martedì 8 agosto 2017

Canzoni per l'estate [Suggestioni uditive]

La musica bella è quella che rimane.
Ma anche quella brutta. Anzi, soprattutto quella brutta. Ci sono canzoni che ho ascoltato, magari per caso,  solo una volta- che so? nel 2009 -durante una triste serata in qualche balera estiva o in qualche rassegna di bassa lega e che non mi toglierò mai dalla testa. Mai, almeno fin quando vivrò, purtroppo: e non parlo solo dei neomelodici, dei soliti aborti pop-rock, o della musica indie detestabile sotto ogni forma, ma anche di semplici, patetici tentativi heavy/grunge/pseudopunk il cui testo e la cui melodia fastidiosi e ridicoli non ho mai più potuto dimenticare. E ripensarci fa male. Ricantarsele in un gesto masochistico atto a placare chissà quali sensi di colpa fa male, troppo male.
D'estate poi la musica brutta rompe gli argini, arriva ovunque, tutti ne parlano, tutti la promuovono, tutti- o almeno così sembra -la ascoltano. Ma sarà vero? Ad esempio, di recente mi sono accorto che nè io nè un altro paio di persone avevamo mai sentito Despacito. Per chi non lo sapesse, Despacito è la canzone più ascoltata di sempre su internet, avendo superato i tre miliardi di visualizzazioni (perchè, ormai da un pezzo, il "clic" è il nuovo metro del successo e se non ti cliccano, non esisti). C'è qualche passaggio che mi sfugge in questo incessante obbligo al deterioramento.
E se la musica, come il caldo, raggiunge picchi di orrore (il famoso "orrore a 33 giri" che ha dato il nome anche a un simpatico sito web), gli approfondimenti, le notizie, o anche solo il gossip che le gravitano attorno non sono da meno. 
Prendiamo una giornata come oggi: un banale sette agosto. Ecco, proprio oggi compie gli anni Caetano Veloso. L'uomo di Santo Amaro spegne settantacinque candeline, equivalenti a tre quarti di secolo spesi su un pianeta che gli ha regalato non poche soddisfazioni. Non è la prima volta che, scrivendo, accenno al mio amore per la musica brasiliana, che considero una miniera senza eguali. Senza obbligo per nessuno, ma tirando in ballo Veloso si vola alti, altissimi. Al di là del genere e di uno stile che potrà piacere o meno, questo cantautore ha inciso dischi come nessun altro. Oltre al celeberrimo disco ao vivo inciso in coppia con Cico Buarque, vanta un curriculum assai parco di mediocrità. Prendetevi qualche minuto e immergetevi in Transa (1972), un manuale portatile di come incidere e produrre un disco, valido ieri come oggi. Bellezza micidiale, bellezza che oggi poteva essere ospitata, trattata, consigliata sulle pagine dei giornali, che però hanno preferito confrontarsi con la consueta "epica" locale, regalandoci notizie che- diciamocelo -aspettavamo con ansia. Questa, per dire, sempre datata sette agosto, arriva dalla pagina che si dovrebbe occupare di musica sul Fatto Quotidiano:


Per quanto male se ne possa dire, Panorama si è dimostrato l'unico rilevante organo di stampa italiano che oggi si è scomodato e ha speso un cronista per augurare a Caetano Veloso un buon settantacinquesimo compleanno. Fate voi.

