Red Hot Chili Peppers,
The Getaway
(Warner Music, 2016)
★★
A un certo punto ci deve essere stato qualcuno nei Red Hot Chili Peppers (presumibilmente, Anthony) che ha deciso che la più famosa formazione crossover di tutti i tempi sarebbe dovuta diventare la versione alternative di qualsiasi boy band in voga negli anni Novanta. Il bancone di prova di questo aggiornamento arriva- con lieve ritardo rispetto alle mode imperanti -nei primi anni Duemila, con By the Way, un lavoro bello furbo, che cerca di sancire il passaggio dal rock radiofonico e meraviglioso di Californication ad un pop privo di ogni pretesa. Lo stesso Stadium Arcadium, se da una parte faceva riguadagnare ai Red Hot dignità e credibilità, poteva tranquillamente stare in un solo disco. Poi Frusciante esce dal gruppo per la seconda volta, quella buona. Kiedis e Flea dissimulano il panico, ma non vogliono ripetere l'errore del passato: non ci deve essere un secondo Dave Navarro, nè tantomeno un secondo One Hot Minute. C'è bisogno di qualche giovanotto che suoni la sei corde come la avrebbe suonata John e che sia in grado di comporre la melodia giusta per gli stornelli di Anthony. Tali necessità si rispecchiano in Josh Klinghoffer, un allievo- nel verso senso del termine -dello stesso Frusciante con cui registrano e pubblicano, dopo cinque anni, I'm With You, il loro disco peggiore dai tempi dell'esordio omonimo (un esordio che, vale la pena ricordarlo, fu essenzialmente rovinato dalla produzione di Andy Gill).
Altri cinque anni separano I'm With You da questo The Getaway, uscito lo scorso maggio. Non è brutto in quel modo, ma è comunque brutto. Il destino dei Red Hot somiglia davvero tanto a quello dei R.E.M.: entrambi attraversano con destrezza gli anni Ottanta nell'underground americano, entrambi trionfano negli anni Novanta con i loro immensi capolavori, entrambi iniziano a perdere pezzi e credibilità nel nuovo millennio. La grande differenza? Michael Stipe e i R.E.M. hanno ascoltato a mente fredda i dischi che hanno venduto al loro pubblico dal 2002 in poi e hanno pensato bene di finirla lì, dopo trentuno anni di onesta professione; Anthony e i RHCP non hanno ancora raggiunto questo livello di consapevolezza ed è un peccato. Perchè sono fatti, cotti e bolliti da un pezzo. Non è solo per l'assenza di Frusciante (in dischi come Freaky Styley e The Uplift Mofo Party Plan Frusciante nemmeno c'era, eppure...) o per il deterioramento dei rapporti con Rick Rubin (l'uomo a cui, che piaccia o meno, devono tutto) o per il conseguente arrivo di Danger Mouse nella poltrona di producer. Qua il problema è proprio la musica, e i testi, e il gruppo, e il fatto che i biglietti per le due date italiane siano finiti in una mattinata senza che la gente avesse ascoltato le canzoni che- si presume -i Red Hot suoneranno. A chi importa che le cose migliori questi tizi le abbiano fatte vent'anni fa? Poi se anche in concerto suonano Dark Necessities, We Turn Red, Go Robot o Detroit, pazienza. Facciano pure. Intanto ci si rolla un altro cannone e si aspetta Scar Tissue.
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