Colorado
(Reprise Records, 2019)
"In una società inferocita e polarizzata c'era chi veniva bloccato a causa delle proprie opinioni e perdeva follwer perché veniva percepito in modi che potevano essere inesatti" è una frase che ho letto ieri notte addentrandomi nella lettura di Bianco, il memoir con cui Bret Easton Ellis è tornato nelle librerie senza venir meno alla parola data dieci anni fa e riguardante la decisione di non occuparsi più di narrativa. Mi è tornata in mente stamani, mentre il file .flac di Colorado (39esimo album di Neil Young e 13esimo co-firmato coi Crazy Horse) veniva barbaramente trasferito da BitTorrent in iTunes passando dal mio hi-fi. Ho pensato ai fan scriteriati di Neil Young, a quelli che lo hanno difeso nelle sue disavventure discografiche coi Promise of the Real, a quelli che sono diventati o audiofili o ambientalisti (o entrambe le cose) perché lui gli ha suggerito il come e il perché, a quelli che dopo Special Deluxe (sebbene superiore a Il sogno di un hippie) non hanno più aperto un libro, e più in generale a tutti quelli che, dagli archivi alle novità, hanno sempre tirato fuori dalle tasche della propria dialettica paroloni, sproloqui e voti altissimi. Ho pensato a loro e le parole di Ellis mi sono venute a confortare: la community younghiana (pericolosamente simile a quella che gravita attorno al Boss) è un perfetto specchio del tipo di società descritta in Bianco. E Colorado (annunciato a inizio 2019 col titolo di Pink Moon) ha tutte le premesse per conquistare le attenzioni e l'amore della suddetta società: il ritorno coi Crazy Horse in studio dopo sette anni deve- per forza -lasciar presagire un capolavoro. Non uno Zuma, magari, ma un Ragged Glory degli anni Dieci per forza.
Corro il rischio di perdere follower (che non ho), ma vorrei sottolineare che- con o senza i Crazy Horse -Colorado non è un capolavoro, e forse non è nemmeno l'ottimo disco che l'uditorio meno talebano (al quale sento di essere iscritto) si aspettava. Che Neil Young, a gusto mio, abbia prodotto solo tre album meritevoli di questo nome dopo l'incantevole Prairie Wind (2005) è risaputo, ma gli ultimi anni sono stati davvero nefasti, con la piccola, strampalata eccezione di Peace Trail. La ruffiana armonica con cui Think of me apre l'album è puro e semplice fan-service per chi si porta nel cuore il Neil Young più morbido. She showed me love offre lo stesso servizio in veste elettrica ma con almeno tre aggravanti: una durata inconcepibile, il fatto che ogni tre minuti, sommerso sotto i consueti strati sovraincisi (che poi, va bene che Young è l'unico sordo che da anni si permette di pontificare sulla qualità del suono e viene perfino ascoltato, ma che senso avrà avuto andare in culo, sulle montagne rocciose, a incidere roba che alla fine suona come le stesse cose registrate in città o al ranch?) trovi spazio un giro di accordi identico ai classici dei Crazy Horse (e no, non siamo ai livelli della spiritosa autocitazione di Albuquerque contenuta in Tired Eyes), l'impressione che a suonare sia una cover-band (discreta, per carità) di Neil Young & Crazy Horse.
Qualche sparuto segnale di miglioramento, almeno nella musica, lo si percepisce in Olden Days, cantata un po' a cane, ma tant'è. Help me lose my mind ha un tiro un po' più convincente, ma- produzione a parte -siamo comunque sotto alla qualità di un brano qualsiasi contenuto in Life (1987). Con Green is blue realizzo una cosa che, negli ascolti successivi, si paleserà più che mai nella sua cruda e spietata concretezza: Colorado sarebbe potuto essere un buon disco di brani acustici e semi-acustici. Via i Crazy Horse, via l'onnipresente passaggio fa-la, via queste melodie trite e ritrite che rischiano di farci rivalutare i peggiori momenti di Living with War (quindi tre quarti abbondanti del dischetto anti-Bush datato 2004).