Rimanendo su Tommaso Paradiso, quella del 2017 sarà ricordata come l'estate del primo tormentone di matrice indie, ovvero Riccione. E Riccione non è Despacito: Riccione  l'ho ascoltata in maniera sistematica e mi sono chiesto, sinceramente, perchè i pezzi di Bello Figo (o i brani degli artisti scovati a giro per lo Stivale negli anni dall'avvocato Andrea Diprè, o Le focaccine dell'Esselunga, per quanto un po' in troppi stiano abusandone letture critiche e inutili esagerazioni semantiche) vengano liquidate come spazzatura sonora e una canzone come Riccione no. La mia teoria- che non è originale, ma poco importa-è che il business musicale esiste da sempre e da sempre, che piaccia o no, si preoccupa di creare degli utili. La differenza fra ieri e oggi, fra Italia e resto del mondo, è che, soprattutto un tempo, questi utili venivano garantiti da gente del calibro di John Hammond Sr. Ahmet Ertegun, David Geffen, George Martin, Marshall Chess, Rupert Lowenstein, uomini ricchissimi, imprenditori, affaristi, squali dell'industria discografica che però avevano orecchio, sapevano produrre gli artisti che ingaggiavano, sapevano scegliere cosa dare al pubblico e, magari inconsapevolmente, arrivavano a pubblicare arte. Oggi le canzoni le scelgono gli addetti marketing, basandosi su mera idiozia, likes di Facebook e gusti musicali deprecabili. Non bisogna stancarsi di sottolineare il fatto che ad una fetta sempre più cospicua di popolazione della musica non gliene importa un beneamato (e no, quelle cacate fruibili nei talent non fanno testo). Tutto ciò che passa ossessivamente alla radio piace e piacendo fa sì che l'alternativa venga sempre più messa in
disparte, fino all'azzeramento.


E a cosa servono le parodie di una canzone come Riccione? Assolutamente a nulla. Quando i Thegiornalai (band fittizia creata dal collettivo "satirico" denominato Le Coliche) se ne sono usciti con la loro presa di giro, le considerazioni da fare sono state più d'una, ma principalmente potremmo riassumerle nei seguenti punti:
1- Non si fa una parodia di ciò che è già di per sè parodistico. Riccione, oltre che brutta, nasce come un brano grottesco e caricaturale, dunque non necessita di una ulteriore presa di giro.
2- Dietro la mossa "satirica" delle Coliche si cela- ma nemmeno troppo -una mossa di paraculismo finalizzato a cavalcare l'onda della musica scadente facendole un'indiretta pubblicità.
3- La critica (e con essa la satira, che è una forma di umorismo critico) deve essere radicale, strutturata e non volta a un colorato sfottò, utile tutt'al più a racimolare "mi piace" su YouTube. Altrimenti, si fa la fine di Crozza, che imita tutti senza mai pisciare in faccia a nessuno.


Forse mi sbaglio, ma più che un'estate di uscite a me sembra più un'estate di anteprime. Rimanendo in zona rock e affini, quanta bella (o presunta tale) robina uscirà a settembre? Parecchia. Chissà, per esempio, cosa verrà fuori da questa raccolta di covers targate Motorhead, e da Villains, ritorno attesissimo dei Queens of the Stone Age, e ancora da Sleep Well Beast degli amici The National? Personalmente, ho aspettative altissime per Southern Blood di Gregg Allman, il cui nuovo singolo è s-t-r-e-p-i-t-o-s-o, commovente, splendido. 
Lo trovate qua: https://soundcloud.com/rounder-records/my-only-true-friend-gregg-allman-southern-blood, mentre è già disponibile su Amazon per il pre-ordine nei consueti cinquemila formati diversi (irrinunciabile, per il sottoscritto, la formula cd+DVD contenente il making of del disco). Per il resto è un momento di ri-ascolto, di ri-scoperte, se non addirittura di ri-valutazioni, ma non me la sentirei di dire che le novità siano fioccate. Certo, gli Stones hanno teso un bel colpo basso con la pubblicazione in cd di Ladies and Gentlemen (Eagle Rock, 2017 ), uno di quei live che ti fa correre al supermercato più vicino a comprare una cassa di birra e, con 40° fuori, ti fa girare la manopola dell'impianto verso volumi pericolosamente alti, ma ormai nulla è paragonabile a Brussels Affair, a cui quest'ultima perla si avvicina per più motivi senza però raggiungerne la medesima, cristallina perfezione.
Sempre a proposito di Rolling Stones: ma quanto fan schifo le due canzoni che Mick Jagger ha pubblicato in rete il giorno del suo 74esimo compleanno? Io capisco che certe ricorrenze ti possan prendere la mano, ma così è eccessivo! Se in questo momento un comune fruitore di rock vuol udire un cantante solista al suo peggio, Jagger è un perfetto esempio. La meno peggio delle due, Gotta Get a Grip, la si può ascoltare sia nella sua veste originale che in uno dei tre, quattro remixes in cui è stata resa disponibile, ma il risultato non cambia. Dall'inizio alla fine si è colti dalla netta impressione che Mick ha ormai definitivamente bisogno di Keith Richards (o di Charlie Watts, o di Ron Wood) per tirare su musica non per forza splendida, ma almeno decente. E che, per quanto ci provi da un trentennio buono- mi riferisco, per fortuna, solo alle sue disavventure in solitaria -, non sarà mai David Bowie.



