi), ma le poche volte che li ho bazzicati alla ricerca di oggetti inusuali o lievemente obsoleti- come ormai sembra che debbano essere definite anche le jewel-case che vado cercando -non sono mai rimasto deluso.
Attraverso l'intera Poggibonsi facendo il giro più lungo, almeno posso soffermarmi sulle locandine cinematografiche. Imbocco via Senese, svolto nella seconda traversa a destra e mi ritrovo sulla parallela via Sangallo. Il Sangallo Market sorge quasi in fondo. Dal suo ingresso si intravedono la chiesa di Romituzzo e la sede logistica del noto distributore frutticolo Bandini. Appena entro, non posso fare a meno di notare che hanno tolto la sezione dei giochi erotici. <<Cinesi neoliberisti e pure moralisti... mah!>>, penso mentre le mie narici già piuttosto compromesse vengono inondate da odori assai poco salubri di plastiche dalla dubbia origine. Mi perdo fra i portachiavi e gli incensi, poi torno in me, agguanto un commesso e gli pongo la fatidica domanda. <<Non le abbiamo>>, mi risponde senza ostentare un attimo di esitazione. Già mi vedo tornare a casa, mezzo malato, e ordinare uno di questi lotti "spedizione gratuita" su eBay. Il dolore alle spalle e al collo va sommandosi al mal di testa. Quand'è così c'è solo una soluzione: acido acetilsalicilico, possibilmente incrociato col bootleg della serata al Thaft Theater di Cincinnati tenuta dai Gov't Mule il 31 ottobre 2014, quando- affiancati da Jackie Green a voce e chitarre acustiche -tributarono un monumentale tributo alla musica e alle canzoni di Neil Young. Tutta roba braccata per anni e buttata giù un paio di giorni fa, in qualità soundboard.
A parte l'ottima compagnia dei ragli e dei calci dei Muli, rientro al paesello mesto e frustrato. Per fortuna Sofi mi chiede di passarla a prendere, tanto per completare il giro. Mi vede malconcio e scazzato, le spiego che non sto per niente bene, che conto di ammalarmi nel giro di poche ore e che viviamo in zone così depresse che la gente neanche ricorda cosa siano le jewel-case per i cd. Lei è abituata a sopportare le mie uscite caustiche, così non solo non si scompone, ma con grande senso pragmatico mi invita a fare un ultimo tentativo all'Euronics del mio paese. Come per magia, entriamo e, in una scaffalatura sulla sinistra, trovano spazio: buste di plastica per cd, buste di carta per cd e- udite, udite -le mie bramate jewel-case, marchiate Hama. Ne compro due confezioni da cinque. Alla cassa tento di convincere Sofi ad acquistare, a metà, il Super Nintendo Mini. Butto giù una lista delle cartucce che da piccolo non feci in tempo a comprare, a causa del passaggio alla generazione videoludica successiva. Il commesso nota la mia commozione e, scambiandomi per un nerd qualsiasi, tenta di coinvolgermi in una discussione sul videogaming, un mondo che ho sempre bazzicato marginalmente e che ho perso di vista, più o meno definitivamente, in seconda superiore. <<Vabbè, lasciam perdere, va'... prendo solo queste!>>.
La sera un freddo malessere mi prende fino alle ossa. Mi sento a pezzi. Faccio un giro rapido su Facebook, mi imbatto in roba che sarebbe bene io non vedessi e mi ritrovo spettatore di film mentali brutti, film da cui nulla sembra salvarmi. Al dolore alle spalle, al collo e alle braccia va così ad aggiungersene uno ben peggiore: quello all'anima. Non c'è niente di paragonabile al senso di una mancata chiusura del cerchio col nostro prossimo, soprattutto quando quel prossimo è stato una persona importante, una di quelle su cui investire tempo, speranze, pensieri. L'umore mi si crepa di nero, lasciandomi obnubilato e smarrito. In pochi secondi passo dal congetturare- puerilmente, lo ammetto -il brevetto di una macchina di rimozione forzata dei pensieri ('fanculo, però, Michel Gondry e Christopher Nolan ci hanno già pensato!) al valutare come attendibile l'ipnosi regressiva e la teoria delle vite precedenti: sono piccole cose che in certi casi aiutano, ormai mi conosco. I miei pensieri stasera volano verso Ovest. Tanto vale ascoltarsi, in cuffia, Going to California e concentrarsi sul sole californiano: mi auguro di cuore che almeno lui possa sciogliere quella dannata neve (neve che il mio professore al corso di sceneggiatura definiva amabilmente "merda bianca").

E così rimango tra le montagne dei miei sogni,
e dico a me stesso che non è dura come sembra...
Il mio spirito plana su montagne, colline e praterie, fino ad approdare nella baia di San Francisco, e là si ferma. Ho un paio di obbiettivi belli importanti da raggiungere nella prima parte della settimana, perciò sarà bene dormire, guarire e pensare a star meglio. Che tanto ci sarà chi si prende cura del mio pezzo di anima nella San Francisco Bay.