Risentendola stamani come parte integrante del disco, Milky Way l'ho trovata invecchiata male, peggiorata, superflua, stupidamente lunga. Eternity è divertente, simpatica, scanzonata: ma cosa ci fa, appunto, in un disco come Colorado? Volete mettere con ricopiare Behind that locked door di George Harrison allungandola di ventisei secondi e ribattezzandola Rainbow of colors?
I Do. I Do è un capitolo a sé. Oltre a consolidare la teoria del mancato, ottimo album acustico, è l'unica grandissima canzone pervenuta nel canzoniere younghiano degli ultimi anni. Un colpo di coda che non risana né salva niente (del resto, cosa vuol salvare uno che per scelta registra, incide e pubblica indistintamente qualsiasi cosa, comprese forse le scuregge notturne di Daryl Hannah?), ma che ascolteremo volentieri nei prossimi mesi, quando di Colorado avremo già dimenticato anche la copertina.
Corro il rischio di perdere follower (che non ho), ma vorrei sottolineare che- con o senza i Crazy Horse -Colorado non è un capolavoro, e forse non è nemmeno l'ottimo disco che l'uditorio meno talebano (al quale sento di essere iscritto) si aspettava. Che Neil Young, a gusto mio, abbia prodotto solo tre album meritevoli di questo nome dopo l'incantevole Prairie Wind (2005) è risaputo, ma gli ultimi anni sono stati davvero nefasti, con la piccola, strampalata eccezione di Peace Trail. La ruffiana armonica con cui Think of me apre l'album è puro e semplice fan-service per chi si porta nel cuore il Neil Young più morbido. She showed me love offre lo stesso servizio in veste elettrica ma con almeno tre aggravanti: una durata inconcepibile, il fatto che ogni tre minuti, sommerso sotto i consueti strati sovraincisi (che poi, va bene che Young è l'unico sordo che da anni si permette di pontificare sulla qualità del suono e viene perfino ascoltato, ma che senso avrà avuto andare in culo, sulle montagne rocciose, a incidere roba che alla fine suona come le stesse cose registrate in città o al ranch?) trovi spazio un giro di accordi identico ai classici dei Crazy Horse (e no, non siamo ai livelli della spiritosa autocitazione di Albuquerque contenuta in Tired Eyes), l'impressione che a suonare sia una cover-band (discreta, per carità) di Neil Young & Crazy Horse.
Qualche sparuto segnale di miglioramento, almeno nella musica, lo si percepisce in Olden Days, cantata un po' a cane, ma tant'è. Help me lose my mind ha un tiro un po' più convincente, ma- produzione a parte -siamo comunque sotto alla qualità di un brano qualsiasi contenuto in Life (1987). Con Green is blue realizzo una cosa che, negli ascolti successivi, si paleserà più che mai nella sua cruda e spietata concretezza: Colorado sarebbe potuto essere un buon disco di brani acustici e semi-acustici. Via i Crazy Horse, via l'onnipresente passaggio fa-la, via queste melodie trite e ritrite che rischiano di farci rivalutare i peggiori momenti di Living with War (quindi tre quarti abbondanti del dischetto anti-Bush datato 2004).
Risentendola stamani come parte integrante del disco, Milky Way l'ho trovata invecchiata male, peggiorata, superflua, stupidamente lunga. Eternity è divertente, simpatica, scanzonata: ma cosa ci fa, appunto, in un disco come Colorado? Volete mettere con ricopiare Behind that locked door di George Harrison allungandola di ventisei secondi e ribattezzandola Rainbow of colors?
I Do. I Do è un capitolo a sé. Oltre a consolidare la teoria del mancato, ottimo album acustico, è l'unica grandissima canzone pervenuta nel canzoniere younghiano degli ultimi anni. Un colpo di coda che non risana né salva niente (del resto, cosa vuol salvare uno che per scelta registra, incide e pubblica indistintamente qualsiasi cosa, comprese forse le scuregge notturne di Daryl Hannah?), ma che ascolteremo volentieri nei prossimi mesi, quando di Colorado avremo già dimenticato anche la copertina.