Dave Lemieux arriva al 23esimo appuntamento con i suoi Picks in maniera piuttosto sfilacciata e irritante. Se si esclude lo stratosferico concerto di Boulder registrato a dicembre del 1981 e pubblicato solo lo scorso novembre, ha tirato fuori ben poco di eccitante dagli archives in questi ultimi mesi. Concerti datati 1971 e 1973 compressi in cofanetti tripli e quadrupli, performances uguali a cento altre e una certa sbrigatività nell'apparato critico (da sempre uno dei punti forti di questa serie, assieme alla stratosferica operazione di remastering su HDCD) sono costate alla Rhino più di una critica da parte dei deadheads americani. Qua, ovviamente, la faccenda è un'altra: da noi europei la Dave's Picks neanche esce nei negozi e chi, come il sottoscritto, ne ascolta i frutti lo fa, per forza di cose, piratando. Non esistono alternative. Quando la pagina Facebook del gruppo- in questo periodo spesso attivissima, causa diffusione del megalomane documentario di oltre quattro ore A Long Strange Trip che in Italia, temo, non vedremo mai -ha pubblicato copertina e scaletta del Vol. 23 mi sono sentito male: ancora un concerto di inizio 1978! Come se ci fossimo già dimenticati dello splendido Red Rocks uscito a primavera dell'anno scorso. Tuttavia, questo concerto tenuto il 22 gennaio di quello stesso 1978 a Eugene, Oregon, vanta svariati momenti unici. In particolari, contiene una St. Stephen che basta e avanza a riabilitare Lemieux, a perdonargli gli ultimi scialbi esiti della sua rispettabilissima ricerca filologica e a far guadagnare un posto di tutto rispetto al cofanetto deadiano dell'estate 2017.
Altrettanto rispetto lo merita una vera e propria novità, uscita però dalla famiglia Robinson: sto parlando dei Magpie Salute, mega-gruppo (dieci elementi) diretto da Rich Robinson, il fratello che dei due mi ha sempre ispirato meno simpatia e che di rado ha prodotto- come solista o facente parte di altri progetti -qualcosa che mi smuovesse. Beh, devo ricredermi: questo omonimo esordio della sua nuova band suona pulito, compatto, sincero come poco altro in giro. Covers splendide, pezzi propri (Omission) convincenti, insomma non un capolavoro, ma un disco che potrà piacere sia a chi ha amato i Black Crowes (la cui impronta caratteristica viene maggiormente ripresa rispetto a quanto accaduto nei CRB, che però il sottoscritto continua nettamente a preferire) sia a chi si sta avvicinando ora alla musica americana e che magari è alla disperata ricerca degli eredi della Band, di Delaney & Bonnie (Coming Home è nella tracklist del cd, per l'appunto) e di altre divinità.
Per il resto, come ho già scritto, è un'estate di riscoperte e rivalutazioni. Mi viene in mente il caso di Somewhere in Time degli Iron Maiden, un disco che non ho mai troppo tenuto in considerazione, ma che, con agosto alle porte, è rientrato prepotentemente nella mia vita (assieme a vari pezzi firmati Elton John, Ryan Adams, My Morning Jacket, Fabrizio de Andrè, Count Basie, ecc.). L'estate si fa matura, le vacanze, salvo brevi intervalli marittimi, sono ancora lontane, eppure c'è qualcosa di magico nell'aria che mi fa amare questo album come mai prima d'ora. Un disco di cui si è detto tutto e il contrario di tutto (per alcuni fu un capolavoro incompreso sin dal principio, per altri è l'inizio della fine), inciso da un gruppo ancora provato dalla promozione di Powerslave. Non è un mistero che il continuo alternarsi fra studio e tour avesse logorato gli animi di Steve Harris e Bruce Dickinson, ma il contratto con la EMI fino a quel momento aveva parlato chiaro: quattro album in quattro anni. Sembra che, inizialmente, il materiale fosse poco e l'ispirazione faticasse ad arrivare, almeno stando a quanto emerse dalle sessions tenute agli storici Compass Studios di Nassau, dove avevano visto la luce sia Piece of Mind che Powerslave. La vena compositiva, specie quella di Harris e Smith, aveva bisogno di più tempo per riattivarsi, così a fine 1985 la band si trasferì in Olanda, dove il concept di Somewhere in Time vide definitivamente la luce e dove Martin Birch optò- coraggiosamente -per l'adozione delle synth guitar. Pur non ripetendo i risultati precedenti, il disco (uscito il 29 settembre 1986) vendette molto bene in tutta Europa e anche Oltreoceano. Personalmente, amo molto i Maiden dei primi anni e ben poco mi piace la loro produzione da Seventh Son (compreso) in poi, ma è anche vero che, nel crescere, è aumentata la mia fascinazione nei confronti di dischi un po' obliqui e imperfetti, quelli che nascono dopo la sbornia del successo mondiale, quelli scaturiti da anni di capolavori infilati uno dietro l'altro e che magari aiutano un artista a meglio avviarsi lungo orizzonti meno gloriosi (anche se, nel caso dei Maiden, nulla ha scalfito notorietà e successi dopo gli anni Ottanta, e le cifre parlano chiaro), ma non per questo meno interessanti e coinvolgenti. Non potevo dunque non finire col riscoprire Somewhere in Time, anche dopo così tanto tempo.

Per concludere, sempre con parecchio ritardo, arrivo ad un appuntamento lontano dai sentieri dell'heavy metal, ma, come si dice, meglio tardi che mai. Lungo è il cammino che mi conduce a Don Pullen, pianista nativo della misteriosa isola di Roanoke, Virginia, sbocciato negli anni Settanta (quando, a detta di una lettura jazzistica alquanto superficiale, i giochi erano già stati fatti) e scomparso nel 1995, dopo una lunga militanza in ambienti piuttosto "avanguardistici" del genere. Il mio primo incontro con Pullen- un incontro del tutto casuale -avviene un paio di anni fa, quando porto a casa Mingus Moves di Charles Mingus. Rimango colpito più dalla band che non dal disco in sè, ma non approfondisco, fino a quando, sempre per caso, mi imbatto in delle registrazioni su YouTube. Roba dei primi anni Novanta incisa non con la Atlantic, ma con la Blue Note (ebbene sì, sono uno che nota queste cose), in compagnia di un complesso di musica brasiliana. <<Ma non sarà quel jazz di merda da fricchettoni?>>, mi sarei domandato in altri momenti. Certi luoghi comuni mi hanno più volte allontanato da certi artisti che poi, per ironia della sorte, mi sono ritrovato entusiasticamente intento a scoprire. Non dico che il jazz etnico dell'ultimo Don Pullen sia uno di questi casi: semplicemente, mi sembra materia di ascolto per chiunque ami la bella musica. Dietro di lui una band banalmente rinominata African-Brazilian Connection, ma che di brasiliano vede giusto il percussionista Guilherme Franco e il bassista Nilson Matta, mentre alle voci ospita il percussionista senegalese Mor Thiam e i figli dello stesso Pullen, e all'alto sax il panamense Carlos Ward. Una musica che fa bene, leggera e al contempo in grado di saziare l'anima. Un disco del 1991 è il disco della (mia) estate 2017.